Prose della volgar lingua/Libro terzo/I

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Terzo libro – capitolo I

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Libro secondo - XXII Libro terzo - II

Questa città, la quale per le sue molte e riverende reliquie, infino a questo dí a noi dalla ingiuria delle nimiche nazioni e del tempo, non leggier nimico, lasciate, piú che per li sette colli, sopra i quali ancor siede, sé Roma essere subitamente dimostra a chi la mira, vede tutto il giorno a sé venire molti artefici di vicine e di lontane parti, i quali le belle antiche figure di marmo e talor di rame, che o sparse per tutta lei qua e là giacciono o sono publicamente e privatamente guardate e tenute care, e gli archi e le terme e i teatri e gli altri diversi edificii, che in alcuna loro parte sono in piè, con istudio cercando, nel picciolo spazio delle loro carte o cere la forma di quelli rapportano, e poscia, quando a fare essi alcuna nuova opera intendono, mirano in quegli essempi, e di rassomigliarli col loro artificio procacciando, tanto piú sé dovere essere della loro fatica lodati si credono, quanto essi piú alle antiche cose fanno per somiglianza ravicinare le loro nuove; perciò che sanno e veggono che quelle antiche piú alla perfezion dell’arte s’accostano, che le fatte da indi innanzi. Questo hanno fatto piú che altri, monsignore messer Giulio, i vostri Michele Agnolo fiorentino e Rafaello da Urbino, l’uno dipintore e scultore e architetto parimente, l’altro e dipintore e architetto altresí; e hannolo sí diligentemente fatto, che amendue sono ora cosí eccellenti e cosí chiari, che piú agevole è a dire quanto essi agli antichi buoni maestri sieno prossimani, che quale di loro sia dell’altro maggiore e miglior maestro. La quale usanza e studio, se, in queste arti molto minori posto, e come si vede giovevole e profittevole grandemente, quanto si dee dire che egli maggiormente porre si debba nello scrivere, che è opera cosí leggiadra e cosí gentile, che niuna arte può bella e chiara compiutamente essere senza essa. Con ciò sia cosa che e Mirone e Fidia e Apelle e Vitruvio, o pure il vostro Leon Battista Alberti, e tanti altri pellegrini artefici per adietro stati, ora dal mondo conosciuti non sarebbono, se gli altrui o ancora i loro inchiostri celebrati non gli avessero, di maniera che vie piú si leggessero, della loro creta o scarpello o pennello o archipenzolo le opere, che si vedessero. Quantunque non pur gli artefici, ma tutti gli altri uomini ancora di qualunque stato, essere lungo tempo chiari e illustri non possono altramente. Anzi eglino tanto piú chiari sono e illustri ciascuno, quanto piú uno, che altro, leggiadri scrittori ha de’ fatti e della virtú sua. Perché ragionevolmente Alessandro il Magno, quando alla sepoltura d’Achille pervenne, fortunato il chiamò, cosí alto e famoso lodatore avendo avuto delle sue prodezze; quasi dir volesse, che egli, se bene molto maggiori cose facesse, non andrebbe cosí lodato per la successione degli uomini, come già vedeva essere ito Achille, per lo non avere egli Omero che di sé scrivesse, come era avenuto d’avere allui. Il che se cosí è, che essere per certo si vede, facciamo ancor noi, i quali agli studi delle lettere donati ci siamo e in essi ci trastulliamo, quello stesso che far veggiamo agli artefici che io dissi, e per le imagini e forme, che gli antichi uomini ci hanno de’ loro animi e del lor valore lasciate, ciò sono le scritture, vie piú che tutte le altre opere bastevoli, diligentemente cercando, a saper noi bene e leggiadramente scrivere appariamo; non dico nella latina lingua, la quale è in maniera di libri ripiena che oggimai vi soprabondano, ma nella nostra volgare, la quale oltra che piú agevolezza allo scrivere ci presterà, eziandio ne ha piú bisogno. Con ciò sia cosa che quantunque dal suo cominciamento infino a questo giorno non pochi siano stati quelli che v’hanno scritto, pochi nondimeno si vede, che sono di loro e in verso e in prosa i buoni scrittori.