Pagina:Vasari - Le vite de' piu eccellenti pittori, scultori, et architettori, 3-2, 1568.djvu/630

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La qual Vergine, dico, è sostenuta in aria dentro a uno splendore da molti Angeletti nudi, illuminati dai raggi che vengono da lei, i quali raggi parimente, passando fra le foglie dell’albero, rendono lume ai legati e pare che vadano loro sciogliendo i legami con la virtù e grazia che hanno da colei donde procedono. In cielo poi, cioè nel più alto della tavola sono due putti che tengono in mano alcune carte, nelle quali sono scritte queste parole: "Quos Evae culpa damnavit, Mariae gratia solvit". Insomma io non avea fino allora fatto opera, per quello che mi ricorda, né con più studio, né con più amore e fatica di questa, ma tuttavia, se bene satisfeci a altri per aventura, non satisfeci già a me stesso, come che io sappia il tempo, lo studio e l’opera ch’io misi particolarmente negl’ignudi, nelle teste, e finalmente in ogni cosa. Mi diede Messer Bindo, per le fatiche di questa tavola, trecento scudi d’oro, et inoltre l’anno seguente mi fece tante cortesie et amorevolezze in casa sua in Roma, dove gli feci in un piccol quadro, quasi di minio, la pittura di detta tavola, che io sarò sempre alla sua memoria ubbligato. Nel medesimo tempo ch’io feci questa tavola che fu posta, come ho detto, in S. Apostolo, feci a Messer Ottaviano de’ Medici una Venere et una Leda con i cartoni di Michelagnolo, et in un gran quadro un San Girolamo, quanto il vivo, in penitenza, il quale contemplando la morte di Cristo, che ha dinanzi in sulla croce, si percuote il petto, per scacciare della mente le cose di Venere e le tentazioni della carne, che alcuna volta il molestavano, ancor che fusse nei boschi e luoghi solinghi e salvatichi, secondo che egli stesso di sé largamente racconta. Per lo che dimostrare, feci una Venere, che con Amore in braccio fugge da quella contemplazione, avendo per mano il Giuoco et essendogli cascate per terra le frecce et il turcasso; senzaché le saette da Cupido tirate verso quel Santo, tornano rotte verso di lui, et alcune, che cascano, gli sono riportate col becco dalle colombe di essa Venere. Le quali tutte pitture, ancora che forse allora mi piacessero e da me fussero fatte come seppi il meglio, non so quanto mi piacciano in questa età. Ma perché l’arte in sé è dificile, bisogna torre da chi fa quel che può. Dirò ben questo, però che lo posso dire con verità, d’avere sempre fatto le mie pitture, invenzioni e disegni comunche sieno, non dico con grandissima prestezza, ma sì bene con incredibile facilità e senza stento: di che mi sia testimonio, come ho detto in altro luogo, la grandissima tela ch’io dipinsi in San Giovanni di Firenze in sei giorni soli l’anno 1542, per lo battesimo del signor don Francesco Medici, oggi principe di Firenze e di Siena. Ora se bene io voleva, dopo quest’opere, andare a Roma per satisfare a Messer Bindo Altoviti, non mi venne fatto; perciò che chiamato a Vinezia da Messer Pietro Aretino, poeta allora di chiarissimo nome e mio amicissimo, fui forzato, perché molto disiderava vedermi, andar là; il che feci anco volentieri per vedere l’opere di Tiziano e d’altri pittori in quel viaggio. La qual cosa mi venne fatta, però che in pochi giorni vidi in Modena et in Parma l’opere del Coreggio, quelle di Giulio Romano in Mantoa, e l’antichità di Verona finalmente. Giunto in Vinezia con due quadri dipinti di mia mano con i cartoni di Michelagnolo, gli donai a don Diego di Mendozza, che mi mandò dugento scudi d’oro. Né molto dimorai a Vinezia, che pregato dall’Aretino feci ai signori della Calza l’apparato d’una loro festa, dove ebbi