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10 capitolo i.

terra prima di notte, passeggieri, navicella e pallone andrebbero inevitabilmente ad inabissarsi nelle onde.

La sola manovra che allora rimanesse a fare fu fatta. I passeggieri dell’aerostato erano persone energiche, di quelle che sanno guardare la morte in faccia. Non si avrebbe inteso un mormorío sfuggir dalle loro labbra. Erano determinati a lottare fino all’ultimo istante ed a far di tutto per ritardare la caduta. La loro navicella era solo una specie di cassa di vimini e non vi aveva possibilità di sorta di farla galleggiare se mai cadesse in mare. Alle due l’aerostato distava appena quattrocento piedi dai flutti.

In quella s’udì una voce maschia, la voce d’un uomo dal cuore inaccessibile alla paura, ed a quella risposero voci non meno energiche.

— Abbiamo gettato ogni cosa?

— Rimangono i vostri diecimila franchi d’oro, Ciro.

— All’acqua!

Un sacco pesante cadde in mare.

— Ci risolleviamo?

— Un poco... ma ora ricadiamo.

— Che rimane ancora da gettare?

— Nulla.

— Sì! rimane la navicella.

— In mare la navicella ed aggrappiamoci alla rete.

Era infatti il solo ed ultimo mezzo di alleggerire l’aerostato. Furon recise le corde che trattenevano la navicella, e questa cadde in mare; così il pallone si risollevò ben duemila piedi.

I cinque passeggieri s’erano issati nella rete sopra il cerchio e si tenevano appesi alle maglie guardando all’abisso.

Si sa di quanta sensibilità statica sieno dotati gli aerostati; basta gettare il più lieve oggetto per cagionare un’ascensione: l’apparecchio librantesi nell’aria è come una bilancia di matematica esattezza: si comprende dunque che, alleggerito d’un peso re-