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46 | pensieri | (531-532) |
ferenti poi, come maschere ec. ec (vedi il Saggio sugli errori popolari degli antichi). Quest’ultimo timore era cosí terribile in quell’età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per formidabile che sia, ha forza in altra età di produrre in noi angoscie, smanie, orrori, spasimi, travaglio, insomma, paragonabile a quello dei detti timori fanciulleschi. L’idea degli spettri, quel timore spirituale, soprannaturale, sacro e di un altro mondo, che ci agitava frequentemente in quell’età, aveva un non so che di sí formidabile e smanioso, che non può esser paragonato con verun altro sentimento dispiacevole dell’uomo. Nemmeno il timor dell’inferno in un moribondo credo che possa essere cosí intimamente terribile. Perché la ragione e l’esperienza rendono inaccessibili a qualunque sorta di sentimento quell’ultima e profondissima (532) parte e radice dell’animo e del cuor nostro, alla quale penetrano e arrivano e la quale scuotono e invadono le sensazioni fanciullesche o primitive e in ispecie il detto timore (20 gennaio 1821). Vedi p. 535, capoverso 1.
* Quid dulcius quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum? Quis esset tantus fructus in prosperis rebus, nisi haberes, qui illis aeque ac tu ipse gauderet? Cicerone, Laelius sive de amicitia, cap. 6 (20 gennaio 1821).
* Il piacere umano (cosí probabilmente quello di ogni essere vivente in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’é sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Io ho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non è piacevole se non perché ci dà una