Prose della volgar lingua/Libro secondo/XV

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Secondo libro – capitolo XV

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Raccolte ora queste maniere di giacitura, veggiamo se nel vero cosí è come io dico. Ma delle due prima dette, ciò è della giacitura, che sopra quella sillaba sta, che alla penultima è dinanzi, e di quella che sta sopra l’ultima, e ancora di quell’altra che alle voci d’una sillaba si pon sopra, bastevole essempio danno, sí come io dissi, quelli versi che noi sdruccioli per questo rispetto chiamiamo, e quegli altri, a’ quali danno fine queste due maniere di giacitura poste nell’ultima sillaba, o nelle voci di piú sillabe, o in quelle d’una sola, i quali non sono giamai di piú che di dieci sillabe, per lo peso che accresce loro l’accento, come s’è detto. Ragioniamo adunque di quell’altra, che alle penultime sta sopra. Volle il Boccaccio servar gravità in questo cominciamento delle sue novelle: Umana cosa è l’avere compassione agli afflitti; perché egli prese voci di qualità, che avessero gli accenti nella penultima per lo piú, la qual cosa fece il detto principio tutto grave e riposato. Che se egli avesse preso voci che avessero gli accenti nella innanzi penultima, sí come sarebbe stato il dire: Debita cosa è l’essere compassionevole a’ miseri, il numero di quella sentenza tutta sarebbe stato men grave, e non avrebbe compiutamente quello adoperato, che si cercava. E se vorremmo ancora, senza levar via alcuna voce, mutar di loro solamente l’ordine, il quale mutato, conviene che si muti l’ordine degli accenti altresí, e dove dicono: Umana cosa è l’avere compassione agli afflitti, dire cosí: L’avere compassione agli afflitti umana cosa è, ancora piú chiaro si vedrà quanto mutamento fanno pochissimi accenti, piú ad una via posti che ad altra nelle scritture. Volle il medesimo compositore versar dolcezza in queste parole di Gismonda, sopra ’l cuore del suo morto Guiscardo ragionate: O molto amato cuore, ogni mio ufficio verso te è fornito; né piú altro mi resta a fare, se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia; perché egli prese medesimamente voci che nelle penultime loro sillabe gli accenti avessero per la gran parte, e quelle ordinò nella maniera, che piú giovar potesse a trarne quello effetto che ad esso mettea bene che si traesse. Le quali voci se in voci d’altri accenti si muteranno, e dove esso dice: O molto amato cuore, ogni mio ufficio, noi diremo: O sventuratissimo cuore, ciascun dover nostro; o pure se si muterà di loro solamente l’ordine, e farassi cosí: Ogni ufficio mio, o cuore molto amato, è fornito verso te; né altro mi resta a fare piú, se non di venire a fare compagnia con la mia all’anima tua, tanta differenza potranno per aventura queste voci dolci pigliare, quanta quelle gravi per lo mutamento, che io dissi, hanno pigliata. Ne’ quali mutamenti, benché dire si possa che la disposizione delle voci ancora, per altra cagione che per quella degli accenti considerata, alquanto vaglia a generar la disparutezza che essere si vede nel cosí porgere e pronunciare esse voci, nondimeno è da sapere che, a comperazione di quello degli accenti, ogni altro rispetto è poco: con ciò sia cosa che essi danno il concento a tutte le voci, e l’armonia, il che a dire è tanto, quanto sarebbe dare a’ corpi lo spirito e l’anima. La qual cosa se nelle prose tanto può, quanto si vede potere, molto piú è da dire che ella possa nel verso; nel qual verso il suono e l’armonia vie piú naturale e proprio e conveniente luogo hanno sempre, che nelle prose. Perciò che le prose, come che elle meglio stiano a questa guisa ordinate, che a quella, ella tuttavolta prose sono; dove nel verso puossi gli accenti porre di modo che egli non rimane piú verso, ma divien prosa, e muta in tutto la sua natura, di regolato in dissoluto cangiandosi; come sarebbe, se alcun dicesse: Voi, ch’in rime sparse ascoltate il suono; e Per far una sua leggiadra vendetta; o veramente Che s’addita per cosa mirabile, e somiglianti. Ne’ quali mutamenti, rimanendo le voci e il numero delle sillabe intero, non rimane per tutto ciò né forma né odore alcuno di verso. E questo per niuna altra cagione adiviene, se non per lo essere un solo accento levato del suo luogo in essi versi, e ciò è della quarta o della sesta sillaba in quelli, e della decima in questo. Che, con ciò sia cosa che a formare il verso necessariamente si richiegga che nella quarta o nella sesta e nella decima sillaba siano sempre gli accenti, ogni volta che qualunque s’è l’una di queste due positure non gli ha, quello non è piú verso, comunque poi si stiano le altre sillabe. E questo detto sia non meno del verso rotto, che dello intero, in quanto egli capevole ne può essere. Sono adunque, messer Ercole, questi risguardi non solo a grazia, ma ancora a necessità del verso. A grazia potranno appresso essere tutti quegli altri, de’ quali s’è ragionato sopra le prose, dalle quali pigliandogli, quando vi fia mestiero, valere ve ne potrete. Ma passiamo oggimai a dire del tempo, che le lettere generano, ora lungo, ora brieve nelle sillabe; il che agevolmente si potrà fare -.