Poemetti (Rapisardi)/Don Josè
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DON JOSÈ.
I.
Se da questo fiorito èremo torna
Il mio pensiero a’ combattuti campi,
Ove, nel sole de’ begli anni, invaso
D’un’Idea santa, perigliai la vita,
Più quest’io non ravviso, a cui l’aspetto
D’un bimbo infermo o d’un uccel ferito
Conturba di pietose ombre la mente.
Io mi avvolsi fra l’armi? Io l’arte appresi
Di trucidar? L’uman sangue versai?
E lode n’ebbi? E non più saggio, onesto
Ed umano mi tengo; un dente acuto
Penetra le mie fibre intime, e un lungo
Incubo la mia tetra anima opprime.
Pur, se a te miro, o Libertà, suprema
Luce al pensiero de’ mortali; e l’ombre
Di cui ti assiepa, e i nodi onde ti attorce
Venale industria e prepotenza abjetta
Fremendo osservo, allor vile mi sembra
Questa mia pace, e il proprio e l’altrui sangne
Per te, divina, verserei di nuovo.
II.
Tu mi dèsti, Arianna, il tenue filo,
Onde già fra dedalei avvolgimenti
Penetrai baldo e il Minotauro uccisi;
Tu la pronuba face, onde pe’ flutti
Giunsi illeso al tuo bacio, Ero, accendesti.
Ma poi che inaridì, come giacinto
Mòrso dal gel, la giovinezza mia;
E come frana minacciosa pende
Sul mio capo la rigida vecchiezza,
Ha smarrito il suo fil la mia ragione;
Il suo faro d’amore ha il cor perduto:
Per tenebrose ambagi erro; in ricordi
Vani mi attardo; e a me voraci intorno
Bollono i flutti; e il polo oscuro è presso.
III.
Ai palagi incantati, a’ cristallini
Rivi, di fate e di sirene albergo,
A’ gemmati antri, a’ mistici giardini
Volsi, animoso paladino, il tergo.
Vinta la chiostra degli erculei fini,
In climi inesplorati ecco m’immergo;
E di mostri terrestri e di marini
Fatta strage, agli eroi grandi mi attergo.
Ed or la terra è mia; libero s’alza
L’animo al cielo; splendida la fronte
Sta contr’a’ numi e contro al fato eretta.
Ma se appare una vela a l’orizzonte,
Se ondeggia a l’aure un dolce canto, balza
Trepido il cor che la sua pace aspetta.
IV.
Odj sfidare ed affrontar perigli
Fu giovanil mia voluttà; mirai
Cento forme di morte e di dolore
In ospizj pietosi e in campi orrendi;
E la virtù ch’ebbi in domar me stesso
E i miei mali e gli altrui finger ne’ carmi,
Caro perfino il mio dolor mi rese.
Ma se miro incurvir di giorno in giorno
Questa mia vecchia venerata, e bianca
Bianca più sempre e quasi aerea farsi,
La mia virtù, l’arte diletta oblío:
Una mano d’acciajo il cor mi serra,
E le lacrime, insolite al mio ciglio,
Tutte ne spreme ed a salir le sforza.
Giovane e forte. io la rammento: fiera
De’ suoi governi, con lo sposo e i figli
Snodar la lingua a vanti ingenui, e d’alta
Lode onorar la donna onesta e saggia,
Che tutta intèsa al famigliar decoro
Spregia i fasti del mondo, e le furtive
Fanti vegliando, inesorata infligge
Alle infide e proterve util castigo.
Tacita e tarda ora si trae per l’erme
Stanze, membrando i cari estinti; o assisa
Ne la seggiola antica, ove mio padre
Agonizzò, daccanto al picciol letto,
Mormora preci; e dai nodosi diti,
Che alla calza per uso anco affatica,
Sfuggir lasciasi i ferri industri, e il lento
Capo inchinando placida sonnecchia.
A contemplarla io mi soffermo; e ogni altro
Pensier vanisce in questo sol: quand’ella
Più non sarà, rotti saran per sempre
Gli occulti fili, onde alle Madri eterne
Dell’universo il viver mio si lega!
V.
Se, come tu di spine armi i tuoi pori,
Euforbio immite, i miei pensieri armai,
E come tu di sanguinosi fiori,
Di fieri versi io l’aspra vita ornai,
Non mai maligni e velenosi umori,
Perfida pianta, come te stillai;
Degl’innocenti e dolorosi cori
Frodi non tesi alla virtù giammai.
Ben talor su le altrui torpide piaghe
Acri, amare versai cocenti stille
Che a la putrida età sembrâr veleno;
Ma se del male altrui furon mai vaghe,
Amore il sa che l’esprimea dal seno,
E sel sauno del par le mie pupille.
VI.
Più che dar non mi possa io non ti chiedo,
O Scíenza dell’uom. So che al tuo volo
Son le foci e le fonti alte precluse
Del mirabile fiume; e nell’austero
Crepuscolo dei tuoi regni ristretto,
Piego docile alunno al tuo bel seno
La fronte, e quest’ingordi occhi vorrei
Sigillar ne la pace. Ahi, ma l’infermo
Spirito geme irrequíeto; e ancora
Che a vane inchieste il labbro mio si chiuda.
Interroga la mente; e acuto, insonne
L’occhio mio la nemica ombra ferisce.
VII.
O vecchia vela, che degli euri infidi
Sai la chiara lusinga e il fosco oltraggio,
E all’incertezze d’un lontan viaggio
Audace ancora il sen logoro affidi,
Troppo in te forse e del nocchier tuo saggio
Nella fortuna e nel valor confidi,
Se contr’al ciel maligno e al mar selvaggio
Speri giungere illesa agli ardui lidi.
Ma sia che il nembo ti flagelli, o sia
Ch’ozíosa tu penda all’aria morta,
Sempre al ciel t’aprirai nitida e franca;
E se cadrai da’ neri gorghi assorta,
Cadrai, come la vecchia anima mia,
Lacera sì, ma dispiegata e bianca.
VIII.
Empia pur del mio nome i suoi contesi
Oricalchi la Fama, e con perenne
Clangore a’ lidi più remoti il mandi;
Finga in rigido marmo e in bronzo austero
Arte ravvivatrice i miei sembianti,
Non si spiana però de la severa
Fronte il triplice solco, onde il Pensiero,
Acre dio, la segnò sin da’ primi anni.
Non a te, non a te, che tanti eccelsi
Animi, o Gloria, al tuo bel giogo inchini,
lo drizzai più de le mie brame il dardo,
Non a te l’ali del presago ingegno,
Quando l’Idea sublime, a cui sol vivo,
Primamente al mio casto animo arrise.
Alte cose tentai; sperai che squilla
Fosse a’ dormenti il detto mio; che, sgombro
Di numi il cielo e d’oppressori il mondo,
Sorridesse la Pace a le benigne
Confederate opere umane. Audaci
Speranze, il so; ma qual poter maligno
Vi dilunga da noi, sperauze alate?
Ahi, non una finor de le felici
Immagini invocate a noi discese;
Non una ancor de le sue rosee bende
Fasciò le piaghe de’ mortali, ancora
Siccome labbra sitibonde aperte!
Ond’io torbido fremo; e se fra tanto
Dolore umano al verso mio dà lode
La discreta amistà; se il capo emunto
Levan da la servile opra i dolenti
Acclamando al mio dir, voce di scherno
Mi sembra il plauso dei mortali; e un vampo
D’ira il mio volto e di vergogna accende
IX.
Quella cerea beltà, che spezzò tante
Fibre d’acciar, sognai ch’era ancor viva,
E su la fossa del suo primo amante
Fiori intrecciava e il labbro al canto apriva.
«O dolce amor dal pallido sembiante,
Come presto giungevi a questa riva!
Come volenteroso a le mie piante
Il cor gittasti che la gloria ambiva!
Ma sol non giaci: in questo rezzo blando
Dormon con te molti a me cari; ed io
Spargo su tutti ognor lacrime e fiori;
E a voi tutti, o canuti e biondi amori,
Apro, soavi nenie mormorando,
Cimitero di marmo, il petto mio».
X.
M’arrampicai su l’alpe eccelsa: i nidi
Dell’aquila esplorai; sentii da presso
Ruinar la valanga, orride intorno
Scrosciar l’acque e scricchiar gl’irti ghiacciaj,
E giù nel fondo, qual purpureo mare,
Fluttuar cupa e brontolar la selva.
Qual fáscino improvviso attorse e smunse
Il corpo mio? Già m’era a vista il picco
Ultimo, e il cor mi presagía secura
La vittoria: già il Sol primo lambía
Il mio crin, le mie ciglia, allor che ansante
Ristetti: tremolavan le ginocchia
Come spiche percòsse; un fragoroso
Turbine imperversò nel mio cervello,
E inerte all’orlo de l’abisso giacqui.
Strisciavan su la mia madida fronte
Sinistre ale d’augelli, ombre spettrali
Di nebbia; mormoravano parole
Misterioso a’ sanguinanti orecchi,
Sfioravan la mia gota algida i bianchi
Genj de la montagna. Io su l’abisso
Pendea supino; e sopra i trasognati
Occhi, su la stupita anima, quasi
Immane pietra sepolcral, sentía,
Incombere sentía l’azzurro immenso.
XI.
Virtù, salute, amor, sapere, ingegno
Beni non sono al mio buon Genio ignoti;
E, s’odo il ver, di così rare doti
Non fui (tel soffri, invida ciurma) indegno.
Pur, se dintorno a me tanti a me noti
Dolori affiso, il viver mio disdegno:
Ahi, d’un solo dolor non valser voti,
Non versi ed armi a debellare il regno!
Ben ancor delle oneste opere echeggia
La fama; io taccio; e in un indefinito
Fastidio il mio pensier triste si addorme.
E su l’anima mia (vasto, uniforme
Lago ne l’invernale ombra sopito)
La gran giornata de la Morte albeggia.
XII.
Sedevo a cena sotto i cedri in fiore.
Splendea sereno il plenilunio; intorno
S’addormivano i campi; e la pensosa
Tranquillità dell’ora, il casto lume
Del cielo, il canto delle assidue rane
Ondeggiante a la placida campagna
Vaporosa al respir novo d’aprile,
Persuadeano al mio spirito un mesto
Desiderio di pace alta, infinita.
Intènto, più che al cibo, era il mio sguardo
A un sorriso di mar, che scintillante
Fra una siepe s’apría d’alberi foschi;
E già per quella via d’oro e d’azzurro
Veleggiava il pensier, quando uno strano,
E orrendo potrei dire, ospite venne:
Una forma indistinta, un mucchio vivo
Di cenci e di lordura, ove tra un fitto
Orror di peli luccicavan due
Occhi o punte d’acciaro insanguinate,
E più sotto, una chiostra aspra di bianchi
Denti di belva. E come belva in antro,
Ringhiando entrò; di fronte a me si assise,
E allungando la branca ischeletrita,
M’indicò sghignazzante il cibo e il vino.
Fra ribrezzo e pietà tutto io gli porsi;
Egli, il tutto in due parti eque diviso,
L’una in corpo cacciò, l’altra a me spinse.
Indi satollo e barcollante sorse;
Mi batto su la spalla, e «Addio, fratello».
Con un beffardo mugolío mi disse;
E tale un guardo mi lanciò, che in seno
Balzar sentii, qual battuta onda, il sangue.
Ed io, non so perchè, sin da quell’ora
Colpevole mi sento; e quel suo sguardo
In cor mi sta, come un pugnal, confitto.
XIII.
Naufrago, forse. Oscuro e violento
S’attorce il turbo a la raminga barca
Ma il flutto, che qual serpe il dorso inarca,
Non udrà fra’ suoi gorghi un mio lamento.
L’abisso, onde il funesto alito sento,
La prora inghiottirà, ch’agile or varca;
Ma i peregrini semi, ond’essa è carca,
Si spargeran liberi e forti al vento.
Germoglieran tenaci in meno avaro
Lido i bei semi; e dalle arboree chiome
Ombre e fiori daranno a un pio soggiorno.
E forse alcun, che di quei rami al caro
Rezzo si assida, fremere dintorno
Udrà con generosa ansia il mio nome.
XIV.
Dopo tanti anni la rividi, oh quanto
Diversa! Quella sua fulva, selvaggia
Chioma, che stretto avea con serpentine
Spire il mio cor, fatta era grigia, e come
Nebbia su’ greppi d’una brulla rupe,
Le sue tempie lambiva in preda al vento.
Quel sopracciglio suo, che folto e bruno,
Al furíar d’un improvviso sdegno,
Uníasi all’altro, e fra l’eburnea fronte
E il fiammeggiar de’ grandi occhi segnava
Una torbida striscia, onde più bello
Nel suo fiero pallor faceasi il volto,
Quel sopracciglio ora spianato, e quasi
Stanco di raggrottarsi agl’improvvisi
Moti de la vorace anima, inerte
Stendeasi come lento arco che tutti
Lanciò i suoi dardi, e in polveroso oblio
A una vecchia parete immobil pende.
E le labbra, oh le labbra, a cui nell’alto
Abbandono di me tutto a ber diedi
I più puro licor de la mia vita;
Quelle labbra sì belle anco nel pianto,
Che nello sdegno, nel piacer, nell’ira
Avean tremiti arcani, e da cui tanta
Spirava aura di canti e di malíe:
Incantatrici labbra, ove ahi sì spesso
La bugia turpe o il meditato oltraggio
Toni usurpava di gentil fierezza,
Vezzi assumea di verginal candore,
Nappo vuoto or parean, che in geniali
Banchetti prodigato avea l’ebrezza
Al pensiero dell’uomo, e poi caduto
Di mano in man nell’umile bacheca
D’un rigattiere ebreo, la liberale
Bizzarria d’un Inglese indarno aspetta.
Rassegnata al dolore, alla vecchiezza,
Alla morte mi parve. Era un tramonto
D’autunno, e pe’ víali ampj del bosco
Odorati di musco e di languenti
Foglie (oh dolce stagione, a cui dà tanto
Fáscino il senso del morir vicino!)
In allegre brigate, in rilucenti
Cocchj ondeggiava la città, rapita
Un’ora, forse, alle diurne cure.
Passar la vidi senza alcun rimpianto.
Senza un sospir. Ma quando al sole opposto
La rosea, vaporosa ombra sua vidi
Allungarsi al mio piede, e lentamente
Confondersi con altre ombre è sparire;
Quando pensai che dietro a quella umana
Ombra io sfiorato avea le più superbe
Rose della mia vita, un sentimento,
Non so se d’ira o di pietà, m’invase
Tutto, a un punto; contrassi ad un amaro
Ghigno le labbra, ma fra le contratte
Labbra insieme sentii, non meno amara,
Insinuarsi una cocente stilla.
XV.
Tutto il giorno ululato ha il temporale;
Ancor brontola il tuono all’aria bruna;
Sorge or la sera, e pallida, spettrale
Guarda su le ribelli ombre la luna.
Par la terra inondata una laguna
Indefinitamente atra ed uguale,
Da cui lento un vapor torbido sale,
Ma non voce, non suon, non forma alcuna.
Diffondi, o luna pia, su gl’infecondi
Gorghi il tuo lume; su’ deserti piani
Il tuo placido lume ampio diffondi;
E tu, vecchio mio cor, mio cor ferito,
Stendi un oblío pietoso, un infinito
Compatimento sugli errori umani!