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Poesie (Fantoni)/Odi/Libro I/XXXVII. Il sogno, a Clemente Bondi

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XXXVII. Il sogno, a Clemente Bondi

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XXXVII. Il sogno, a Clemente Bondi
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XXXVII

Il sogno

(1789)

     Renda il pietoso ciel vano l’orribile
sogno, e vuote di corpo oscure larve
sian quella tomba e quel nume terribile,
che al rinascer dell’alba oggi mi apparve.

     5Bondi, cui tanto i toschi geni arrisero,
che al cantore d’Enea t’assidi a lato,
offri candido voto, e fa’ che il misero,
dolente augurio non confermi il fato.

     Io non offersi all’aureo Pluto vittime
10di famiglie indifese ed innocenti,
né del tranquillo suol l’onde marittime
avido corsi a depredar le genti.

     Non arsi in corte di celata invidia,
turpe ministro d’ambiziose brame,
15né ai crudeli clienti io tesi insidia,
né delusi gli amici, ospite infame.

     Né delitto è l’amar. Gli dèi non sdegnano
dei cuor la prece per amor tremanti;
essi, che fausti sul creato regnano,
20vuonnoci lieti e ci desiano amanti.

     Le ruote omai del carro suo stellifero
tergea la notte nella stigia gora,
e del sol messaggier scendea Lucifero,
l’oro guidando e la compagna aurora;

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     25quando il sonno, che tardi all’egre e all’avide
menti ministra placida quiete,
su le mie luci, di stanchezza gravide,
sparse pietoso alfin l’onda di Lete.

     Per le fibre sentii languor benefico
30serpere ad inondar l’anima mesta:
quindi non so qual genio empio e malefico
in ignota mi trasse erma foresta.

     Un urlo mi ferì, mi scosse un brivido;
e mi trovai su dirupate selci,
35cinto da macchie di spinoso e livido
rovo, da cardi e da infeconde felci.

     Mugghiava il cielo, e ardea di lampi: al fremito
fra i sassi rotte rispondeano l’onde,
e dei venti lottanti all’urto, al gemito
40strideano i rami e ne cadean le fronde.

     Tutto il bosco d’onor languiva povero,
fuor che pochi cipressi a un muro accanto,
ove fra le ruine avean ricovero
gufi e strigi, ululando in suon di pianto.

     45Sorgea di terra non lontano un cumulo,
coperto d’erba inaridita e sparso
d’infrequenti ginepri, e in mezzo al tumulo
s’ergea, non chiusa ancora, urna di tarso.

     Chino sopra di questa, la bellissima
50fronte al braccio appoggiata, era il piú vago
garzon che viva; ma di duol mestissima
nube turbava la divina imago.

     Intonso il crin gli svolazzava, squallida
avea la faccia e di pietá languente;
55qual si mostra la luna, allor che pallida
cede al di fra le nubi in occidente.

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     Dall’alte spalle al piè lenti scendeano
il croceo manto e la cerulea veste,
che sul petto e sul fianco auree stringeano
60zone raggianti di beltá celeste.

     Reggea la destra, sovra l’urna immobile,
atra ghirlanda di dolor ministra,
e gli pendea l’eburnea cetra, nobile
opra rara dell’arte, alla sinistra.

     65Febo conobbi: tale, il crudo scempio
di Iacinto piangendo e i folli amori,
fe’ alle sfere ritorno, allor che l’empio
caso eterno lasciò scritto tra i fiori.

     Guatommi e sospirò; poi volse all’etera,
70indi sopra di me le luci fisse:
fe’ la cetra parlar: tacque la cetera,
si scosse il suol, tremò la selva; e disse:

     — Salve, mia cura e delle muse, amabile
cantor, intatto di pensieri e d’opre!
75Armati di costanza inalterabile:
ti squarcio il vel che l’avvenir ricopre.

     Colei che adori, piú che sposo ai teneri
giorni nuziali timidetta sposa,
e saggia amica e pura amante veneri,
80piú che figlio fedel madre pietosa,

     presto, ahi, presto cadrá! ché omai su l’omero
l’audace man la Parca rea le mise,
e langue quasi fior che il crudo vomero
dal lacerato stel mesto recise.

     85Seco ti crede ancor lontan; vaneggia
agonizzando: ah che in pensarlo io fremo!
— Vien’ch’io t’abbracci — esclama, — e ch’io ti veggia
a raccôr su le labbra il fiato estremo. —

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     Giá più non parla: lacrimando Venere
90fuggì dal letto, e gittò Amor la face.
Ed io quell’urna eressi, ove il suo cenere,
sacro a chi ben amò, riposi in pace.

     Ma forse il ciel può ancor placarsi e arridere
alle tue preci, ché pietoso è Giove:
95se un decreto fatale ei deve incidere,
nel paterno suo cor s’ange e commove.

     Umil l’implora, e, de’ miei detti memore,
offri te stesso per la vita sua;
ma sappi, aimè! che Nice salva, immemore
100del sacrificio, non sará piú tua. —

     Disparve, e mi destai. Nice insensibile
scordi pur quel ch’oprò, quello ch’io fui:
accetto il duro patto: è men terribile,
che vederla morir, cederla altrui.

     105Sia di lei degno il nuovo amante; indocile
alma non nutra per geloso ardore;
alla pietade e alle carezze docile
abbia la mano, e mi somigli al core.

     Di me che fia? Presto io morrò di doglia...
no Febo, t’intendo, è mia quell’urna! Serra
tu queste luci, e la mia fredda spoglia
copri, piangendo, di pietosa terra.

     Allor vedrai Nice le chiome frangere,
memore ancor dei non estinti amori,
115e il mio rival, benché felice, piangere
e su la tomba mia sparger dei fiori.