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Pagina:Zola - Nana - Pavia - 1881.pdf/423

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Dimenticava tatto, la calca dei maschi che l’attraversava, il lutto che ne chiudeva l’ ingresso.

Di fuori, all’aria aperta della via, piangeva di vergogna e si ribellava, giurando di non rientrarvi più mai. E, non appena la portiera ricadeva, era vinto di nuovo, si sentiva fondere nel topore dell’ambiente, la carne penetrata da un profumo, invasa da un voluttuoso desiderio di annichilamento. Lui, devoto, abituato alle estasi delle cappelle dorate, ritrovava esattamente le sue impressioni di credente, allorquando, genuflesso sotto un finestrone, soccombeva all’ebbrezza degli organi e degli incensi. La donna lo possedeva col dispotismo d’un Dio feroce, lo atteriva, dandogli brevi attimi di gioie acute come spasimi, in cambio di ore di tormenti orribili, delle visioni d’inferno e di eterni supplizi. Erano le stesse preghiere mormorate, la stessa disperazione, sopratutto le stesse umiltà di una creatura maledetta, schiacciata sotto l’obbrobrio della sua origine.

I suoi desideri d’uomo, i bisogni della sua anima si confondevano, sembrava salissero dal fondo buio del suo essere, come una sola fioritura dal trono della vita. Egli si abbandonava alla forza dell’amore e della fede, la cui duplice leva solleva il mondo. E sempre, ad onta delle lotte, della sua ragione, quella camera di Nana, lo impazziva, soccombeva an:nichilito e rabbrividendo all’onnipotenza del #esso, nella stessa guisa che cadeva svenuto davanti all’ignoto dell’ampio cielo.

AWUora, quand’essa lo sentì così umile, Nana ebbe il trionfo stirannico. Aveva d’istinto la smania di avvilire. Non le bastava distruggere, deturpava. Le sue mani così fine, lasciavano traccie abbominevoli, scomponevano, imputridivano quanto aveva spezzato. E lui, imbecille, si prestava a quel gioco, col vago ricordo dei santi rosì dai pidocchi, che si nutrivano dei doro escrementi.

Quand’essa lo aveva seco, nella sua camera, a porte chiuse, si regolava il piacere dell’ infamia dell’uomo. In sulle prime, “era per chiasso, essa gli allungava delle lievi ceffate, gli imponeva delle bizzarie, lo faceva balbettar come un bimbo, vipeter lembi di ina

— Di’ come me: ed ecco! Coco se ne infischia!»