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Mozzarella, pizza, tortellini: un vocabolario da brevettare

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Mozzarella, pizza, tortellini: un vocabolario da brevettare
I III


Preoccupato del deficit alimentare, il presidente Craxi rimprovera periodicamente l’italica gente di avere dimenticato, mentre il mondo scopre pizza e tortellini, il salme per il caviale, e di avere sostituito il Borgogna al Barbera. E’ esplosa sul pianeta la moda del cibo italiano: non solo contadini e negozianti del Bel Paese paiono incapaci di approfittare della passione mondiale per la pizza, pretendono di condire la tartina con il pâté de fois. Possiamo partecipare all’amarezza presidenziale: pizza e tortellini sono diventati un affare planetario, ed è aspirazione legittima di chi la pizza ha inventato percepire le royalties del successo mondiale, ma salvaguardare il vocabolario che inizia con Albana e termina con Zibibbo impone di misurarsi con difficoltà immani: si possono tutelare, ed è già ardimentoso, le denominazioni geografiche, non si possono tutelare nomi generici, come tortellini e mozzarella. Un grande piano nazionale, che legasse indissolubilmente pizza e spaghetti al sole di Napoli, potrebbe, probabilmente, ricavare dal patrimonio gastronomico nazionale interessi copiosi, ma è possibile unire le energie agricole, industriali, commerciali della feconda terra italica? Se mai lo fosse, nell’attesa chi può si ingegna con l’espediente locale, che se non tutelare l’italianità della pizza su scala globale, consente ai paladini dell ‘Italian style di brindare, per capodanno, con champagne originale, quello fatto proprio a Epernay.


Tra le promesse a buon mercato e le perdonabili inesattezze, il Presidente del Consiglio non dimentica di ribadire, quando parla di cose agricole, una verità la cui ovvietà non ne elide il rilievo: la dieta italiana sta trionfando nel mondo. Mentre l'italica gente sostituisce allegramente il caviale al capitone e lo champagne al barbera, il Mondo intero, nota con rammarico Craxi, sta scoprendo che spaghetti con aglio, olio e peperoncino, pizza alle acciughe e maccheroni al pesto sono una polizza infallibile contro l'adipe e il colesterolo, conservano l'efficienza, assicurano la longevità.

Senza voler indagare sulla fedeltà alla dieta autarchica del Presidente, di Claudio Martelli e di Rino Formica (ma i grandi quaresimalisti erano generosi, con i discepoli, di dispense e eccezioni) il monito di Craxi richiama una verità sulla quale il mondo dell'agricoltura dovrebbe riflettere con la maggiore serietà. Attraversate gli Stati Uniti: non c'é borgo rurale che non si preannunci, sull'highway, con una batteria di pizzaland e di spaghetti house. Se, invece dell'automobile, scegliete l’aereo, come spuntino l'hostess vi ammannisce un impasto gelatinoso che l'etichetta, con Vesuvio fumante, definisce, trionfalmente, ravioli di Bologna. Supermarket iperlipidici essudano olio d'oliva che esportatori di Casalpusterlengo o di Porto Marghera garantiscono ottenuto direttamente da olivi (ancora più affidabili delle olive) di zona tipica, mentre dal banco di fronte occhieggiano sangiovese e malvasia prodotti e imbottigliati dai fratelli Gallo, viticoltori in California.

Laboratorio pasta fresca Maria Rosa Muzzioli, Modena, foto A.Saltini 2008. Archivio Nuova terra antica.


Sbarcando in America Cristoforo Colombo non riuscì, tragicamente, a radicare il gusto italico: il dizionario gastronomico italiano vi ha messo, comunque, radici tenaci. Se sono discutibili, peraltro, i successi di Colombo, una sorte migliore ha arriso ai cuochi fiorentini emigrati in Francia al seguito di Caterina dei Medici: lo jambon de Parme che vi propone come antipasto il ristorante parigino è tutt'altro che una cattiva imitazione. E' fatto in Auvergne, dove ci sono norcini che sanno fare il loro mestiere. E tutta l'industria agroalimenntare francese é in fermento per riprodurre parmigiano e mozzarella, e inventare vini frizzanti che, si garantisce, non avranno nulla da invidiare al Lambrusco. Dalla Francia alla Germania: ormai é la prima produttrice al Mondo di fontina piemontese, asiago, italico e affini. E l'itinerario potrebbe proseguire toccando l'intero emisfero del benessere.

Concluso il periplo l'immaginazione si piega all'insistenza di un interrogativo: a quanto ammonterà, nel Mondo, il giro d'affari dell'industria agroalimentare che vende prodotti con nome e, non di rado, cognome italiano? L'immaginazione pone la domanda, solo l'immaginazione può cercare una risposta: tra pizza e prosciutto, spaghetti e parmigiano non é inverosimile pensare a un valore due-tre-quattro volte maggiore di tutti i consumi nazionali, compresi quelli che, amareggiando il Presidente, ci ostiniamo a effettuare con prodotti ottenuti oltre le Alpi o il Mare Nostrum.

Una domanda dettata dalla fantasia può suggerirne un'altra economicamente meno evanescente: in quale misura partecipa, l'agroindustria nazionale, al grande business del cibo dal nome italiano? Alla quale é facile rispondere: quasi nulla. L'italiano culinario sta assurgendo al rango di lingua internazionale, ma dalle fortune del lessico gastronomico nostrano l'agricoltura italiana non sa trarre alcun vantaggio.

E' vero, si deve riconoscere: i codici internazionali consentono di tutelare la denominazione del prosciutto di Parma e quella del lambrusco di Sorbara, non autorizzano a brevettare la pizza, i ravioli e il barbera. Ma se almeno i nomi geografici sono inviolabili; é accettabile che mentre recitano la tragedia della lesa maestà per gli spumanti che vengono dichiarati ottenuti con metodo champenois, i francesi continuino a esibirsi nella produzione di jambon de Parme e di pseudoparmigiano? Invece di tante prediche contro l'abuso di salmone affumicato, non potrebbe, Bettino Craxi, scrivere al compagno Mitterrand che se le denominazioni non valgono altrettanto di qua e di là delle Alpi i vinai italici verranno autorizzati a chiamare champagne qualsiasi vino frizzante?

E se non é possibile brevettare ravioli, pizza e panettone, non esiste proprio nessuna strada per consentire all'agricoltura italiana di ritrarre dallo straordinario successo lessicale qualche piccola rendita, con cui riaggiustare i propri conti? Sarebbe sufficiente, probabilmente, un consorzio nazionale che firmasse pecorino spaghetti e olio d'oliva fatti in Italia con materie prime italiane ed i procedimenti caratteristici della tradizione italiana. E' un'idea tanto semplice che riesce arduo capire come non le sia stato mai dedicato, in un paese in cui i congressi alimentano affari di entità pari alla balneazione, neppure una tavola rotonda. E in cui non v'é ente o istituzione che non abbia il proprio budget per la promotion all'estero: banche e camere di commercio, consorzi ortofrutticoli e assessorati regionali. Persino le organizzazioni professionali, che procreano organismi di promozione di cui dimenticano l’esistenza appena dato fondo al contributo ministeriale con il cocktail inaugurale per i giornalisti amici.

Mentre l'agricoltura lamenta le proprie disgrazie l'industria meccanica esporta, efficiente e silenziosa, impianti per trasformare i pomodoro e per avvolgere tortellini: una grande campagna per promuovere l'origini italiana dei cibi dal nome italiano ne minaccerebbe le fortune? La domanda può indurre a riflettere. Probabilmente, può essere una risposta, la difesa del gusto originale degli alimenti italiani assicurerebbe un supporto indiretto anche alla vendita delle apparecchiature per produrre cibi italiani di imitazione, che le macchine italiane consentono, comunque, di ricalcare con approssimazione maggiore. Nonostante possano servire per fare spaghetti senza semola di grano duro, o mozzarelle senza latte di bufala. Che resterebbero gli ingredienti garantiti dal marchio Italia.


Laboratorio pasta fresca Maria Rosa Muzzioli, Modena, foto A.Saltini 2008. Archivio Nuova terra antica.


Mentre assessorati e camere di commercio investono patrimoni a reclamizzare il barbera di Castel Sangiovanni o il provolone di Piadena, il Paese rinuncia alla rendita su un patrimonio imponente, tanto imponente che basterebbe ricavarne un interesse del 2-3 per cento per risolvere tutti i problemi dell'agricoltura nazionale. Per riscuotere le cui cedole sarebbe necessaria, innanzitutto, una difesa intransigente, contro la petulanza francese, contro le attitudini falsarie dei casari bavaresi, dei nostri prodotti. Con la determinazione di arrivare fino al Gatt, dove i messi di Reagan minacciano guerre cosmiche per qualche lira di premio al grano duro inglobata negli spaghetti, dove non abbiamo mai sollevate un'obiezione per il fiume di nomi e cognomi italiani con cui vengono battezzati i prodotti che nutrono gli americani. Poi il coraggio di un grande disegno nazionale: un unico marchio, una grande campagna di promotion. E’ un tema che vogliamo suggerire per le spaghettate (aglio piacentino, olio pugliese, peperoncino calabro) del Presidente del Consiglio con compagni di partito e amici di governo Se, tra una bottiglia di barbera e un fiasco di chianti, congegnassero un progetto, potremmo persino concedere, senza scandalizzarci che brindassero, alla fine, con champagne Quello vero, fatto tra vigne e cantine di Epernay.


Terra e vita n° 12, 22 marzo 1986