Pagina:Verne - Il giro del mondo in ottanta giorni, Milano, Treves, 1873.djvu/178

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r tutto ed a comperare di tutto, in mezzo a’ quali il Francese si trovava tanto estraneo come se fosse stato gettato nel paese degli Ottentotti.

Gambalesta aveva bensì un espediente; quello di raccomandarsi agli agenti consolari francesi o inglesi stabiliti a Yokohama; ma gli ripugnava il raccontare la sua storia, così intimamente commista a quella del suo padrone, e prima di risolversi a ciò, egli voleva aver esaurito tutti gli altri mezzi.

Laonde, dopo aver percorso la parte europea della città, senza che la sorte lo avesse in nulla aiutato, egli entrò nella parte giapponese, deciso, all’occorrenza, di avanzarsi sino a Yeddo.

Quella porzione indigena di Yokohama è chiamata Benten, dal nome di una dea del mare, adorata sulle isole vicine. Ivi si vedevano ammirabili viali di abeti e di cedri, porte sacre di un’architettura strana, ponti nascosti in mezzo ai bambù ed alle canne, tempii riparati sotto la vôlta immensa e malinconica dei cedri secolari, bonzerie in fondo alle quali vegetavano i sacerdoti del buddismo e i settari della religione di Confucio, vie interminabili in cui si poteva raccogliere una messe di fanciulli dalla carnagione rosea e dalle guance rosse, piccoli fantocci che parevano intagliati da qualche paravento indigeno, e che si trastullavano in mezzo a cani barboni dalle gambe corte e a gatti giallastri, senza coda, molto pigri e molto carezzevoli.

Nelle vie, era tutt’un formicolìo, un andirivieni incessante: bonzi che passavano processionalmente picchiando i loro tamburelli monotoni, yakunini, ufficiali di dogana o di polizia, dai cappelli acuminati incrostati di lacca, e che portavano due sciabole alla cintura, soldati vestiti di cotonine azzurre