Panegirico di Plinio a Trajano/VII

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Capitolo VII

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[p. 59 modifica]Ma sempre, malgrado mio, mentre io mi propongo di esporre i mezzi di annullar la tirannide, non so qual Nume, con irresistibile forza mi tragge ad esporre e descrivere i divini effetti, che dalla estirpazione di essa ridonderebbero; e, senza avvedermene quasi, ad enumerarli pur sempre trascorro. Cedasi dunque all’impetuoso sovrano Genio della libertà, ch’egli è certamente l’inspirator de’ miei sensi; e col ragionar degli effetti diversi di essa, in tal maniera l’animo di Trajano si accenda a restituir libertà, e quello dei Romani a, desiderandola, meritarla, che dalla perfetta concorde ed intera volontà di chi ardentemente la brama, e di chi umanamente ad accordarla si appresta, vengano ad un [p. 60 modifica]tempo, ed a facilitarsene i mezzi, e ad annullarsi gli ostacoli.

Già tanti e tali mi si affollano alla mente i preziosi beni, che dalla riacquistata libertà ridondar si vedrebbero, che io, ripieno il core di una dolce emozione, turbato l’animo, accesa e trasportata la fantasia dai così diversi, e tutti lieti, e tutti vasti pensieri, non so qual prima, qual dopo ne narri; qual debba accennare, su quale estendermi, di quale tacere: onde, per la soverchia voglia di esprimere, non con premeditata eloquenza, che un così alto soggetto la sdegna, ma con semplicità e calore, ciò che l’animo tutto mi accende invade e consuma, io temo di poter dir tanto meno, quanto più sento che termine al dire giammai non porrei. Disordinati accenti, come il cuore e la fantasia li dettano; interrotti, fors’anche [p. 61 modifica]da lagrime e sospiri di gioja verace; saranno questi gli encomj della libertà, e de’ suoi dolcissimi frutti, che or dal mio labro si udiranno prorompere.

Già già mi si squarcia dagli occhi quel tenebroso velo, che la caligine dei passati e futuri secoli involvendo, il pensier nostro nell’angusto termine dei presenti tempi confina. Io veggo, sì, e d’un solo rapidissimo sguardo, io veggo Roma qual era ne’ suoi felicissimi tempi, qual ella è nei nostri, quale, con novella prosperità e grandezza, nell’avvenir potrà essere. Le venerabili ombre dei Catoni, degli Emilj, dei Bruti, dei Regoli, e di tanti altri illustri Romani, mi si appresentano in lieto aspetto; e magnanima scorta mi si offrono a farmi conoscere quella Roma, che essi abitavano. A gara mi narrano, quali virtù, quali [p. 62 modifica]virtù, qual forza, quanta felicità in quei loro concittadini lasciassero; qual santità, e severa osservanza di leggi; qual plebe, qual senato, quali eserciti; quanta costanza nell’avversa, quanta modestia nella prospera fortuna; qual religione e culto degli Dei; quanto in somma d’inaudito e di grande la bene ordinata repubblica, per la prosperità de’ suoi cittadini, radunato si avesse. E tutto, quanto quei generosi Spirti con sì nobile trasporto mi svelano agli occhi, tutto diverso, tutto per l’appunto contrario esser veggo, a ciò che la presente Roma rinserra.

Prima virtù di quegli ottimi, conosco essere stata il sapere e l’osservare le leggi; nostra, pur troppo! Da gran tempo sì è fatta, il sovverterle, trasgredirle, deluderle, ed ignorarle: e quegli più grande fra noi, con [p. 63 modifica]incredibile cecità di giudizio, fu reputato, che con più rovina nostra e disdoro, maggiormente seppe sopra le inermi ammutolite leggi innalzarsi. La forza dei romani animi con maravigliosi esempj mostravasi, nel tollerare le militari fatiche, nell’affrontare pericoli per la repubblica, nel correre lieti e volontarj alla morte, dove dal cessare dei loro individui ne fosse al pubblico ridondato gloria e vantaggio: la forza dei moderni animi, con eterno vituperio nostro, manifestavasi finora nel sopportare, tremando e tacendo, ogni ingiustizia, ogni rapina, ogni oltraggio: o se qualche scintilla di romana fortezza in alcun Romano di tempo in tempo si andava pure mostrando, all’uscire volontariamente di vita per isfuggir la tirannide, consecrata era soltanto. E dove per lo addietro l’immolarsi i Decj, i Curzj, [p. 64 modifica]e tanti altri, in pubblico onore ed utile ritornava; l’uccidersi fra noi quei pochissimi che al servire anteponeano la morte, in pubblico danno tornava; poichè un buon cittadino meno, dove già pochi ne sono, è irreparabile perdita: ed in pubblica vergogna ed infamia tornava; poichè la generosa morte di quelli dimostrazione vivissima era pur troppo della viltà di quegli altri tutti, che i forti non vendicavano, o non imitavano.

Felicità somma, ed unica, un dì, era in Roma la sicurezza, e l’uguaglianza; donde i costumi, le domestiche virtù, le vere amicizie, la fede, la parsimonia nascevano: felicità era il vedere ogni uomo felice; e niuno dalla rovina del congiunto, dell’emulo, del nemico, o dell’amico stesso pur troppo, la propria sicurtà e grandezza ne traeva. Oimè! qual pianto mi [p. 65 modifica]accora, se narrare mi è forza, quale sia stata la felicità dei tempi nostri finora! Pubblica, non ve n’è stata mai niuna, se non se nei brevissimi intervalli, o momenti, in cui si videro dall’usurpato soglio precipitare quei mostri, che fatto aveano fede essere in noi maggiore di gran lunga l’indegna sofferenza e viltà, che non in essi la crudeltà efferata. Nerone, Cajo, Ottone, Vitellio, Domiziano; trucidati tutti, vittime dei loro delitti e del tardo furore di pochi cadendo, faceano col morir loro conoscere e gustare ai presenti Romani un’ombra vana di passeggera felicità: ma tosto in lagrime di sangue dal barbaro lor successore scontar si facea la stolta gioja di Roma. Privata felicità, (apparente, e non vera) in questi orribili tempi la goderono soltanto quei pochi infami, che delle [p. 66 modifica]libidini, delle estorsioni, delle uccisioni fatte dai principi creandosi esecutori e ministri, dell’altrui sangue impinguati, dell’altrui pianto pasciuti, infra le rovine pubbliche con baldanzosa insoffribile inumanità e impudenza, d’ogni ricchezza e d’ogni vizio satolli, fra le universali tacite grida, nella propria non meno che nella principesca reità securi, viveano. Sante, sacrosante erano allora le leggi, a cui quella vera Roma obbediva, appunto perchè Roma le facea; osservate, venerate, temute elle erano, perchè ciascun cittadino rispettava in esse i suoi concittadini, e se stesso. Inique, trasgredite, vilipese, e gravose le nostre, perchè son fatte da uno. E dall’uno create, dall’altro distrutte, rinvigorite da questi, riannullate da quelli; le perpetue loro rapide e risibili vicende [p. 67 modifica]ben larga prova ne fanno, che non dal ben pubblico, ma dal privato interesse, dall’assoluto capriccio, dalla stolidità, e dalla insania stessa per anco, dettate elle sono.

Era il romano popolo in quei felici tempi sagace conoscitor de’ suoi dritti, difensore acerrimo d’essi, generoso emulatore delle patrizie virtù, ferocissimo in guerra, in pace mitissimo, religioso osservator degli Dei, parco nel vivere, operante sempre, ed amator della gloria; ma, con avveduto discernimento, ogni gloria riponea nella libertà della patria. Il popolo, che ora di romano si gode, non meritandolo, il nome soltanto, in ogni crapola nei più sozzi vizj ed eccessi ingolfato, novelli dritti creati si ha; immemore in tutto degli antichi: non libero, divertito ei vuol essere: le ricchezze, già dai tiranni [p. 68 modifica]rapite ai cittadini tremanti, vuole che fra esso con prodiga mano ritornino in giuochi, in conviti, in bagordi. Un tal popolo non è più soldato; dei proprj soldati egli trema; i nemici dell’impero più non conosce; dei patrizj è nemico, e non emulo; sagrilego disprezzator degli Dei, e ad un tempo di timide e vili superstizioni pienissimo: è questo, è questo pur troppo quel popolo, che già degnamente figlio di Marte s’intitolava.

Tralascerò di dire qual fosse allora il senato; non, perchè un vile timore, favellando io nel novello senato, mi allacci la lingua; ma so, che non è fra voi, o Padri Coscritti, spenta la chiara memoria dei vostri grandi avi; che dai vostri cuori non sono estirpati i preziosi semi delle loro divine virtù; che fino ad ora il campo [p. 69 modifica]e la libertà, non il desiderio mai nè la capacità di esercitarle, mancovvi. E so, che a generosi e gentili animi troppo è grande gastigo la coscienza dei commessi falli, senza che vi si aggiunga l’insopportabile peso della vergogna. Passati sono i più infelici tempi, in cui rimordendo io in senato de’ suoi infami vizj la plebe e la più vile feccia di Roma, sarei, senza volerlo, venuto a rimordere i primi fra i senatori. Cancellati sono dai fasti nostri, e dalla memoria nostra per anco, quegli illustri ribaldi, che con empie adulazioni, con tradimenti veleni concussioni e delitti in somma orribili, d’ogni genere ed infiniti, aveano della patrizia gente contaminato a segno la fama e maestà, che la più scellerata, la più disprezzabile, la più abborrita in Roma non v’avea. Erano quegli, ed esser tali doveano, [p. 70 modifica]i senatori che ai Neroni e ai Domiziani toccavano; come voi siete meritamente il senato, che di Trajano si fregia.