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capitolo v. 103


Il giovane operaio s’avanzò contro Pittonaccio, il quale gli sfuggì come un’ombra.

«Ferma Aubert, disse mastro Zaccaria.

— Buona notte, disse Pittonaccio, e scomparve.

— Babbo, esclamò Geranda, fuggiamo questi luoghi maledetti... babbo!...

Mastro Zaccaria non era più là, egli inseguiva attraverso i piani sfondati il fantasma di Pittonaccio.

Scolastica, Aubert e Geranda rimasero sbigottiti in quell’immensa sala. La giovinetta era caduta sopra un seggiolone di pietra; la vecchia s’inginocchiò accanto a lei e pregò; Aubert rimase in piedi a vegliare sulla fidanzata. Pallidi bagliori serpeggiavano nell’ombra, il silenzio era solo interrotto dal lavorio dei tarli che rodono i legni antichi, ed il cui rumore segna gli intervalli dell’orologio della morte.

Ai primi raggi del giorno tutti e tre si avventurarono nelle scalinate senza fine che circolavano sotto quel cumulo di sassi. Per due ore vagarono così senza incontrare anima viva, e non udendo altro che un eco lontano in risposta alle loro grida. Ora si trovavano cento piedi sotto terra, ora dominavano dall’alto le montagne selvaggie. Il caso li condusse finalmente nella vasta sala che li aveva ricoverati in quella notte d’angoscie. Non era più vuota. Mastro Zaccaria e Pittonaccio vi discorrevano insieme, l’uno in piedi e rigido come un cadavere, l’altro accosciato sopra una tavola di marmo.

Mastro Zaccaria, com’ebbe visto Geranda, venne a prenderla per mano e la condusse innanzi a Pittonaccio dicendo: «Ecco il tuo signore e padrone, figlia mia! Geranda, ecco il tuo sposo.

Geranda rabbrividì da capo a piedi.

«Giammai, gridò Aubert, essa è la mia fidanzata.

— Giammai, rispose Geranda, come un eco lamentevole.

Pittonaccio uscì in una risata.

«Mi volete dunque morto! gridò il vecchio, là, in quell’orologio, l’ultimo che cammini ancora di tutti quelli che sono usciti dalle mie mani, là è chiusa la mia vita, e quest’uomo mi ha detto: «quando avrò tua figlia questo orologio ti appar-