Pierre e Jean/IX

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IX

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VIII

Le lettere di raccomandazione dei professori Mas-Roussel, Rémusot, Flache e Borriquel, scritte nei termini più lusinghieri per il dottor Pierre Roland, loro allievo, erano state sottoposte dal signor Marchand al Consiglio di amministrazione della Compagnia Transatlantica, appoggiate dai signori Poulin, giudice al tribunale di commercio, Lenient, grande armatore, e Marival, vice sindaco di Le Havre, amico intimo del capitano Beausire.

Il caso voleva che il medico di bordo della Lorraine non fosse ancora stato designato e Pierre ebbe la fortuna di essere nominato in pochi giorni.

La lettera che lo informava gli fu consegnata dalla domestica Joséphine, un giorno, mentre terminava di vestirsi.

La sua prima impressione fu quella del condannato a morte al quale si annunci che la pena è commutata ed egli sentì la sua sofferenza attenuata un poco dal pensiero di quella partenza e di quella vita calma, cullata dall’acqua che scorre, sempre errante, sempre fuggente.

Viveva, ormai, da estraneo nella casa paterna, muto, riservato. Dal giorno in cui s’era lasciato sfuggire davanti al fratello il terribile segreto da lui scoperto, sentiva di avere spezzato gli ultimi legami con i suoi. Lo tormentava il rimorso di avergli detto quella cosa. Si giudicava odioso, disonesto, cattivo, eppure provava sollievo per aver parlato.

Non incontrava più gli sguardi della madre o del fratello. I loro occhi, per evitarsi, avevano assunto una sorprendente mobilità e astuzia da nemici che temono di scontrarsi. E, sempre, si chiedeva: «Che cosa avrà detto a Jean? Ha confessato o ha negato? Che cosa crede mio fratello? Che pensa di lei? Che pensa di me?» Non indovinava e si esasperava. Non parlava quasi più, del resto, tranne davanti a Roland, ma cercava di evitare le sue domande.

Quand’ebbe ricevuto la lettera che gli annunciava la nomina, la presentò, il giorno stesso, alla famiglia. Il padre, che aveva una forte tendenza a rallegrarsi di tutto, batté le mani. Jean rispose, con tono serio, ma con l’anima traboccante di gioia:

«Mi rallegro con te di tutto cuore, perché so che i concorrenti erano molti. Certo, lo devi anche alle lettere dei tuoi professori.»

E la madre chinò il capo, mormorando:

«Sono felice che tu sia riuscito.»

Dopo colazione, egli si recò agli uffici della Compagnia, per avere tutte le informazioni necessarie e domandò il nome del medico della Piccardie, che doveva partire il giorno seguente, per informarsi da lui di tutti i particolari della sua nuova vita e delle varie situazioni in cui poteva venire a trovarsi.

Il dottor Pirette era a bordo. Egli vi si recò e fu ricevuto in una cabina da un giovane con la barba bionda, che rassomigliava a suo fratello. Chiacchierarono a lungo.

Dalle sonore profondità della grande nave giungeva l’eco di una viva agitazione confusa e continua, nella quale il tonfo delle merci accumulate nelle stive si univa ai passi, alle voci, al movimento delle macchine che caricavano le casse, ai fischi dei nostromi e al rumore delle catene trascinate e arrotolate sugli argani, all’ansito rauco delle macchine, che faceva vibrare un po’ l’intero corpo della grande nave.

Ma, quando Pierre ebbe lasciato il suo collega e si ritrovò sulla strada, una nuova tristezza si abbatté su lui e lo avvolse, come quelle nebbie che vagano sul mare, venute dai confini estremi del mondo, e che portano, nella loro impalpabile densità, un certo che di misterioso e d’impuro, come il soffio pestilenziale di terre malefiche e lontane.

Nelle sue ore di sofferenza più acuta, egli non s’era mai sentito così immerso in una cloaca di miseria. L’ultimo strappo s’era compiuto: egli non era più legato a niente. Quando aveva estirpato dal cuore le radici di ogni sua tenerezza, non aveva provato ancora quella angoscia di cane sperduto, che all’improvviso lo colpiva adesso.

Non era più un dolore morale e torturante, ma lo smarrimento di una bestia senza rifugio, l’angoscia materiale dell’essere errabondo, privo di tetto e che sta per essere assalito dalla pioggia, dal vento, dall’uragano, da tutte le forze brute del mondo. Mettendo il piede su quel bastimento, entrando in quella cabina oscillante sulle onde, il suo corpo di uomo che ha sempre dormito in un letto immobile e tranquillo s’era ribellato contro l’incertezza dei giorni futuri. Fino allora s’era sentito protetto dal muro solido piantato nella terra che lo sostiene e dalla certezza del riposo nello stesso posto, sotto il tetto che resiste al vento. Ora tutto quello che ci piace affrontare nel tepore della casa chiusa, si sarebbe trasformato in un pericolo, in una sofferenza costante.

Non più il suolo sotto i piedi; ma il mare che s’agita, che brontola e che inghiotte. Non più spazio intorno a sé, per passeggiare, correre, perdersi nelle strade; ma pochi metri di tavole per camminare come un prigioniero in mezzo ad altri prigionieri. Non più alberi, giardini, vie, case, null’altro che acqua e nuvole. E, continuamente egli avrebbe sentito quella nave sotto i suoi piedi. Nei giorni di tempesta sarebbe stato necessario appoggiarsi alle paratie, attaccarsi alle porte, aggrapparsi agli orli della stretta cuccetta per non rotolare al suolo. In quelli di calma avrebbe udito il vibrare trepidante dell’elica e avrebbe sentito fuggire quella nave che lo trasportava in una corsa continua, regolare, esasperante.

E si trovava condannato a quella vita di forzato vagabondo, unicamente perché sua madre s’era abbandonata alle carezze d’un uomo.

Procedeva dritto davanti a sé, oppresso, ora, dalla tremenda malinconia di quelli che stanno per espatriare.

Non si sentiva più nel cuore quel disprezzo altero, quell’odio sdegnoso per gli sconosciuti che incontrava; ma un desiderio triste di rivolger loro la parola per dire che stava per lasciare la Francia, un desiderio di essere ascoltato e consolato. C’era, nel profondo della sua anima, un bisogno vergognoso di povero che sta per tendere la mano, un bisogno timido e forte di sentire qualcuno soffrire per la sua partenza.

Pensò a Marowsko. Soltanto il vecchio polacco lo amava abbastanza per provare una vera e profonda commozione. E il dottore si decise ad andare subito da lui.

Quando entrò nella bottega, il farmacista, che pestava delle polveri in fondo a un mortaio di marmo, ebbe un lieve sussulto e smise di lavorare.

«Non si è fatto più vedere,» disse.

Il giovane spiegò che aveva dovuto svolgere molte pratiche, senza dirne il motivo, sedette e chiese:

«Come vanno gli affari?»

Non andavano affatto. La concorrenza era terribile, i malati rari e poveri in quel quartiere di operai. Vi si potevano vendere soltanto medicinali a buon mercato e i medici non ordinavano quei rimedi rari e complessi sui quali si guadagna il cinquecento per cento. Il brav’uomo concluse:

«Se andiamo avanti di questo passo ancora tre mesi, mi toccherà chiudere bottega. Se non facessi assegnamento su lei, caro dottore, mi sarei già messo a lustrare scarpe.»

Pierre si sentì stringere il cuore e, bruscamente, si decise a vibrare il colpo, tanto prima o poi bisognava farlo.

«Oh! io, io... Non potrò più esserle utile in nessun modo. Lascio Le Havre al principio del mese prossimo.»

Marowsko si tolse gli occhiali, tanto la sua emozione fu profonda.

«Lei... lei... che cosa ha detto?»

«Ho detto che me ne vado, mio caro amico.»

Il vecchio era annichilito, sentiva svanire la sua ultima speranza. E, all’improvviso, si ribellò contro quell’uomo che aveva seguito, che amava, nel quale aveva avuto tanta fiducia e che lo abbandonava a quel modo.

Balbettò:

«Ma non mi tradirà anche lei, adesso?»

Pierre si sentì tanto commosso che ebbe voglia di abbracciarlo.

«Ma non la tradisco. Non ho trovato da sistemarmi qui e parto come medico di bordo su un transatlantico.»

«Oh, signor Pierre! Mi aveva promesso di aiutarmi a vivere!»

«Che vuole? Bisogna che viva io stesso. Non ho un soldo.»

Marowsko ripeteva:

«È male, è male quello che fa. Non mi resta che morir di fame. Alla mia età, è finita. È male. Lei abbandona un povero vecchio che l’ha seguita fin qui. È male.»

Pierre voleva spiegargli, protestare, dire le sue ragioni, dimostrare che non poteva agire altrimenti; ma il polacco non ascoltava, indignato per quella diserzione. Finì col dire, alludendo, senza dubbio, agli avvenimenti politici:

«Voi francesi non mantenete le vostre promesse.»

Allora Pierre si alzò, seccato a sua volta, ed assumendo un tono asciutto disse:

«È ingiusto, papà Marowsko. Per decidersi a quello ch’io sto per fare, occorrono motivi molto seri, e lei dovrebbe comprendere. Arrivederci. Spero di ritrovarla più ragionevole.»

Ed uscì.

«Andiamo,» pensava, «nessuno mi rimpiangerà sinceramente.»

Il suo pensiero andava a tutti quelli che conosceva o che aveva conosciuto e, in mezzo a tutti i volti, che sfilavano nel suo ricordo, trovò quello della servetta di birreria che gli aveva fatto sospettare di sua madre.

Esitò, conservava contro di lei un rancore istintivo, poi, decidendosi all’improvviso, pensò: «Dopo tutto, aveva ragione.» E si orientò per ritrovare la sua strada.

La birreria, per caso, era piena di gente e di fumo. I clienti, borghesi ed operai, chiamavano, ridevano, gridavano e lo stesso padrone, siccome era festa, serviva, correndo di tavolino in tavolino, portando via boccali vuoti e riportandoli pieni di schiuma.

Quando Pierre ebbe trovato un posto non lontano dal banco, attese, sperando che la ragazza lo vedesse e lo riconoscesse.

Ma lei passava e ripassava davanti a lui, senza uno sguardo, a piccoli passi, ancheggiando leggermente, con grazia.

Egli batté sulla tavola una moneta d’argento.

«Che cosa desidera, signore?»

Lei non lo guardava, intenta com’era a calcolare le consumazioni servite.

«Ebbene!» egli disse. «È così che si salutano gli amici?»

Lei fissò lo sguardo su di lui e, in tono frettoloso:

«Ah! è lei? Sta bene? Ma oggi non ho tempo. Vuole un boccale di birra?»

«Sì.»

Quando lei glielo portò, Pierre aggiunse:

«Vengo a dirti addio. Parto.»

Lei rispose, indifferente:

«Ah! Dove va?»

«In America.»

«Dicono che sia un bel paese.»

E niente altro. Veramente era inopportuno parlarle, quel giorno. C’era troppa gente nel caffè.

E Pierre se ne andò verso il mare. Quando arrivò sul molo vide la Perle che rientrava con suo padre e il capitano Beausire. Il marinaio Papagris remava e i due uomini, seduti a poppa, fumavano la pipa con un’aria di perfetto benessere. Il dottore pensò, nel vederli passare: «Beati i poveri di spirito.»

E sedette su una delle panchine della diga per cercare di stordirsi in una sonnolenza di bruto.

Quando, la sera, tornò a casa, la madre gli disse, senza osare alzar gli occhi su lui:

«Ti occorreranno molte cose per partire ed io sono un poco imbarazzata. Ti ho ordinato poco fa la biancheria personale e sono passata dal sarto per gli abiti; ma forse avrai bisogno di altre cose che io non so.»

Egli aprì la bocca per dire: «No, niente,» ma pensò che avrebbe dovuto almeno accettare di che vestirsi decentemente e, con tono calmissimo, rispose:

«Non so ancora; m’informerò alla Compagnia.»

S’informò e gli dettero la lista degli oggetti indispensabili. La madre, ricevendola dalle sue mani, lo guardò per la prima volta dopo tanto tempo. Ed aveva, in fondo agli occhi, l’espressione umile, dolce, triste e supplichevole dei cani frustati che chiedono grazia.

Il 1° ottobre la Lorraine, in arrivo da Saint-Nazaire, entrò nel porto di Le Havre per ripartire il 7 dello stesso mese alla volta di New York e Pierre Roland prese possesso della piccola cabina galleggiante nella quale, ormai, sarebbe stata imprigionata la sua vita.

Il giorno seguente, mentre usciva, incontrò sulle scale la madre, che lo attendeva, e che mormorò con voce appena intelligibile:

«Non vuoi che t’aiuti a sistemarti sulla nave?»

«No grazie; è fatto tutto.»

Ella mormorò:

«Desidero tanto vedere la tua cabina.»

«Non ne vale la pena. È molto brutta e molto piccola.» E passò, lasciandola sconvolta, pallida, appoggiata al muro.

Roland, che quel giorno visitò la Lorraine, durante il pranzo non parlò d’altro che di quella nave magnifica e si meravigliò che la moglie non avesse alcun desiderio di visitarla, dato che il figlio stava per imbarcarvisi.

Nei giorni seguenti, Pierre non visse in famiglia.

Era nervoso, irritabile, duro e pareva che la sua parola brutale sferzasse tutti. Ma, la vigilia della partenza, apparve all’improvviso molto cambiato, molto raddolcito. Al momento di abbracciare i genitori prima di andare a dormire a bordo per la prima volta, chiese:

«Verrete a salutarmi, domani, sulla nave?»

Roland esclamò:

«Ma sì, ma sì, perbacco! Non è vero, Louise?»

«Ma certo», disse lei a voce bassissima.

Pierre aggiunse:

«Partiremo alle undici precise. Bisogna trovarsi laggiù alle nove e mezzo, al più tardi.»

«Un’idea, to’!» esclamò suo padre. «Appena ti avremo lasciato correremo subito ad imbarcarci sulla Perle per aspettarti oltre i moli e vederti ancora una volta. Non è vero? Louise?»

«Sì, certo.»

Roland aggiunse:

«Così, tu non potrai confonderci con la folla che c’è sempre sul molo quando partono i transatlantici. Non si possono mai riconoscere i propri parenti, nella ressa. Ti va?»

«Ma sì, va bene. Siamo d’accordo.»

Un’ora dopo, era disteso sul suo lettino da marinaio, stretto e lungo come una bara. Vi rimase a lungo, con gli occhi aperti, pensando a tutto ciò che era avvenuto da due mesi nella sua vita e, soprattutto, nel suo animo. A furia di soffrire e aver fatto soffrire gli altri, il suo dolore aggressivo e vendicativo s’era stancato, come una lama smussata. Egli non aveva quasi più il coraggio di serbar rancore a nessuno e per qualsiasi cosa, lasciava andare alla deriva la sua ribellione, come la sua esistenza. Si sentiva talmente stanco di lottare, stanco di colpire, stanco di odiare, stanco di tutto, che non ne poteva più e cercava di addormentare il suo cuore nell’oblio, come si cade nel sonno. Udiva vagamente in torno a sé i rumori nuovi della nave, rumori lievi, appena percettibili in quella notte calma del porto; e della sua ferita, fino a quel momento così crudele, altro non sentiva che gli stiramenti dolorosi delle piaghe che si cicatrizzano.

Aveva dormito profondamente quando il movimento dei marinai lo strappò dal suo riposo. Era giorno. Il primo treno giungeva alla banchina portando i viaggiatori da Parigi.

Allora si mise a girare per la nave, in mezzo alla gente affaccendata, inquieta, che cercava le cabine, che si chiamava, che si scambiava domande e risposte a casaccio, nella confusione dell’inizio del viaggio. Dopo che ebbe salutato il capitano e stretto la mano al suo collega commissario di bordo, entrò nel salone dove alcuni inglesi sonnecchiavano già negli angoli. La sala ampia, dalle pareti di marmo bianco incorniciate da filettature dorate, prolungava all’infinito negli specchi la prospettiva delle sue lunghe tavole, fiancheggiate da due file illimitate di poltrone girevoli, di velluto granata. Era quella la vasta hall galleggiante e cosmopolita nella quale dovevano navigare in comune i ricchi di tutti i continenti. Il suo lusso sfarzoso era quello dei grandi alberghi, dei teatri, dei locali pubblici, il lusso imponente e banale che soddisfa l’occhio dei milionari. Stava per passare in seconda classe, quando ricordò che la sera precedente era stato imbarcato un numeroso gregge di emigranti e discese tra i due ponti. Entrando, fu colpito da un odore nauseabondo d’umanità povera e sudicia, puzzo di carne nuda più stomachevole di quella del pelo o della lana delle bestie. E, in una specie di sotterraneo scuro e basso, simile alle gallerie delle miniere, scorse centinaia di uomini, di donne e di fanciulli distesi su tavole sovrapposte o ammucchiati per terra. Non distingueva i volti ma vedeva vagamente quella folla sordida, cenciosa, di miserabili vinti dalla vita, sfiniti, schiacciati, che partivano, con mogli magre e bambini esauriti, per una terra ignota dove speravano, forse, di non morire di fame.

E, pensando al lavoro passato, al lavoro perduto, agli sforzi sterili, all’accanita lotta ripresa inutilmente ogni giorno, all’energia spesa da quei pezzenti, che si accingevano a riprendere ancora, senza saper dove, quell’esistenza di orribile miseria, il dottore fu preso dalla voglia di gridar loro: «Ma gettatevi in mare con le vostre femmine e i vostri bambini!» E si sentì il cuore talmente stretto dalla pietà che si allontanò, non riuscendo a sopportare la loro vista.

Suo padre, sua madre, il fratello e la signora Rosémilly lo aspettavano già in cabina.

«Così presto?» egli disse.

«Sì,» rispose la signora Roland, con voce tremante. «Volevamo avere il tempo di stare un po’ con te.»

Egli la guardò. Era vestita di nero, come se fosse in lutto, e si avvide che i capelli, grigi ancora il mese scorso, stavano diventando bianchi.

Durò molta fatica a far sedere le quattro persone nella sua piccola stanza e lui sedette sul letto. Dalla porta rimasta aperta si vedeva passare una folla numerosa, come quella di una strada in una giornata di festa, perché tutti gli amici dei passeggeri e una schiera di semplici curiosi avevano invaso l’immensa nave. Passeggiavano nei corridoi, nei saloni, dappertutto e qualche testa si affacciava nella cabina, mentre alcune voci mormoravano, da fuori: «È l’appartamento del dottore.»

Allora Pierre spinse l’uscio. Ma, appena si sentì chiuso con i suoi, ebbe voglia di riaprirlo, perché l’agitazione della nave ingannasse il loro imbarazzo e il loro silenzio.

Alla fine, la signora Rosémilly volle parlare:

«Viene poca aria, da quei finestrini.»

«È un oblò,» spiegò Pierre.

Mostrò lo spessore che rendeva il vetro capace di resistere agli urti più violenti; poi illustrò a lungo il sistema di chiusura.

Roland, a sua volta, domandò:

«Hai anche la farmacia, qui?»

Il dottore aprì un armadio e mostrò, allineate come libri in una biblioteca, delle bottigline che recavano nomi latini su etichette di carta bianca.

Ne prese una ed elencò le qualità delle sostanze che conteneva, poi una seconda, poi la terza e fece una vera e propria lezione di terapeutica che i visitatori mostravano di ascoltare con grande interesse.

Roland ripeteva, scuotendo il capo:

«È una cosa interessante.»

Bussarono lievemente all’uscio.

«Avanti,» gridò Pierre.

Apparve Beausire, che disse, tendendo la mano:

«Vengo tardi, perché non ho voluto disturbare le vostre effusioni.»

Dovette sedere anche lui sul letto. Restarono di nuovo in silenzio. Ma, all’improvviso, il capitano tese l’orecchio. Attraverso la parete gli giungevano dei comandi ed egli avvertì:

«È ora che andiamo se vogliamo imbarcarci sulla Perle per vederlo ancora all’uscita del porto e salutarlo al largo.»

Roland padre ci teneva molto, certo per far impressione sui passeggeri della Lorraine. Si alzò alla svelta.

«Su, arrivederci, ragazzo mio.»

Baciò Pierre sulle basette, poi riaprì la porta.

La signora Roland non si muoveva e se ne stava lì con gli occhi bassi, pallidissima.

Il marito le toccò il gomito.

«Su, sbrighiamoci; non c’è un minuto da perdere.»

Lei si alzò, fece un passo verso il figlio e gli porse, una dopo l’altra, le guance bianche come la cera che lui baciò senza dire una parola. Poi strinse la mano della signora Rosémilly, quella del fratello, e chiese:

«A quando il tuo matrimonio?»

«Non so ancora con precisione. Lo faremo coincidere con uno dei tuoi ritorni.»

Alla fine, tutti uscirono dalla cabina e risalirono sul ponte ingombro di pubblico, di facchini e di marinai.

Le macchine russavano nel ventre enorme della nave, che pareva fremesse d’impazienza.

«Addio,» disse Roland, al solito sempre frettoloso.

«Addio,» rispose Pierre, ritto all’estremità di una passerella che congiungeva la Lorraine alla banchina.

Strinse di nuovo le mani a tutti, poi la sua famiglia s’allontanò.

«Presto! Presto, in carrozza!» gridava il padre.

Li attendeva una carrozza da nolo che li trasportò all’avamporto, dove Papagris teneva la Perle pronta a prendere il largo.

Non c’era un alito di vento: era una di quelle giornate asciutte e calme d’autunno, in cui il mare liscio sembra freddo e duro come l’acciaio.

Jean prese un remo, il marinaio fissò l’altro nello scalmo e cominciarono a remare. Sulle dighe, sui moli, perfino sui parapetti di granito, una folla immensa, brulicante e rumorosa, attendeva la Lorraine.

La Perle passò tra quelle due onde di gente e, presto, fu oltre il molo.

Il capitano Beausire, seduto tra le due donne, teneva la barra del timone e diceva:

«Vedrete che ci troveremo giusto sulla sua rotta; ma giusto...»

E i due rematori tiravano con tutte le loro forze, per andar più presto. All’improvviso, Roland esclamò:

«Eccola. Vedo gli alberi e le due ciminiere. Sta uscendo dal porto.»

«Forza, ragazzi!» ripeteva Beausire.

Roland era in piedi, aggrappato all’albero.

«In questo momento,» annunciava, «manovra nel porto... Non si muove più... Si rimette in moto... Ha dovuto prendere il rimorchiatore... Cammina... Bene!... Passa fra i due moli! Sentite la folla che grida: evviva?... È il Neptune che la rimorchia... Adesso vedo la prua... eccola... eccola... Perdiana, che nave!... Ma guardate, perdiana!...»

La signora Rosémilly e Beausire si volsero; i due uomini smisero di remare; soltanto la signora Roland rimase immobile.

L’immenso transatlantico, trainato da un potente rimorchiatore che, davanti a lui, pareva un bruco, usciva lentamente e regalmente dal porto. E il popolo di Le Havre, ammassato sui moli, sulla spiaggia, alle finestre, trascinato all’improvviso da uno slancio patriottico, si mise a gridare «Viva la Lorraine!» applaudendo a quella magnifica partenza, all’opera di una grande città marinara, che dava al mare la sua creatura più bella. Ma la nave, appena ebbe varcato lo stretto passaggio chiuso tra due muri di granito, sentendosi finalmente libera, abbandonò il suo rimorchiatore e partì, sola, come un enorme mostro che correva sull’acqua.

«Eccola! Eccola!» continuava a gridare Roland. «Viene dritta verso di noi!»

E Beausire, raggiante, ripeteva:

«Che cosa vi avevo promesso, io? Conosco o no la loro rotta?»

Jean disse sottovoce alla madre:

«Guarda, mamma; si avvicina.»

E la signora Roland scoprì gli occhi accecati dalle lacrime.

La Lorraine, uscita dal porto, arrivava, lanciata a tutta velocità, con quel bel tempo limpido, calmo. Beausire, con il cannocchiale puntato, annunciò:

«Attenti! Il signor Pierre è a poppa, solo, bene in vista. Attenzione!»

Alta come una montagna e rapida come un treno, la nave, ora, passava quasi sfiorando la Perle. E la signora Roland, smarrita, angosciata, protese le braccia verso di essa e vide suo figlio, suo figlio Pierre, con il capo coperto dal berretto gallonato, che le gettava con tutte due le mani, baci d’addio. Ma egli se ne andava, fuggiva, scompariva, divenuto già piccolissimo, sbiadito come una macchia impercettibile sulla gigantesca nave. Sua madre si sforzava di riconoscerlo ancora ma non lo distingueva già più.

Jean le aveva preso una mano:

«Hai visto?» disse.

«Sì; ho visto. Come è buono!»

E tornarono verso la città.

«Perdiana, come fila!» dichiarava Roland con una convinzione entusiastica.

Il piroscafo, infatti, rimpiccioliva di secondo in secondo, come se si fosse fuso nell’oceano. La signora Roland, rivolta verso di esso, lo guardava scomparire all’orizzonte verso una terra ignota, all’altro capo del mondo. Su quella nave che nulla poteva fermare, su quella nave che tra poco non avrebbe visto più, c’era suo figlio, il suo povero figlio. E le pareva che metà del suo cuore andasse verso di lui, che la sua vita fosse finita; le pareva, anche, che mai più l’avrebbe rivisto.

«Perché piangi?» le chiese il marito, «tornerà prima di un mese.»

Lei balbettò:

«Non so: piango perché sto male.»

Quando furono tornati a terra, Beausire li lasciò subito per andare a colazione da un amico. Jean camminava avanti con la signora Rosémilly e Roland disse alla moglie:

«È un bel ragazzo, però, il nostro Jean.»

«Sì,» rispose la madre.

E siccome aveva il cuore troppo a pezzi per pensare a ciò che diceva, aggiunse:

«Sono molto contenta che sposi la signora Rosémilly.»

Il brav’uomo fu meravigliato:

«Ah! Come? Sposerà la signora Rosémilly?»

«Ma sì.. Facevamo conto di chiedere il tuo parere oggi stesso.»

«To’! To’! E questa faccenda è in ballo da molto tempo?»

«Oh, no! Da pochi giorni soltanto. Jean voleva essere sicuro che lei lo avrebbe accettato, prima di parlartene.»

Roland si fregava le mani:

«Benissimo, benissimo, perfetto! Per conto mio, approvo assolutamente!»

E, poiché stavano per lasciare la banchina e prendere il boulevard François I, la moglie si girò ancora per lanciare un ultimo sguardo verso il mare aperto. Ma non vide che un filo di fumo grigio, così lontano, così leggero, che sembrava foschia.

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