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FILIPPO BRUN. 323

al luogo suo, metteva in quella, senza esser veduto, una chiavarda, et ella restava in piedi e ferma. Dentro la mandorla era, a uso d’angelo, un giovinetto di quindici anni in circa cinto nel mezzo da un ferro e nella mandorla da piè chiavardato in modo che non poteva cascare, e perchè potesse ingenochiarsi, era il detto ferro di tre pezzi, onde ingenochiandosi entrava l’un nell’altro agevolmente. E così quando era il mazzo venuto giù e la mandorla postata in sulla residenza, chi metteva la chiavarda alla mandorla schiavava anco il ferro che reggeva l’angelo, onde egli uscito caminava per lo palco e giunto dove era la Vergine la salutava et annunziava. Poi tornato nella mandorla e raccesi i lumi che al suo uscirne s’erano spenti, era di nuovo chiavardato il ferro che lo reggeva, da colui che sotto non era veduto; e poi allentato quello che la teneva, ell’era ritirata su, mentre cantando gl’angeli del mazzo e quelli del cielo che giravano, facevano che quello pareva propriamente un paradiso e massimamente, che oltre al detto coro d’angeli et al mazzo, era a canto al guscio della palla un Dio Padre circondato d’angeli simili a quelli detti di sopra e con ferri accomodati. Di maniera che il cielo, il mazzo, il Dio Padre, la mandorla con infiniti lumi e dolcissime musiche rappresentavano il Paradiso veramente. A che si aggiugneva, che per potere quel cielo aprire e serrare, aveva fatto fare Filippo due gran porte, di braccia cinque l’una per ogni verso, le quali per piano avevano in certi canali curri di ferro, o vero di rame, et i canali erano unti talmente, che quando si tirava con un arganetto un sottile canapo che era da ogni banda, s’apriva o riserrava, secondo che altri voleva, ristrignendosi le due parti delle porte insieme, o allargandosi per piano mediante i canali. E queste così fatte porte facevano duoi effetti: l’uno, che quando erano tirate per esser gravi facevano rumore a guisa di tuono; l’altro, perchè servivano, stando chiuse, come palco per aconciare gl’Angeli et accomodar l’altre cose che dentro facevano di bisogno. Questi dunque così fatti ingegni e molti altri, furono trovati da Filippo; se bene alcuni altri affermano che egli erano stati trovati molto prima. Comunche sia, è stato ben ragionarne, poichè in tutto se n’è dismesso l’uso. Ma tornando a esso Filippo, era talmente cresciuta la fama et il nome suo, che di lontano era mandato per lui da chi aveva bisogno di far fabriche per avere disegni e modelli di mano di tanto uomo; e si adoperavano perciò amicizie e mezzi grandissimi. Onde infra gl’altri disiderando il Marchese di Mantoa d’averlo, ne scrisse alla Signoria di Firenze con grande instanza, e così da quella gli fu mandato là, dove diede disegni di fare argini in sul Po l’anno 1445; et alcune altre cose, secondo la volontà di quel Principe, che lo accarezzò infinitamente, usando dire che Fiorenza era tanto degna d’avere Filippo per suo cittadino, quanto egli d’aver sì nobile e bella città per patria. Similmente in Pisa il conte Francesco Sforza e Niccolò da Pisa, restando vinti da lui in certe fortificazioni, in sua presenza lo comendarono, dicendo che se ogni stato avesse un uomo simile a Filippo, che si potrebbe tener sicuro senza arme. In Fiorenza diede similmente Filippo il disegno della casa di Barbadori, allato alla torre de’ Rossi in borgo S. Iacopo, che non fu messa in opera; e così anco fece il disegno della casa de’ Giuntini in sulla piazza d’Ogni Santi, sopra Arno. Dopo, disegnando