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rvegliare di quella dell’Atlantico, doveva aver ottenuto la sua preferenza.
Fix non istette un pezzo immerso nelle sue riflessioni. Acuti fischi annunziarono l’arrivo del piroscafo. Tutta l’orda di facchini e di fellah si precipitò allora verso il molo di sbarco, in un tumulto un po’ inquietante per le membra e gli abiti dei passaggeri.
In breve si scorge il gigantesco scafo del Mongolia, che passava tra le rive del canale, e undici ore suonavano allorchè lo steamer andò ad ancorarsi in rada mentre il suo vapore si sprigionava con grande strepito dai tubi di sfogo.
I passaggieri erano in buon numero a bordo. Taluni rimasero sul falso ponte a contemplare il panorama pittoresco della città: ma i più sbarcarono nei cannotti che erano andati ad accostare il Mongolia.
Fix esaminava scrupolosamente tutti quelli che mettevano piede a terra.
In quel momento, uno di essi gli si accostò, dopo di aver vigorosamente respinto i fellah che l’assalivano con le loro offerte di servizio, e gli chiese con tutta cortesia se poteva indicargli gli uffici dell’agente consolare inglese. E in pari tempo quel passeggiero presentava un passaporto, sul quale bramava senza dubbio far apporre il visto britannico.
Fix, istintivamente, prese il passaporto, e con rapida occhiata ne lesse i connotati.
Un movimento involontario stette per isfuggirgli. Il foglio tremò nella sua mano; i connotati registrati nel passaporto erano identici a quelli ch’egli aveva ricevuti dal direttore della polizia metropolitana.
«Questo passaporto è vostro? diss’egli al passaggiero.