Pagine politiche/I militari rammentino ch'essi pure son popolo
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Una grave dimostrazione aveva luogo ier sera. La Brigata Regina irritata da una di quelle molte angherie che si commettono contro i soldati, i quali hanno avuto l’audacia di combattere meglio che i loro capi non desideravano, prorompeva in grida contro alcuni dei suoi capi e contro il governo; i fatti del giorno le davano occasione di sfogare il malcontento che freme nel petto alla maggior parte, la migliore, della nostra armata; la causa di questo malcontento è facile a scorgersi. I Generali – ed altri – che nelle nostre infamie militari non veggono che il frutto dell’opera loro, possono contemplare ciò con occhio tranquillo, e forse compiacersi d’aver comprato a tale prezzo gradi e paghe; ma il povero soldato che dava la sua vita senz’altro desiderio che di servire la patria, senza altra speranza che la gloria, senza altra gioia che la vittoria, deve sentirsi fremere l’anima nel vedere la vita dei suoi fratelli e il proprio sangue prodigato per ricondurre Radetzky a Milano, e il quartier generale a Torino, e il nome di soldati italiani ch’esso proferiva con orgoglio, cambiato in un titolo di scherno. I soldati che non sono ministri, né regii commissari, non hanno questa filosofica superiorità per cui le questioni d’onore e di disonore si guardano da alto come volgari pregiudizi. E poi è noto che essi furono dal governo mandati fra noi per mettere a ragione con la baionetta quei «matti di genovesi»; si sa che fu loro proibito – benché pare, con poco frutto – di mostrarsi insieme coi cittadini, che si andava loro insinuando essere i Genovesi che colla loro esaltazione li aveano mandati al macello, tutto ciò già s’intende per amore e unione – frase sacramentale dei giornali e degli uomini governativi – e per tema che la loro moralità potesse nel contatto corrompersi. Ma i soldati non sono poi cosí gonzi, come «alcuno» sperava, desiderava e credeva. Essi si avvidero che tutt’altro ch’esser giunti fra nemici, erano giunti fra fratelli che li onoravano ed amavano, si avvidero che non eravamo noi che gli avevamo condotti ai bivacchi di Mantova perché morissero di malaria, che li avevamo trattenuti in ogni vittoria per non essere troppo scortesi coll’amico Radetzky, che li avevamo mandati a farsi massacrare a S. Lucia per prendere posizioni che si abbandonavano volontariamente pochi minuti dopo; che mandavamo indietro le munizioni da bocca perché erano pieni i magazzini, mentre i soldati cadevano per fame... Si avvidero insomma che gli autori della sanguinosa commedia erano tutt’altri che noi. Figuratevi come si commossero dolorose le viscere paterne dei regii commissari, dei ministri, ed «altri» nel vedere che i Genovesi fischiavano i traditori, e stringevano la mano de’ loro prodi fratelli della milizia; che i soldati pranzavano, fumavano, passeggiavano per le strade coi cittadini... «O tempora, o mores!»
I dottrinarii, a malgrado della loro dottrina, pare non abbiano ancora compreso che è passato il tempo in cui i soldati erano macchine che si muovevano, si fermavano, facevano di tutto – anche il boia – secondo piaceva a chi li pagava e bastonava; ora i soldati non sono che cittadini armati i quali non intendono per niente di aver venduto il cuore, la coscienza, l’anima loro.
Di fatto l’altra sera stanchi di far la figura di croati, e per giunta di digiunare, e di dormire in terra, per far dormire piú tranquillamente il signor Durando, la Brigata Regina faceva chiasso nei suoi quartieri, gridava che voleva bivaccare ma al campo, pattugliare ma contro i tedeschi, ed esprimeva la sua antipatia a far la guardia di polizia ripetendo le grida di: Viva Genova, Viva la Libertà, Viva il Popolo – e il Popolo che passava gridava Viva la Brigata Regina – chi non avrebbe fatto altrettanto? Ma le autorità che nei loro giornali parlano sempre di unione e concordia, pare non amassero questa unione, questa concordia. È doloroso che l’unione che piace a loro, non piaccia a noi, e l’unione che piace a noi non piaccia a loro; per consolarci non possiamo che ripetere col poeta: «Sono i gusti degli uomini diversi».
Il generale Pareto con intempestivo consiglio si metteva a capo di una pattuglia mista di guardie nazionali e di soldati e li schierava in modo da sbarrar la via, la folla faceva tosto piegare il debole argine, allora il Pareto con anche piú intempestivo consiglio comandava s’incrociassero le baionette, ma sí la guardia nazionale che la milizia avevano abbastanza buon senso per non farne nulla, o farlo in nodo da non far male a nessuno, e anzi molti del popolo si prendevano sotto il braccio i soldati di pattuglia e se ne andavano avanti da buoni fratelli – Viva l’Unione! –. Per verità sarebbe stata cosa spiacevole che la forza armata con un’inutile resistenza provocasse un vero tumulto, che il sangue cittadino scorresse perché la Brigata Regina aveva gridato Viva i Genovesi, e i Genovesi avevan gridato Viva la Brigata Regina.
Ciò che veramente vi fu di spiacevole è che il Pareto cavasse la spada, dando cosí luogo ad alcuni che se ne credean minacciati di rompergliela in due pezzi, e provocando molto tumulto contro di lui.
Noi conosciamo il Pareto, non crediamo che la sua posizione politica sia stata, né sia utile alla patria, però stimiamo il suo animo generoso, e quando anche fossimo avversi alle sue opinioni ci faremmo sempre un pregio di riconoscere ch’egli può errare – e crediamo ch’erri spesso – d’intelletto, non mai di cuore; noi non confondiamo né lui né Ricci con molti altri colleghi miserabili cacciatori di portafogli – però osserviamo che spesso l’errore dei buoni non è meno pernicioso della colpa dei tristi. E per venire al caso pratico il Pareto doveva considerare che solo casi gravissimi rendono talvolta scusabile l’usar della forza, che spesso un esagerato amore dell’ordine può dar luogo a disordini serii davvero, e che la guardia civica in quel momento poteva essere dalla milizia considerata come una minaccia contro di loro, ciò che avrebbe servito assai alle mire del governo seminando divisioni ed odii fra i cittadini e l’armata. Al domani la guardia nazionale era invitata ad una dimostrazione in favore del Pareto, e vi accorreva in numero bastevole, ma noi crediamo che fossero piú sentiti gli applausi che i cittadini facevano già altre volte a Lorenzo Pareto, che quelli fatti dalla guardia nazionale al suo generale. Noi abbiamo parlato del Pareto perché la sua persona merita tale riguardo ch’egli non può mostrarsi in un fatto senza che si faccia parola di lui; ma ciò che lo riguarda non è che cosa secondaria nell’avvenimento di cui discorriamo; ciò che vi è di veramente importante è la simpatia che si sviluppa fra la milizia ed il popolo; noi salutiamo con gioia ogni sintomo di questa fratellanza, però che in essa vediamo riposta la salute e l’onore della patria. – Noi non speriamo nulla dai governi – li riguardiamo come cadaveri – crediamo che l’indipendenza si conquisterà sotto alla bandiera del Popolo: che i militari rammentino ch’essi pure son Popolo, e che la divisa del soldato non cancella il battesimo di cittadino.
Note
- ↑ Pubblicato in Il Diario del Popolo, Genova, 14 ottobre 1848.