Primo maggio/Parte quinta/IX

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Parte quinta - IX

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Dopo la chiamata del Provveditore e l’annunzio della conferenza - che tutti a scuola riseppero - gli affari suoi precipitarono. Presentendo che non avrebbe potuto durare, i suoi scolari ostili presero baldanza - i suoi colleghi parte lo sfuggirono, parte lo disapprovarono apertamente, essendo in tutti la convinzione che non avesse altro movente che una sfrenata ambizione; persino i bidelli gli scemarono le forme del rispetto. Anche i parenti degli alunni ostili, anche di quelli che l’avevano prima strisciato per accaparrarselo, mostrarono un’ostilità aperta. Qualcuno gli venne bensì a dire: - Signor professore! Io la penso come lei - le cose non possono andar avanti così - una riforma è necessaria - ma così a bassa voce, con dei "sia detto tra noi" e dei "a parlar in confidenza" così circospetti, che gli fecero più ira degli altri. Il Preside stesso, benché mostrando dolore, lo scansava, come un condannato. E anche fuori della scuola sentì dappertutto un’ostilità crescente. Andato una volta nel solito cerchio al Club, vi fu accolto dalla più parte con male occhiate e con bisbigli, e s’accorse d’aver agghiacciato la conversazione. Per la via egli si vide guardare in là per non salutarlo, come se fosse un uomo disonorato, da tali che una volta l’avevano adulato, a cui aveva fatto dei piaceri, dei miserabili, dei figli di falliti e d’usurai, coi quali, per bontà, aveva sempre finto d’ignorare l’infamia paterna, di cui essi stessi non erano immuni. Persino di parecchi dei suoi più intimi e buoni amici d’un tempo, che ancora gli mostravano amicizia come se nulla fosse, egli riseppe che dietro le spalle ne parlavano con beffa e lo laceravano, e che uno l’accusava perfino d’essersi venduto al partito.

E allora l’animo suo s’alterò. Egli prese a odiare i suoi colleghi e metà dei suoi scolari e i suoi antichi amici. E gli entrò nel cuore l’odio della sua classe, con un nuovo ordine di pensieri. No, la borghesia non avrebbe mai capito, mai ceduto: era vero: le classi sociali non si convertono, esse muoiono nella logica del loro sviluppo. Stupidamente essa avrebbe creduto fino all’ultimo che quel gran movimento fosse l’opera d’un pugno di sobillatori pazzi e ambiziosi. Essa avrebbe sempre visto la quistione sociale a traverso gli articoli del codice vigente che è la Magna Charta dei diritti privati della borghesia. Essa amava i suoi privilegi più della propria vita.

Non soltanto si sarebbe difesa, ma avrebbe provocato fino all’ultimo. Fino all’ultimo essa sarebbe stata egoista e feroce senza saperlo. Sì, cominciava a odiarla questa gente, questi ricchi, la cui ricchezza puzzava di sudore e di lacrime, come quella del patriziato antico di sangue e di bottino; questo branco di sfruttatori protetti dalla legislazione che tengono in pugno. La sua probità non era che il silenzio dei suoi bisogni soddisfatti. La sua beneficenza non era che ambizione e prudenza, la sua religione una maschera, il suo disprezzo dell’antica aristocrazia, raffinata almeno e cavalleresca, una bassa invidia larvata, uno sfogato rancore delle antiche umiliazioni patite, e la patria per lei non era che una mangiatoia e una bottega. E nell’insistere di quei pensieri, egli incarnò la classe in un tipo, che non gli s’era mai presentato in forma determinante, il signore panciuto, che crede d’aver lavorato per la civiltà e per la patria arricchendosi, che della sua fortuna nulla attribuisce alla collaborazione alla società e alle circostanze favorevoli, ma tutto a se stesso, che porta la sua pancia come una cosa sacra, che ha un’andatura orgogliosa speciale, diversa affatto dalla gravità del pensatore, dalla spavalderia del giovane operaio, dall’aria ispirata dell’artista, dall’aria vanitosa del bell’uomo - un che di indefinibile e di speciale - come chi si considera un monumento eretto a se stesso - che dice: - Io sono lo stato, io sono l’ordine, io sono la civiltà, io sono la forza, la morale e il diritto. - Oh la razza odiosa! Ben degna del costume nero che aveva inventato per le sue gale, divisa da strozzini e da beccamorti, uniforme d’una casta gretta, presuntuosa e ridicola. - Ogni volta che gli passava questo tipo davanti per la strada, una vampa d’ira e d’avversione gli moveva il sangue.

Come l’animo, gli si mutò l’aspetto. Il suo viso già così roseo e sereno e buono prese stabilmente quell’espressione velata e dura che viene dall’ostinazione in un’idea fissa contrastata, e dal sospetto continuo di ostilità e di malevolenza. La sua voce armoniosa prendeva delle note aspre. L’irritazione del suo animo passò nei suoi modi. In casa non parlava quasi più. Una volta sola, in vari giorni, egli ebbe un diverbio con sua moglie, che, dalla finestra, aveva visto soffermata a parlare un momento col Geri - Non doveva salutarlo.

Essa reagì. Aveva del Geri un altro concetto. - Tu mi vuoi imporre anche i tuoi odi. Ora non vuoi che saluti gli amici di mio padre; poi non vorrai più che saluti mio padre.

- Egli è il mio più tristo nemico - le rispose - è lui che ha mosso tutto l’affare della petizione.

- Non è vero. Egli non l’ha firmata: egli ti difende sempre con tuo padre e col mio.

Ed era vero: aveva mosso tutto; ma col pretesto dell’amicizia della famiglia non aveva firmato - e coi due vecchi, per politica, se non lo difendeva, lo scusava.

- Lasciati fermare - le rispose con viso torvo - fin che può camminare.

Essa s’impaurì di quelle parole. Egli non parlò più. La casa diventò sempre più trista. Ora essa stava in attesa continua, in un presentimento tremante rassegnato d’una disgrazia. E quell’idea - la sua nemica - il Socialismo - diventò il suo pensiero fisso, il suo sgomento, d’ogni cosa, quasi come una forma visibile, uno spettro vermiglio fluttuante, che era sempre dietro di lui, ritto alla mensa, errante di camera in camera, affacciantesi e sparente dietro gli usci, nascosto in qualche parte, durante la notte. Ah sì, la notte, pensando, essa sentiva con terrore ch’egli era in casa, il suo tormentatore, il suo spauracchio, colui che aveva avvelenata la sua felicità domestica, che s’era cacciato fra loro, che aspettava il momento opportuno per dividerli per sempre.

Allora, per vendetta e reazione, egli si fece venire di nuovo in casa operai, accogliendoli anche con esagerata cordialità. E si decise per la conferenza, che solo per fargli pressione, era stata annunziata come sicura. Mandò, per concertare, a chiamar l’organizzatore e il Barra. Questi non l’aveva più visto dopo l’infuriare delle persecuzioni, - ma sapeva in confuso dalla Quistione sociale, dove si sapeva tutto. Vedendo il viso mutato del Bianchini, indovinò l’animo, e con una ingenua familiarità, con un sorriso sotto cui s’indovinava l’affetto: - Professore, - gli disse - la conducono a fare delle cattive vite, non è vero? - Quelle semplici parole gli diedero un senso di conforto. Vennero a parlare della conferenza. L’organizzatore s’incaricava di tutto: egli avrebbe ottenuto dalla Società degli scrivani la concessione d’una sala dov’era un teatrino. Quanto a uditori, non c’era da discorrere. A sentirlo lui avrebbe condotte 3000 persone. E parlò delle sue gite domenicali di propaganda. Pareva che avesse tutti i sobborghi di Torino nel pugno. - Son tutti con noi, son tutti con noi - La pera è matura. Nacque però una discussione se si dovevano invitare degli anarchici. L’organizzatore era per il sì. - Bisognava fondere. Questo al Bianchini pareva un sognar l’impossibile: sarebbe nato disaccordo alle prime parole: l’avrebbero interrotto. Ma no, - egli non avrebbe parlato a loro direttamente: avrebbe fatto conto che non ci fossero: ma, predicando la necessità della concordia, ai socialisti, avrebbe agito su di essi per contraccolpo. - Non tema le interruzioni, non fiateranno, lei è adorato! - Ma Barra scrollava il capo: non era di quell’avviso. Essi avrebbero mandato tutto per aria. E parlò del Baldieri, rimbrunendosi. Bisognava invitarlo per forza, e sarebbe bastato lui a far nascer dei guai. E dalle altre parole sue egli indovinò una guerra accanita, un odio ch’era fra loro, tutto un armeggio di cui non aveva notizia. - Oh! - disse il Barra - c’era abbastanza da fare a metter d’accordo gli operai socialisti, divisi in legalitari e violenti, dissenzienti in questioni di metodo e di propaganda, separati da gelosie di gloria, da rancori antichi, da rivalità di mestiere. Infine, si lasciò la cosa in sospeso. Bianchini avrebbe fissato il giorno. Loro due si sarebbero dati moto a preparare. Il Barra tornò severo andandosene, e disse al Bianchini: - Tenga duro, noi le vogliamo tutti bene.

E l’organizzatore esclamò: - Sarà un gran colpo! - e se ne andò entusiasmato, come se il capitalismo stesse per ricevere la sua botta mortale.