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scire, e se non fosse la tempesta.... Ma se non fosse la tempesta, il pallone sarebbe già partito e l’occasione tanto ricercata non si presenterebbe mai.
— Ma io non sono solo, disse Cyrus Smith.
— Quante persone vorreste condur con voi? domandò il marinajo.
— Due, il mio amico Spillett ed il mio servitore Nab.
— Che son tre, rispose Pencroff, ed Harbert ed io cinque. Ora il pallone dovea portarne sei.
— Va bene, partiremo, disse Cyrus Smith.
Codesto «partiremo» impegnava il reporter, il quale peraltro non era uomo da dare indietro, e come seppe il disegno lo approvò senza riserva, meravigliandosi solo che un’idea cotanto semplice non gli fosse venuta al primo vedere il pallone. Quanto a Nab, egli seguiva il suo padrone da per tutto dove volesse andare.
— A questa sera dunque, disse Pencroff, noi gironzeremo tutti e cinque da quelle parti, come curiosi.
— A questa sera alle dieci, rispose Cyrus Smith, e faccia il Cielo che l’uragano non cessi prima della nostra partenza!
Pencroff tolse commiato dai due amici e se ne tornò a casa, dove l’attendeva il giovine Harbert Brown. Il coraggioso giovinetto conosceva già il disegno del marinajo, e non senza una certa ansietà aspettava il risultato della proposta fatta all’ingegnere. Come si vede, eran cinque uomini determinati a gettarsi in balia dell’uragano.
Il tempo non cambiò, onde Jonathan Forster ed i suoi compagni non potevano pensare nemmeno ad affidarsi al vento nella fragile navicella; la giornata fu terribile, chè le raffiche erano cresciute. Di una cosa sola temeva l’ingegnere, cioè che l’aerostato, trattenuto al suolo e coricato sottovento, si lacerasse. Per molte ore egli gironzò sulla piazza quasi deserta sorvegliando l’apparecchio. Pencroff faceva altrettanto