Piccolo romanzo/I
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PICCOLO ROMANZO
Ella guardava il fragile fiore che si agitava nelle mani del bel principe: e un sottile brivido di terrore la invadeva lentamente. Ora il bel principe indifferente e freddo aveva fissato il fiore, quasi avesse voluto contarne i petali bianchi, dove si contiene la parola del destino, e avendo cavato dalla tasca un portafoglino molle, di seta rosea, accorciò il gambo del fiore, e lo chiuse fra le pieghe, come in una custodia dolce e sacra. Miss Daisy aveva seguito con lo sguardo tutto ciò, e quando vide sparire il fiore, e poi sparire, nella tasca del petto, la sua rosea custodia, ella ebbe un lieve sospiro di sollievo.
— Morirà, morirà: ha trovato la sua tomba — ripetette, quasi machinalmente, la fanciulla inglese.
— Tanto vi fa spavento, la morte? — dimandò don Francesco.
— No: niente — diss’ella, profondamente.
— Parlavamo della morte — soggiunse lui.
E si voltò nel medesimo tempo, quasi per istinto, verso donna Clara, che giungeva, tutta rosea, tutta gloriosa, al braccio di Haiduck.
— Della morte? — esclamò donna Clara, scoppiando a ridere.
— Sì — disse il bel principe, andando con lo sguardo da Daisy a donna Clara, dal fragile stelo di creatura bionda, al fiore magnifico di bellezza bruna, guardando le due ragazze, senza un sorriso, freddamente e serenamente — della morte. Ho proposto qui, a miss Daisy, di considerarci come se fossimo in punto di morte e di confessarci l’un all’altro, come gli antichi cristiani.
— E non ha voluto? — disse donna Clara, aggrottando lievemente le sopracciglie imperiose.
— Non era possibile; — soggiunse il principe — miss Daisy non ha peccati da confessare.
— E lei, principe?
— Io? Ne ho troppi: e non poteva far inorridire il confessore. Venite via, Haiduck: lasciamo sole queste signorine. Esse hanno bisogno di parlare male di noi.
E il bel principe indifferente fece un gran saluto, infilò il suo braccio sotto a quello del brillante ufficiale ungherese e lo trascinò via. Ora le due ragazze sedevano sul divano, l’una accanto all’altra; con le braccia prosciolte, con le dita che mollemente stringevano il ventaglio. Sembravano ambedue molto stanche, come affrante: e il silenzio si prolungava fra loro. Quasi parca che l’una avesse dimenticata la presenza dell’altra, lontane ambedue le mille miglia, perdute, ognuna, nel suo sogno, dove la musica lontana faceva come di cullamento. Miss Daisy era diventata di nuovo così pallida, che era vinto il roseo smorto del suo viso: e la trionfante fanciulla bruna, accanto a lei, piegava la testa, come vinta dal sogno.
— Sei stata alla Trinità dei Monti? — domandò donna Clara a miss Daisy, improvvisamente.
— Oh no! — rispose miss Margherita, negando vivamente — oggi, poi, no.
— E perchè?
— Perchè non vado mai in chiesa, quando la sera vado al ballo.
— Siete strane, voi altre inglesi. Che ci entra il ballo con la chiesa?
— Appunto per questo. Bisogna seguire una linea sola, nella vita, Clara: e non piegare mai.
— Il ballo non è un’empietà, Daisy.
— Ma non è neppure una preghiera. Bisogna esser logici.
— Oh, che bizzarra gente siete, Daisy! Non fate che degli assiomi. Follie, non ne fate mai?
— Sempre logicamente. Facciamo la follia, con tutte le forme necessarie; e andiamo sino in fondo.
— Sino in fondo? — domandò donna Clara, vagamente preoccupata.
— Così — ribattè miss Daisy.
Donna Clara si passò la mano guantata sulla pura fronte, quasi per diradare una nuvola del suo spirito. E, subito, sorrise.
— È vero, noi mescoliamo troppo le cose allegre e le cose serie — disse, sorridendo, ancora; — ma ciò non è spiacevole, certo. Tu intanto, Daisy, ami molto l’Italia.
— Molto, molto.
— Malgrado le nostre incoerenze?
— Malgrado tutto.
— E perchè non ti mariti qui, o Margheritina piccola?
— Perchè? Per questo.
— Tu non hai voluto Guido Arezzo.
— E lui che non mi ha voluta — disse l’inglese, abbozzando un pallido sorriso.
— Ma che, ma che! Egli lo ha detto a Ferdinando, mio fratello. Perchè non lo hai voluto, Guido Arezzo?
— Perchè non mi amava, Clara.
— Non ti amava, non ti amava? Ma come lo sai, che non ti amava?
— Lo so.
— Gli uomini dicono tante bugie!
— Non a me; io capisco le bugie.
— Oh, poverina, non dirlo, che le capisci! Gli uomini c’ingannano sempre, quando ci amano e quando non ci amano.
— Io capisco le bugie — ribattè miss Daisy, ostinandosi, crollando il capo, come se nulla valesse a persuaderla.
— E dici, cocciutella cara, che Guido Arezzo non ti amava?
— Non mi amava. Ma non mentiva neppure: diceva che nel matrimonio non è necessaria la passione.
— E tu credi che sia necessaria, Daisy?
— Lo credo.
— Quante sei romantica, Daisy!
— Sono romantica: e ciò non mi dà fastidio.
— Sicchè, Daisy, tu devi fare il romanzo, quando ti mariterai?
— Già.
— E forse rimarrai zitella.
— Così credo.
— Gli uomini di adesso sono aridi come il sughero: non sanno nulla di passione e di romanzo. Tu rimarrai zitella.
— Tanto meglio.
— E io mi mariterò male — mormorò donna Clara, chiudendo e schiudendo il suo ventaglio di piume.
— Perchè, male?
— Perchè ho bisogno di tanti quattrini, di tanti quattrini, che nulla più — disse ancora la buona fanciulla, ingenuamente, vagamente, quasi parlando in sogno.
— Quattrini?
— Già. Chissà chi mi daranno! Forse un vecchio conte tedesco, che ha un castello, laggiù, e a cui i servi danno dell’Altezza Serenissima; forse qualche vecchio principe svedese; un industriale lombardo, che diventerà barone, quando mi sposerà; o qualche milionario calabrese. Chissà, chissà...
— Tu non hai volontà? — dimandò miss Daisy, guardandola negli occhi — tu non vorresti alcuno, tu, una persona di tuo gusto, di cui fossi innamorata, o una persona per cui tu avessi una irresistibile simpatia?
— Io? — disse donna Clara.
— Tu, tu. Noi altre ragazze abbiamo un tipo ideale, abbiamo una figura in cui vivono tutti i nostri sogni. Anche tu devi averla.
Donna Clara si era fatta pensosa: e una lieve ombra di malinconia le si era diffusa sulla faccia: la bella bocca, rossa come un melograno, aveva una piega infantile di dolore.
— Un sogno... un sogno... — mormorò lei — chi racconta i suoi sogni?
— I sogni sono la vita — pronunziò gravemente e dolcemente miss Daisy.
— Sogno anche io; — disse la fanciulla bruna — ma temo di mettere un nome ai miei sogni; temo che essi siano troppo belli e troppo indimenticabili, e mi rendano profondamente infelice.
Un gran pallore terreo le si diffuse sul volto, le lagrime salirono agli occhi: ella tremò, come se allora dovessero squassarla i più disperati singulti. Non pianse, però: arrossì di nuovo, si ricompose, sorrise.
— Raccontami i tuoi sogni, Daisy, giacchè tu confessi di essere romantica. Io sono una creatura secca e dura, che ho bisogno di denari e che non devo sognare. Dimmi il nome della persona che vuoi sposare, Margherita.
— Non esiste — disse la creatura pallida e bionda — non esiste.
— Cattiva, che non vuoi dirmi nulla!
— Non esiste. Se esistesse...
— Che faresti?
— Andrei a lui francamente e gli direi: ti amo.
— E se egli non ti amasse?
— Morirei.
— Non parlare di morte, mi sgomenti: voi altre inglesi siete capaci di tutto.
— Non ti spaventare — disse miss Daisy, sorridendo un poco. — Il cavaliere del mio cuore non è giunto ancora.
E si guardarono, affettuosamente, come due amiche che si sono detto tutto, tenendo ognuna per sè il segreto. La gente cominciava ad uscire dal ballo e passava innanzi a loro: qualche conoscenza, qualche amica si fermava un momento, scambiava qualche parola con le due fanciulle e andava via. A un tratto, nel salone da ballo, una dama comparve, donna Maria di Lanciano: una dama alta e snella, dal busto lungo e fine, dalle braccia magnifiche, dal collo grasso. I fulvi capelli erano rialzati sul capo, in una densa massa corruscante: e un diadema ducale, a stelle, vi scintillava. Ella vestiva di nero, cosa strana, in un ballo: un lungo strascico di amoerro nero ondeggiava dietro, con onde cupe. Una collana di brillanti scintillava sul petto: e le maniche erano soltanto due fitte strisce di brillanti, che reggevano il vestito sulle spalle nude. La bocca grande ed espressiva scopriva i denti brillanti, simili a quelli di Berenice, nella novella di Edgardo Poe. Gli occhi verdi, assai verdi, erano profondi di luce smeraldina. Ella era ferma, sotto l’arco della porta — e non parlava, sorrideva a qualcuno, che era ancora nel salone da ballo. Questo qualcuno la raggiunse, le offrì il braccio, muto, guardandola negli occhi, guardandola nel sorriso. Era don Francesco. Lentamente, ma senza parlare fra loro, don Francesco, il bel principe indifferente e freddo, donna Maria di Lanciano, la bella dama vestita di nero, passarono innanzi alle due fanciulle, senza salutarle, senza vederle: se ne andarono, muti, uniti dalla lieve catena del braccio, ma così uniti, così uniti che nulla parea potesse mai mai dividerli.
Le due fanciulle si guardarono in viso — e si trovarono egualmente, mortalmente pallide.