Primo maggio/Parte quinta/X

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Parte quinta - X

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Non di meno egli esitava ancora. Dopo uscito, un dubbio gli prese, varie cose lo rattenevano. - Una repugnanza che aveva avuto fino allora, un certo pudore di andare, lui colto, a riscuotere dei facili applausi da un pubblico incolto, - una certa apprensione di quel pubblico nuovo, che, come uditorio, era per lui un mistero, e più di tutto un sentimento che quasi non osava confessare a se stesso: il sentimento che ammirando la stampa ed esagerando il senso delle sue parole, quando pure, portato dal calore del discorso, non avesse egli stesso ecceduto, quello sarebbe stato un passo decisivo, che l’avrebbe messo definitivamente nel partito, fattogli forse cader sul capo il fulmine della destituzione. E stette esitando, triste, inquieto, per vari giorni - quando una giornata sinistra - giornata in cui gli si accumularono ogni sorta d’amarezze - lo decise.

Era il 1° Marzo. - Egli non doveva più dimenticare quella data. Tornando a casa, incontrò il Barra con un viso risentito e umiliato. Questi gli disse, senza risentimento, ma con la voce un po’ alterata, che andato a cercarlo a casa, gli aveva aperto la "sua signora madre", e, rispostogli bruscamente: - Non c’è - gli aveva chiuso l’uscio in faccia. - Non ho fatto nulla per meritare questo affronto...

Alberto corse a casa, vi trovò ancora sua madre con la moglie, e rispettosamente, ma pallido, si lagnò. Con quell’atto, essa aveva umiliato lui in faccia a quell’operaio. - La prego, non m’infligga un’altra volta una simile umiliazione.

La madre scrollò una spalla. - Sta a vedere - rispose - che dovrò ricevere un operaio come un senatore.

- Non dico questo. La prego soltanto di riceverlo come un uomo onesto.

Si voltò di scatto, volle dire una parola che ritenne - poi disse invece: - Un giorno... senti la mia profezia, Alberto, un giorno sarai tu stesso che scaccerai questi cialtroni da casa tua.

Alberto impallidì, e rispose: - Mamma, io morirò per essi!

Queste parole aveva detto con tale accento, che, per quanto fosse dura, la madre ebbe un brivido. Ma, al secondo pensiero, la cosa le parve così assurda e madornale, che la prese per una volata della fantasia, e per il dispetto stesso del primo effetto che le aveva fatto, rispose seccamente: - Non sarà una morte gloriosa.

Queste parole gli andarono come una pugnalata al cuore, che gli tolse di profferir più una sola parola. Si ritirò nel suo studio, si abbandonò sulla seggiola, e, lasciando scorrere le lacrime, si abbandonò a un’infinita tristezza. Gli pareva di non aver più madre. Non aveva più vincoli morali con essa. Ma forse che n’aveva mai avuti? E ricordando il passato, faceva per la prima volta delle scoperte dolorose. Essa non era mai stata tenera con lui, non l’aveva mai vista piangere, non l’aveva allattato, non uno dei sentimenti suoi generosi le venivan da lei. In suo padre, in sua moglie c’era almeno, a volte, qualche slancio di quella pietà umana che ora gli empiva l’anima. In lei, nulla. Tutta l’anima sua era riempita da un miserabile miscuglio di vanità di classe, di piccola alterezza, di ambizioni e d’orgogli di borghesuccia... Essa non credeva nemmeno alla sincerità della sua grande passione. Se per essa fosse morto, essa avrebbe forse pianto più di vergogna che di dolore. Mai nei grandi dolori che l’aspettavano avrebbe avuto quel divino conforto delle carezze materne. Egli non aveva più madre - non ne aveva mai avuto - Oh, com’era triste esser così solo!

Era ancora in questi pensieri due ore dopo, quando gli entrò in camera la sorella. Le corse incontro con slancio. Era tanto tempo che non la vedeva che di sfuggita! Essa aveva sul viso le tracce d’una battaglia con la mamma, a cui era sfuggita, quasi a forza. Finalmente lo poteva vedere da sola a solo! Da un mese la madre le contendeva in tutti i modi quella gioia. Gettò le braccia al collo ad Alberto: - Tu sei tristo, non è vero? Giulia non t’intende? Sei perseguitato? Hai dei dolori? Il papà mi dice tutto. - E per consolarlo, in fretta, sorridendo un po’ per forza, disse: - Ho letto questo, ho letto quest’altro - raccontò gli artifizi e i sotterfugi con cui continuava le sue beneficenze; tutta la povera gente del cortile le voleva bene; i bimbi la conoscevan tutti; la sua grande ricreazione era di star sul terrazzo del cortile, dove, passando, dal cortile, dalle scale, dal terrazzino dei Peroni, la salutavano persino gli uomini. Essa contemplava quel mondo lì, come una piccola immagine viva di quel mondo immenso di miserie e di dolori, che le rivelavano i libri e che non poteva vedere. Ci sarebbe stata delle ore, se le signorine delle famiglie vicine non si fossero affacciate anch’esse. Allora si ritirava - E perché? - Ah! Non per vergogna di far vedere che mi salutano; ma - soggiunse con un sorriso - perché al loro confronto son troppo brutta. - Il fratello la baciò, facendo cenno di no, ma senza poterglielo dire. Ma essa dimenticò presto l’uffizio di consolatrice parlando della mamma. - Ah! La mamma - disse, mutando viso - non vuol bene che a te. Quanti nascondigli doveva fare per leggere i pochi libri sociali che si faceva dare da Giulia! Essa glie li strappava di mano, e, per umiliarla, la mandava a fare i lavori che spettavano alla cameriera. Oh era un supplizio non poter dire una parola, senza essere rintuzzata, - non esser mai capita, - esser ridotta a non osar quasi di pensare, perché se la vedeva assorta, indovinava i pensieri, e le domandava con ironia, che le faceva male al cuore, se pensava di "rifare il mondo come suo fratello"... Poi gli confidò altri dolori... Fra le sue amiche, - signorine ch’ei conosceva di nome e di vista, ma non frequentava - essa aveva tentato di esprimere quelle idee, quei sentimenti. Ebbene, da prima avevan creduto che burlasse, poi l’avevan presa a gabbo, le davan la baia sulla nuova società, le domandavano: - Andremo tutte vestite eguali? La mattina nella fabbrica, non è vero, e la sera in società...? Rigoverneremo i piatti per turno alle famiglie del quartiere? Nessuna, nessuna aveva capito; essa era diventata ridicola; era lo spasso di loro, delle loro famiglie; e quando si vedevano, celiando, trovavano delle parole incredibili per passarle il cuore. - Ah! Che tristo mondo, Alberto! - esclamò con passione. E che vita è la mia! Tu vai nel mondo, tu scrivi, tu parli, tu lotti; io non posso far nulla, non ho nulla, non ho nemmeno del denaro... - disse con un sorriso triste. E poi con voce di pianto: io ho il corpo e l’anima in una tomba, dove mi pare di sentire una voce che ride continuamente di me. A volte sarei tentata di fuggire. - Egli cercò di calmarla, affettuosamente; ma un’esaltazione la dominava, un tremito nervoso. - Io andrei a lavorare, andrei negli ospedali... vedresti cosa saprei fare! Se potessi almeno stare con te! - E gli disse, sorridendo, come l’avrebbe aiutato, confortato, seguito in tutti i suoi atti, e mentre parlava il fratello osservava con inquietudine gli occhi lampeggianti, il collo dilatato, tutto il suo corpo come scosso troppo forte da una passione troppo violenta e compressa. Fin che diede in uno scoppio di pianto e gli si avvinghiò al collo convulsamente. Poi si staccò e fuggì, dandogli un bacio, e lasciandolo per la prima volta con un tumultuoso dubbio nell’animo, pensieroso. Aveva egli fatto bene a metterle quella fiamma nell’anima? Non le aveva fatto perdere anche il poco affetto della mamma? E dove l’avrebbe condotta quella passione? E restò a lungo pensieroso. E il dubbio d’averla resa infelice, gli si piantò profondamente nel cuore, come un dolore di più.

La sorella infelice e segregata da lui, separato da un abisso dalla madre, in disaccordo con la moglie, il padre come un fanciullo - Non gli restava che il suo Giulio, il suo adorato fanciullo. Ma da un po’ di tempo egli lo vedeva con rammarico stringersi più a lei. La cosa era naturale. Nella lotta tra padre e madre, vedendoli tutti e due soffrire, ignaro delle celate forze di resistenza morale che ha la donna, di cui giudica l’animo dalla inferiorità fisica, il fanciullo inclina piuttosto a considerare come la più infelice, come la vittima, la madre. E a lei fa scudo per istinto. Così avveniva da alcuni giorni, vedendola più abbattuta del solito.

Quella sera, a tavola, vedendolo far lo schifiltoso e lagnarsi d’un desinare eccellente, e già un po’ addolorato ch’egli avesse già fatto l’abitudine a vedere il padre così spartanamente sobrio, egli gli fece un rimprovero, con benevolenza: non pensava che come si nutriva lui tutti i giorni non si nutrono una volta all’anno millioni d’uomini che lavorano? E che migliaia di madri, tutti i giorni, piangono di non poter dare ai loro bambini convalescenti quel pezzo di pollo che tu rifiuti?

Il ragazzo rimase colpito, con sua soddisfazione. Ma la mamma ebbe il torto d’intervenire, con aria di difenderlo da un’ennesima severità. - "Almeno il ragazzo, lo potresti lasciar mangiare come vuole."

Egli s’alterò bruscamente. - È una quistione d’educazione indipendente dalle mie idee. Rassegnati almeno a lasciare che io combatta i suoi vizi.

- Oh - essa disse, con voce commossa e triste per altri pensieri - io sono ormai rassegnata a tutto, anche a morir di dispiacere.

Era una di quelle espressioni esagerate del sentimento femminile, a cui non dà gran peso nemmeno chi le dice; ma, all’udirla, il ragazzo saltò su, e le gettò le braccia al collo, voltandosi verso suo padre, con aria quasi di rimprovero.

E quello fu un nuovo e maggior dolore degli altri per lui. Egli s’alzò, come sospinto da un pensiero, da una previsione improvvisa, amarissima. Oh quel suo figliuolo tanto amato, aveva nelle vene più del sangue del suocero che del suo. Era una legge vera che il figliuolo madreggiava. Sì, egli sarebbe cresciuto con tutti gli egoismi, tutta la cecità della sua classe. A quel suo sogno di vederlo un giorno con le sue idee, superiori ai sordidi interessi, generoso, ardito, soldato della grande causa, egli doveva rinunziare come a una stolta speranza. Egli non avrebbe avuto figlio, sarebbe stato solo, considerato da lui come un vecchio padre insensato, dei cui vaneggiamenti avrebbe sorriso con pietà. Non gli rimaneva più nulla - e il suo pensiero, in quella solitudine, ricorse al suo ultimo amico, buono, leale, sicuro, che aveva sempre trovato eguale, il Cambiasi. Doveva esser tornato da Milano. Ed ebbe il pensiero d’andar da lui, per sua disgrazia.