Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/298

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opera, et al muro della Vergine fece un’altra fontana, con una Vergine di sua mano che versa acqua in un pilo; e per quella che è posta al palazzo del signor don Filippo Laroca, fece un putto maggiore del naturale d’una certa pietra che s’usa in Messina, il qual putto, che è in mezzo a certi mostri et altre cose marittime, getta acqua in un vaso. Fece di marmo una statua di quattro braccia, cioè una Santa Caterina martire molto bella, la quale fu mandata a Tarumezia, luogo lontano da Messina 24 miglia. Furono amici di fra’ Giovann’Agnolo, mentre stette in Messina, il detto signor don Filippo Laroca e don Francesco della medesima famiglia, Messer Bardo Corsi, Giovanfrancesco Scali e Messer Lorenzo Borghini, tutti tre gentiluomini fiorentini allora in Messina, Serafino da Fermo et il signor gran mastro di Rodi che più volte fece opera di tirarlo a Malta e farlo cavalieri, ma egli rispose non volere confinarsi in quell’isola, senza che pur alcuna volta, conoscendo che faceva male a stare senza l’abito della sua Religione, pensava di tornare. E nel vero so io che quando bene non fusse stato in un certo modo forzato, era risoluto ripigliarlo e tornare a vivere da buono religioso. Quando adunque al tempo di papa Paulo Quarto, l’anno 1557 furono tutti gl’apostati o vero sfratati astretti a tornare alle loro Religioni sotto gravissime pene, fra’ Giovann’Agnolo lasciò l’opere che avea fra mano et in suo luogo Martino suo creato, e da Messina del mese di maggio, se ne venne a Napoli per tornare alla sua Religione de’ Servi in Fiorenza. Ma prima che altro facesse, per darsi a Dio interamente, andò pensando come dovesse i suoi molti guadagni dispensare convenevolmente; e così dopo avere maritate alcune sue nipote fanciulle povere et altre della sua patria e da Montorsoli, ordinò che ad Angelo suo nipote, del quale si è già fatto menzione, fussero dati in Roma mille scudi e comperatogli un cavaliere del giglio; a due spedali di Napoli diede per limosina buona somma di danari per ciascuno; al suo convento de’ Servi lasciò mille scudi per comperare un podere, e quello di Montorsoli stato de’ suoi antecessori: con questo, che a due suoi nipoti frati del medesimo Ordine fussino pagati ogni anno, durante la vita loro, venticinque scudi per ciascuno, e con alcuni altri carichi che di sotto si diranno; le quali cose, come ebbe accomodato, si scoperse in Roma e riprese l’abito con molta sua contentezza e de’ suoi frati, e particolarmente di maestro Zaccheria. Dopo venuto a Fiorenza fu ricevuto e veduto dagl’amici e parenti con incredibile piacere e letizia. Ma ancor che avesse deliberato il frate di volere il rimanente della vita spendere in servigio di Nostro Signore Dio e dell’anima sua e starsi quietamente in pace, godendosi un cavalierato che s’era serbato, non gli venne ciò fatto così presto, perciò che, essendo con istanzia chiamato a Bologna da maestro Giulio Bovio, zio del vascone Bovio, perché facesse nella chiesa de’ Servi l’altar maggiore tutto di marmo et isolato, et oltre ciò una sepoltura con figure e ricco ornamento di pietre mischie et incostrature di marmo, non poté mancargli, e massimamente avendosi a fare quell’opera in una chiesa del suo Ordine. Andato dunque a Bologna e messo mano all’opera, la condusse in ventotto mesi, facendo il detto altare, il quale da un pilastro all’altro chiude il coro de’ frati tutto di marmo dentro e fuori con un Cristo nudo nel mezzo di braccia due e mezzo e con alcun’altre statue dagli lati.