Prima morire/IV

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Capitolo IV

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III V
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IV.

Augusto a Leonardo.

È vero; non ti posso nascondere nulla. Infatti c’era non solo la donna, ma c’era una donna in fondo alle fantasticherie, alle paure scrupolose della mia lettera. Dacchè l’hai indovinato, tanto vale che io lo confessi. Avrei anche fatto meglio a confessarlo prima; ma in realtà era una cosa senza importanza. [p. 13 modifica]

Del resto però ammetterai che la mia promessa di scriverti tutto è di una latitudine spaventosa. Tutto è immenso, non ha confini quando si tratta di impressioni e di sentimento.

In quel tutto, bisogna fare una scelta per ridurlo ai limiti del possibile. Ed appunto, volendo fare questa scelta nell’ultima lettera, mi parve che la prima cosa da dover eliminare fosse quella donna ch’era la causa delle mie agitazioni. Non sapevo chi fosse; non le avevo mai parlato; non c’era nessun rapporto fra noi. Avresti riso e m’avresti trovato puerile se t’avessi intrattenuto di quell’ombra, per l’unico fatto che aveva eccitati i miei nervi, e m’aveva dato un momento di vertigine. Supponi che per un’eccitazione convulsa mi fossi impaurito un momento di veder crollare la guglia del duomo, e rovesciarmi sul capo la statua della Madonna, sarebbe stato ragionevole riferirti quelle apprensioni come una cosa seria? Era lo stesso caso.

Però infatti, ora che lo sai, non ti nego che era appunto quell’ombra di donna che dettava la mia lettera. Non ne ero innamorato, ma temevo di diventarlo, ed esageravo i rigori del nostro patto per farmene un freno.

Per fortuna fu un falso allarme; ed ora che ci penso a mente tranquilla, non comprendo come mi agitassi tanto.

Ecco cos’è stato. La mia camera ha una finestra che dà sul cortile, ed è quasi interamente nascosta da una glicina, che si arrampica sul muro, e lo copre tutto.

La settimana scorsa, una mattina, avevo appena terminata la lezione del mio giovane di negozio, il [p. 14 modifica]Thalberg in erba, e stavo mettendo in ordine le carte sul pianoforte, quando il mio scolaro, che s’era accostato al finestrino, si voltò a farmi segno di raggiungerlo, ed il suo largo viso prosperoso era tutto ridente e beato.

Aveva scoperto, giù nel primo piano della casa di contro, il gabinetto da bagno di una signora.

Si vedeva che era uscita allora allora dal bagno; era tutta avvolta in un accappatoio bianco, che le si ammantava intorno con pieghe fantastiche. Aveva i capelli neri d’un bel nero lucente, e li aveva rialzati sul capo alla maniera delle statue greche; più rialzati che non consenta la moda, forse per evitare di bagnarli. Ma quell’acconciatura le dava un’aria classica, che si adattava benissimo alla sua figura alta, svelta, tondeggiante ed altera. Aveva ancora i piedi nudi, e portava due pianelline rosee, che sporgevano dall’accappatoio ad ogni passo, e lasciavano scorgere una caviglia bianca come marmo.

La bella donna passeggiava su e giù pel suo gabinetto, facendo dei passi lunghi un po’ teatrali, con un libro in mano che tratto tratto socchiudeva. Ed allora si fermava e faceva dei gesti guardando la punta delle sue pianelle, come se ripetesse dei versi, o una parte da commedia, a misura che l’andava studiando nel libro.

In fondo allo stanzino si vedeva la vasca di marmo bianco, e sulle sedie accanto, abiti, biancherie, gonnelle, stivaletti, una quantità di oggetti che non si potevano distinguere bene a quella distanza.

La finestra del camerino era socchiusa; ma appunto per modificare la luce, e ridurla a quella penombra che piace tanto nelle giornate estive, piut[p. 15 modifica]tosto che per una misura di prudenza. Forse quella signora non sapeva che la mia camera fosse abitata; o forse non poteva neppure accorgersi che esistesse la mia finestra dietro la folta glicina che la nasconde. Infatti è la sola apertura che ci sia in questo muro morto, fiancheggiato da una parte e dall’altra da due lunghi addentellati a foggia di rastrelliere.

Rimasi là affascinato a contemplare quella bella figura. Ma un’osservazione indiscreta del mio scolaro mi offese, e mi fece sentire l’indelicatezza che stavamo commettendo.

Mi vergognai di trovarmi là con quell’uomo ignobile, cercando di violare il segreto d’una camera riservatissima. Mi parve di ascoltare ad una porta, di leggere una lettera diretta ad un altro; ne arrossii.

Un momento fui sul punto di chiudere l’imposta interna della finestra sul volto del mio scolaro. Mi disgustava il pensiero che quell’anima volgare dovesse commettere, in casa mia, sotto i miei occhi, quella specie di violazione morale; mi pareva di esserne complice.

Però la paura di farlo ridere, di provocare qualche facezia triviale mi trattenne. Ma mi allontanai dalla finestra, e gli dissi l’ora. Egli allora si ritirò subito, rimpiangendo di dover andare al negozio immediatamente, perchè il suo principale è severissimo in fatto di puntualità.

Quando fu uscito pensai che dovevo evitare che si ripetesse quella scena.

Non sarebbe stato onesto permettere che quel garzone di negozio abusasse così della buona fede di quella signora che non sospettava di nulla. E [p. 16 modifica]d’altra parte non potevo sperare che quel giovane triviale comprendesse il mio scrupolo.

Dopo averci pensato a lungo, mentre ripetevo il mio ultimo valzer sul pianoforte, mi venne l’idea di scrivere alla signora per avvertirla che poteva essere veduta nel suo gabinetto da bagno.

Non sapevo il suo nome. Scrissi una riga in fretta, l’avvolsi intorno ad un sassolino, e mi affacciai alla finestra per gettarlo al suo indirizzo.

In quella la mia bella vicina, che aveva tirato fuori un braccio dall’accappatoio, forse per levarselo, inspirata da quello squisito pudore femminile che teme l’aria aperta, che si nasconde anche dalle cose inanimate, si sporgeva per chiudere le gelosie, ed io vidi tutto il braccio, la spalla e la rotondità nascente del petto.

Gettai il mio biglietto senza quasi saper dove; ma mi parve d’aver gettata anche la mia ragione dietro quella riga di scritto.

Tutta la sera e la notte fui agitato dalla visione di quella spalla tondeggiante. Mi pareva sempre di stare alla finestra e di sentirmi attirare da quella nudità bianca, giù giù nel vuoto, in un precipizio.

La vita solitaria a cui mi sono ridotto favorisce le mie fantasticaggini.

Sai come mi sembri umiliante, basso, servile quell’omaggio che la maggioranza degli uomini tributa alla bellezza materiale della donna. Mi pare che la bellezza fisica si debba apprezzare unicamente come la veste, come la rivelazione della bellezza morale. Eppure non sapevo nulla del morale di quella donna, ed ero in delirio per quel segreto di bellezza che avevo intraveduto. [p. 17 modifica]

Ne ero indignato contro me stesso, impaurito. Mi pareva d’essere disceso al livello di quel bottegaio che era stato là a spiare cupidamente per sorprendere, se gli fosse riescito, una nudità provocante.

La mia coscienza si allarmò; i nervi si eccitarono; la fantasia prese il volo. Mi parve di essere condannato ad adorare quella donna; di essere incapace di mantenere il mio giuramento, di essere destinato a perdere me stesso ed altri come il povero Marco. Mi sentii debole, maledetto, e, sotto quell’impressione, ti scrissi quella lettera un po’ stravagante.

Però, te l’ho detto, era un falso allarme. La signora dopo il mio avviso ha chiuse le gelosie del bagno, e non se ne vede più nulla.

Nel pomeriggio poi si mette a lavorare sopra un balcone accanto al bagno. È una sua abitudine. Stava sempre là anche prima, dev’essere il balcone del suo salotto. Veste sempre con eleganza; legge, ricama, guarda nel cortile con aria distratta, sembra che si annoi.

Ma non alza mai gli occhi verso la mia finestra, e non ha punto l’apparenza d’un’eroina da romanzo.

Qualche volta osservo il suo abito accollato, il suo anti-pittoresco solino inamidato, la cravatta legata a fiocco, e mi riesce impossibile figurarmi che là sotto, c’è quella spalla meravigliosamente bianca e rotonda. Ero esaltato, e forse l’ho veduta male, o piuttosto troppo bene.

Questa signora è un po’ magra; e la sua fisonomia, che, mentre leggeva e declamava, avvolta nell’accappatoio bianco, m’era sembrata altera, ora mi sembra fredda ed ironica. Tutta la nobiltà l’attingeva dalla pettinatura greca, dall’accappatoio drappeggiato [p. 18 modifica]a peplo, dal mistero e dall’eccitazione che spiravano da quella scena.

Del resto è puramente una signora come un’altra; ed io non ho paura di innamorarmi d’una signora come un’altra. Ho delle grandi idee e delle grandi aspirazioni. Dunque rassicurati. C’era infatti una donna fra le righe della mia lettera, come tu dici. Ma non era la mia donna, e quel romanzo è finito alla prima pagina.

Augusto.

D. S. No. Il romanzo non era finito. Ho trovato il seguito in un volume dello Zola che ho riportato questa mattina dal gabinetto di lettura dei signori Meiners e figlio.

Si vede che la mia vicina è abbonata a quella stessa biblioteca, e che aveva preparato questo libro, con una lettera aperta dentro, per mandarlo ad un’amica. Per una distrazione di lei o della cameriera, una specie d’avventura di Scaramuccia, il libro destinato alla signora Annita fu riportato alla biblioteca.

Io avevo raccomandato al Meiners di serbarmi Une page d’amour, che cercavo da un pezzo ed era sempre in lettura. Infatti, appena il libro fu restituito, il Meiners me lo mise da parte, ed io lo trovai là che mi aspettava avvolto in una carta, col mio nome sopra.

Quando, rientrato in casa, lo apersi, la prima cosa che vidi fu una pagina manoscritta. Ma mi era accaduto più d’una volta di leggere dei libri in cui una pagina mancante era stata sostituita da un’altra copiata a mano.

Cominciai a leggere con quest’idea, o piuttosto cercai di persuadermi che cominciassi a leggere con quest’idea. Abbiamo sempre bisogno di giustificare [p. 19 modifica]le nostre indiscrezioni anche in faccia a noi stessi. Ma io non voglio giustificare la mia in faccia a te.

Dalla prima frase capii che era una lettera dimenticata in quel libro. La lessi con curiosità, come tutte le note che trovo in margine ai volumi; e non sono poche. Dacchè sono là aperte, e non si sa di chi siano, si possono leggere.

Più innanzi vidi che la lettera parlava di me, e capii chi scriveva. Allora proseguii con un interesse vivissimo, senza che mi arrestasse neppure un minuto, l’idea dell’indiscrezione che commettevo. Ci pensai soltanto a lettura finita; troppo tardi.

Tutto quello che ho potuto fare per rimediare al male commesso (e non giurerei che l’ho fatto unicamente per questo, e non piuttosto per quell’istinto di vanità da cui nessun artista va esente), fu di avvertire in modo indiretto la signora che avevo letta la sua lettera.

La ravvolsi, col volume dello Zola, nella musica del mio ultimo valzer che aveva fatto grande impressione sulla mia vicina, ed andai a deporre io stesso quel piego dal portinaio della sua casa, raccomandandogli di portarlo su al primo piano alla signora Eva.

Però, se ci fu un sentimento di cui debbo accusarmi nel movente di tutto questo, è, come dissi, la vanità di far apprezzare meglio il mio valzer ad una persona che mi si è rivelata amante della musica ed intelligente. Ma del resto non ci ho posti secondi fini. Il risentimento che esprime nella sua lettera per il mio avviso circa il bagno, le sue interpretazioni ingiuste, il disprezzo che getta su di me, il suo scherno me l’hanno resa antipatica; e questa volta puoi essere ben sicuro che non ci penso più.

Augusto.