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il capo e chi con fare ombra agl’occhi con le mani si difende dai raggi e dalla immensa luce dello splendore di Cristo. Il quale vestito di colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la essenza e la deità di tutt’e tre le Persone unitamente ristrette nella perfezzione dell’arte di Raffaello, il quale pare che tanto si restrignesse insieme con la virtù sua, per mostrare lo sforzo et il valor dell’arte nel volto di Cristo, che finitolo, come ultima cosa che a fare avesse, non toccò più pennelli, sopragiugnendoli la morte. Ora, avendo raccontate l’opere di questo eccellentissimo artefice, prima che io venga a dire altri particolari della vita e morte sua, non voglio che mi paia fatica discorrere alquanto per utile de’ nostri artefici intorno alle maniere di Raffaello. Egli dunque, avendo nella sua fanciullezza imitato la maniera di Pietro Perugino suo maestro, e fattala molto migliore, per disegno, colorito et invenzione, e parendogli aver fatto assai, conobbe, venuto in migliore età, esser troppo lontano dal vero. Perciò che vedendo egli l’opere di Lionardo da Vinci, il quale nell’arie delle teste, così di maschi come di femmine, non ebbe pari e nel dar grazia alle figure e ne’ moti superò tutti gl’altri pittori, restò tutto stupefatto e maravigliato; et insomma, piacendogli la maniera di Lionardo più che qualunche altra avesse veduta mai, si mise a studiarla e lasciando, se bene con gran fatica a poco a poco la maniera di Pietro, cercò, quanto seppe e poté il più, d’imitare la maniera di esso Lionardo. Ma per diligenza o studio che facesse, in alcune difficultà non poté mai passare Lionardo; e se bene pare a molti che egli lo passasse nella dolcezza et in una certa facilità naturale, egli nondimeno non gli fu punto superiore in un certo fondamento terribile di concetti e grandezza d’arte, nel che pochi sono stati pari a Lionardo. Ma Raffaello se gli è avvicinato bene più che nessuno altro pittore, e massimamente nella grazia de’ colori. Ma tornando a esso Raffaello, gli fu col tempo di grandissimo disaiuto e fatica quella maniera che egli prese di Pietro, quando era giovanetto; la quale prese agevolmente per essere minuta, secca e di poco dissegno; perciò che, non potendosela dimenticare, fu cagione che con molta difficultà imparò la bellezza degl’ignudi et il modo degli scorti difficili dal cartone, che fece Michelagnolo Buonarroti per la sala del Consiglio di Fiorenza, et un altro che si fusse perso d’animo, parendogli avere insino allora gettato via il tempo, non arebbe mai fatto, ancor che di bellissimo ingegno, quello che fece Raffaello, il quale smorbatosi e levatosi da dosso quella maniera di Pietro per apprender quella di Michelagnolo piena di difficultà in tutte le parti, diventò quasi di maestro nuovo discepolo; e si sforzò con incredibile studio di fare, essendo già uomo, in pochi mesi quello che arebbe avuto bisogno di quella tenera età che meglio apprende ogni cosa e de lo spazzio di molti anni. E nel vero chi non impara a buon’ora i buoni principii e la maniera che vuol seguitare et a poco a poco non va facilitando con l’esperienza le difficultà dell’arti, cercando d’intendere le parti e metterle in pratica, non diverrà quasi mai perfetto; e se pure diverrà, sarà con più tempo e molto maggior fatica. Quando Raffaello si diede a voler mutare e migliorare la maniera, non aveva mai dato opera agl’ignudi con quello studio che si ricerca, ma solamente gli aveva ritratti di naturale, nella maniera che aveva