Pagina:Verne - L'isola misteriosa, Tomo I, Milano, Guigoni, 1890.pdf/238

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Ogni cosa era bianca, dalla vetta del monte Franklin fino al litorale, foreste e praterie, lago, fiume, creti. L’acqua della Grazia scorreva sotto una vetta di ghiaccio che ad ogni flusso e riflusso si squagliava e si rompeva rumorosamente.

Gran numero d’uccelli svolazzavano sulla superficie del lago: anitrelli, beccaccini, urie: si conta vano a migliaja. Le rocce, fra le quali si versava la cascata sul lembo dell’altipiano, erano irte di ghiacci. Si avrebbe detto che l’acqua uscisse da una mostruosa gronda lavorata con tutto il capriccio d’un’artista del Rinascimento. Quanto a giudicare dei danni cagionati alla foresta dall’uragano, non si poteva farlo ancora; bisognava aspettare che l’immenso strato bianco si fosse dissipato.

Gedeone Spilett, Pencroff ed Harbert non tralasciarono in quest’occasione d’andar a visitare le loro trappole. Non fu facile rinvenirle sotto la neve che le copriva, e conveniva anche guardarsi per non sprofondare in qualcuna di esse: il che sarebbe stato pericoloso, senza contar l’umiliazione di lasciarsi prender nel proprio tranello. Ma finalmente le trappole vennero ritrovate, ed in perfetto stato. Nessun animale v’era caduto, eppure frequenti erano le pedate nei dintorni, e si vedeano, fra le altre impronte, quelle di certi artigli nettamente disegnate. Harbert non esitò ad affermare che un qualche carnivoro del genere dei felini era passato per di là; il che giustificava l’opinione dell’ingegnere, circa la presenza di belve feroci nell’isola Lincoln. Senza dubbio, quelle belve abitavano le fitte foreste del Far-West, ma spinte dalla fame s’erano avventurate fino all’altipiano di Lunga Vista. Sentivano esse gli ospiti del Palazzo di Granito?

— Insomma, che cosa sono codesti felini? domandò Pencroff.

— Sono tigri, rispose Harbert.