Piccoli eroi/Serate in famiglia
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SERATE IN FAMIGLIA.
A don Vincenzo pareva di ringiovanire quando andava a passar la sera in casa Morandi. Perciò vi andava spesso e volentieri, accompagnato dal professore, che ammirava la dolcezza e l’abnegazione di Maria la quale si dedicava così giovane al benessere della famiglia e all’educazione dei suoi fratelli. Egli era tutto felice di esserle utile e s’era fitto in capo di far amare lo studio a Carlo; lo trovava un po’ pigro e svogliato, ma sperava, aiutandolo nelle difficoltà, stuzzicando il suo amor proprio, di riuscire a renderlo più docile ed a fare che dedicasse qualche ora della giornata allo studio.
Gli parlava più da amico che da professore, ed il ragazzo si rassegnava a studiare con lui, in grazia delle storielle piacevoli e degli aneddoti curiosi che gli raccontava e delle passeggiate che sapeva organizzare per divertirlo quando rimaneva contento dei suoi cómpiti.
Però la sua idea fissa erano i fatti eroici, i lunghi viaggi, la vita avventurosa, e diceva sempre:
— Io studio per non vedervi imbronciati, ma se capita l’occasione, scappo e mi faccio soldato, marinaro o esploratore.
Quando don Vincenzo parlava del quarant’otto, Carlo pregava Damiati di sospendere la lezione e s’avvicinava con tanto d’orecchi alla tavola, dove le ragazze lavoravano, e il prete ricominciava per la centesima volta i suoi racconti, ma sempre animandosi, gesticolando in modo che pareva avessero la virtù di levargli una ventina d’anni dalle spalle.
«Ora si muore, si vegeta, — egli diceva, — quelli erano tempi in cui si viveva, ogni giorno c’era qualche novità, qualche avvenimento che ci faceva battere il cuore, e s’era tutti uniti in un solo pensiero come se attraverso tutte le nostre teste passasse una medesima corrente elettrica.
«Io, in quel tempo, ero a Milano al seminario a studiare, ma anche là dentro, fra quelle quattro mura, in mezzo ai nostri studi, penetravano le idee che correvano per la città, si sapeva tutto quello che accadeva, eppure non vi saprei dire in che modo quelle notizie giungessero fino a noi.
«Voi, nati in questi tempi, non sapete che cosa voglia dire non esser padroni in casa propria, essere tenuti schiavi, spiati e magari posti in prigione e condannati per una parola sfuggita involontariamente, per un’occhiata mal interpretata; pensate che un mio fratello il quale aveva dato senza accorgersi uno spintone ad un ufficiale austriaco, fu posto agli arresti e mancò poco che fosse fucilato.
«Ve la immaginate voi la nostra vita agitata? Eppure era così bella, si congiurava nascostamente, s’era pieni di speranze nell’avvenire, e ci si consolava delle continue sofferenze nel vederci tutti uniti nelle nostre aspirazioni e nei nostri desiderii.
«Noi si studiava, ma la nostra mente faceva mille progetti per concorrere a liberare il nostro paese, ognuno di noi sognava d’essere un eroe e di riuscire in qualche impresa ardita da far tremare quelli che ci opprimevano; fra una lezione di latino e di teologia si scrivevano dei versi nei quali s’invocava l’angelo sterminatore che sperdesse i nostri nemici. Quando poi si seppe che Pio IX, il nostro pontefice, favoriva la libertà, allora furono inni al Santo Padre, preghiere che ci aiutasse, e lo adoravamo in ginocchio come si adorano i Santi e la Madonna. Vi assicuro che vivevamo in un’agitazione febbrile, ognuno di noi era una specie di bomba pronta a scoppiare alla prima scintilla, e quando si seppe che fuori c’era la rivoluzione, che si facevano le barricate, allora nessuno seppe star tranquillo, si fece anche noi la nostra piccola rivoluzione interna, e si volle prendere parte agli avvenimenti.
«Mi par ancora ieri, e sì che ne sono passati dei begli anni; quando ci si mise a fabbricare le barricate, si pareva matti, si entrava nelle case a prendere lo mobiglie che potevano servirci, si spogliavano gli appartamenti, si smantellavano le fabbriche per adoperare i materiali onde sbarrare le vie, ci si cambiava in facchini, manovali, e poi si finiva col diventare non soldati, ma leoni per difendere le barricate che avevamo innalzate con tanta fatica, e là, dietro a quei ripari, fabbricati dalle nostro mani, vi dico io che ne ho vedute di scene commoventi, vi assicuro che se vivessi cent’anni, il ricordo di quei tempi basterebbe per riempirmi la mente e tenermi compagnia.
«In quei giorni tutta la popolazione era nelle strade, le donne scappavano in casa qualche ora per prepararci da mangiare, e poi venivano a recarcelo colle loro mani.
«Mi pare di vedere ancora una bella giovane di venti anni venir tutti i giorni con un canestro pieno di viveri, che distribuiva indistintamente a poveri e ricchi, amici e sconosciuti, a tutti quelli che erano là instancabili, oppure accasciati dalle ferite e dalla fatica a combattere; ci appariva come una fata benefica, quando un giorno, mentre faceva la distribuzione dei viveri, scoppiò una bomba accanto a lei e rimase ferita orribilmente: fu un urlo d’indignazione in tutti noi e ci si mise a combattere con maggiore energia per vendicarla.
«Mi ricordo d’un bambino che s’arrampicava come uno scoiattolo sulle barricate, e munito dei sassi che avea tolti dal selciato della via li lanciava con forza sopra quelli che osavano avvicinarsi; di tratto in tratto veniva la madre a strapparlo da quel posto pericoloso.
«— Sei matto, — gli diceva, — ad esporti così?
«Ma egli ritornava sempre al suo posto elevato; e quando una palla gli trapassò un braccio, egli disse:
«— Non è nulla, fasciatemelo presto che ritorni al mio posto, per fortuna ho ancora un braccio buono.
«Non ci fu verso, volle ritornare ma cadde svenuto, e dovettero trascinarlo via per forza.»
— Come mi sarebbe piaciuto vivere in quel tempo! — disse Carlo; — allora, sì, avrei potuto diventare un eroe.
— Eravamo tutti eroi, — soggiunse don Vincenzo, — però non si poteva fare altrimenti, non era permesso di tremare nè di aver paura. Mi ricordo un signore che trovò il figlio nascosto dietro una porta, e trascinandolo fuori per un braccio gli disse: — Almeno muoviti e fa il galoppino da una barricata all’altra, e se vengo a sapere che non hai fatto il tuo dovere, non ti riconosco più per figlio.
Quando don Vincenzo s’infervorava in quei discorsi, anche il signor Morandi, di consueto silenzioso, si animava e parlava di quei tempi quando anch’egli si era trovato in mezzo alla rivoluzione e bloccato a Venezia.
Come avea sofferto in quel tempo! Anzi, quelle sofferenze gli avevano lasciato un’ombra di tristezza che non si sarebbe cancellata mai più.
— Pensi, don Vincenzo, — disse una volta, — a Milano la rivoluzione è durata cinque giorni, ed è quasi stata una festa, ma io che mi son trovato a Venezia, ed ho sofferto la fame per un anno!... E ai figli disse: Se sapeste che cosa voglia dire soffrire la fame, come sareste contenti della vita che fate, come godreste la vostra agiatezza e la vostra tranquillità!
— E perchè non ci racconti nulla, babbo? — chiesero i ragazzi.
— Quel tempo mi ricorda cose troppo tristi, — rispose il signor Morandi; — mio fratello è morto a Marghera, mia madre morì di dolore, non posso evocare quei giorni senza che mi si spezzi il cuore; la libertà mi è costata troppo cara.
— Come saranno stati belli i primi tempi di libertà, dopo tante lotte e tanti sagrifizi! — disse Maria.
«— Si dovette attendere ancora dieci anni, ma quei primi giorni furono deliziosi, — disse don Vincenzo, — fu una gioia da non poter comprendere se non si è provata. Si pareva pazzi, per le vie ci si abbracciava tutti, amici e sconosciuti, si saltava dalla contentezza, si parlava dalle finestre, poveri, ricchi, tutti amici, tutti uniti, come si fosse una sola famiglia; quando entrarono i nostri soldati fu una frenesia: una pioggia di fiori li coperse, un grido d’entusiasmo uscì da tutto le bocche, tutti volevano vederli da vicino, i ragazzi andavano in mezzo alla truppa, fra le zampe dei cavalli, si voleva ammirarli, abbracciarli, i nostri fratelli, i nostri soldati che avevamo tanto desiderato. Quando poi entrarono i bersaglieri correndo, seguendo il ritmo della loro allegra fanfara, lesti, colle penne dei cappelli agitate dal vento che correndo per le vie come se volassero, parevano un gaio stormo d’uccelli che venisse a portarci la primavera, la pace, l’allegria, allora l’entusiasmo fu al punto culminante. So che tutti ridevamo, piangevamo, eravamo pazzi; in quel delirio di gioia avevo la febbre; so che dovetti andarmene a casa affranto, non potei dormire, tanto ero agitato, e se chiudevo gli occhi mi vedevo una danza di bandiere a tre colori, di soldati e di cappelli da bersagliere.
«E la gioia maggiore fu di vedere il nostro re Vittorio Emanuele entrare a Milano col suo aspetto marziale, la sua faccia aperta e buona. Sono stati momenti quelli che non si dimenticano, e vedete, io non invidio la vostra gioventù baldanzosa, piena di speranza nell’avvenire, perchè sono contento d’esser vissuto in quei giorni in cui eravamo tutti fratelli, e come si era stati compagni nelle lotte e nelle privazioni si ritornava ad esserlo nella gioia comune.
«Però passato quel tempo d’entusiasmo la vita m’apparve monotona. Pio IX non era più quello di prima, dovevano avergli cambiata la testa; noi, preti, in città, non avevamo più tante simpatie, e il mondo mi parve così brutto che volli venire in campagna, dove lo spettacolo della natura è sempre grandioso ed attraente.
«Qui ho trovato delle gioie tranquille e non mi pento della mia risoluzione, ho degli amici che mi vogliono bene, ho i miei fiori, gli uccelli che ritornano ogni anno a fare i nidi sotto al mio stesso tetto. Quando poi avevo vostro zio che era stato un mio compagno del quarant’otto e non si stancava mai di ricordare quel tempo, io non desideravo nulla di più, e proprio bisogna dire che il Signore mi vuol bene; dopo che m’ha dato il dispiacere di togliermi quel buon amico, ecco che siete venuti voi ed io posso ritornare in questa casa, che mi ricorda tante cose, e vi vedrò ritornare tutti gli anni come gli uccelli dei miei nidi; crescere, poi magari prendere il volo, finchè un giorno o l’altro lo prenderò io il volo. Intanto, l’avervi conosciuto sarà una consolazione dei miei ultimi anni, e poi sono certo che resterà qualcuno a ricordare il vecchio curato, non è vero?
— Ora deve star qui tanti anni con noi, non dobbiamo pensare a malinconie, — dissero in coro i ragazzi.
— Anzi, — soggiunse il Damiati che avea terminato di ripassare il compito di Carlo, — la signorina Maria dovrebbe raccontarci le avventure d’un altro piccolo eroe.
— Questa sera, no, — disse Maria, — una bella figura farebbero i miei eroi dopo i discorsi del quarant’otto! Se volete v’invito per domani sera.
— Bene, bene, domani sera è impegnata, — disse il professore.
E si contentarono di far ancora un po’ di chiacchiere finchè Mario terminava una vignetta dove pretendeva d’aver rappresentato la rivoluzione del quarant’otto con bombe, barricate e una tal confusione nella quale non si poteva raccapezzare nulla, tanto che anche il futuro artista dovette concludere che i quadri storici non erano il suo forte.