i Greci et qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare in un’altra lingua, che non è quella, dell’oratore; anzi i piú lodati Toscani all’hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che da’ Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante cosí intieri, come li fece la sua Comedia.) 1 Non parrebbe da queste parole che l’Italia non avesse lingua propriamente (3414) poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica? E non è d’altronde manifesto ch’ella ha una lingua poetica piú distinta dalla prosaica che non è quella di forse niun’altra lingua vivente, e certo piú che non è quella de’ latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad intendere la prosa latina, intendiamo con poco piú studio la poesia (lo studio che ci vuole, e il divario tra il linguaggio della poesia latina e della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle trasposizioni, ossia nell’ordine e costruzione delle parole, ch’in parte è diversa), ma uno straniero, non perciò ch’egli ottimamente intendesse la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la poetica? Tant’è. Nello stesso cinquecento l’Italia non aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del linguaggio tra i poeti e gli oratori non era per anche se non lieve, e male o insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de’ trecentisti, e questa era similissima alla lingua poetica, perché la lingua poetica del trecento era quasi una colla prosaica. Gli scrittori poetici che, scostandosi dalla lingua del trecento, volevano
- ↑ Vedi p. 3561.