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7. Turia.
Partito il mondo nel fatai congresso,
i gelosi triumviri segnaro
l’aspra sentenza, che al sanguigno acciaro
destina il capo di Lucrezio istesso.
Com’ode Turia l’esecrando eccesso,
bagna il tenero sen di pianto amaro,
e quel capo mirando a lei si caro
tutto lo cinge di un pietoso amplesso.
Poi dolce esclama: — O tu che ben discerni
l’affanno mio, se di quest’alma hai cura,
perché mai non t’involi ai numi inferni? —
Quinci destra lo appiatta e rassicura
nel muto sen degli embrici paterni,
né alcuno il sa, fuor che la notte oscura.
LXV
SONETTO PASTORALE
Ora che teco in su l’erboso letto
di questo ameno e rustico pendio,
sediamo, o pastorella, Alcone ed io,
mentre pascola il gregge entro al boschetto;
tu che inesperta non conosci affetto,
odi, tenera Nice, il parlar mio.
Due pastori or contempli, e un sol desio
pensi che l’uno e l’altro accolga in petto.
Io miro il tuo bel labbro e le tue chiome,
né cangio volto, né mi batte il core:
e questa, o Nice, «indifferenza» ha nome.
Or volgiti ad Alcon. Guarda il rossore
che tutto lo invermiglia. Osserva come
palpita nel mirarti: e quello è «amore».