Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XIX

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Capitolo XIX
A Roma si lascia Mazzini per re Vittorio

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Capitolo XIX
A Roma si lascia Mazzini per re Vittorio
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XIX.

A ROMA SI LASCIA MAZZINI PER RE VITTORIO.


Salto al 1853.

Dopo i disgraziati fatti di Milano, dopo le spietate impiccagioni di Mantova per i tentativi e le congiure mazziniane, non pochi tra i Romani pensarono come essendovi il Regno Piemontese, nazionale liberale e forte in armi, fosse del tutto inutile, anzi assai dannoso alla causa dell’indipendenza dell’Italia, il continuare in una agitazione ed in una propaganda mazziniana. Questa con la sua dogmatica dottrina, con la sua intransigenza, con i suoi metodi di lotta costava molte vittime; ma, sopratutto, era di grandissimo ostacolo alla buona volontà di riscattare l’Italia dalla servitù con la libertà e con la disciplina nazionale. Si aggiunga come non pochi Romani, massime tra quelli che aveano combattuto alle mura nel ’49, ed io tra questi, eravamo rimasti tutt’altro che ardenti per Mazzini. Ci era parso che egli anteponesse le sue concezioni politiche alle necessità pratiche della lotta nazionale. Quello che non si può negare è questo: che la difesa di Roma, senza di quelle, avrebbe avuto ben altri risultati e maggiore sarebbe stata la coesione dei Romani.

Pochi amici ed io, avendo comuni questi pensieri e questi sentimenti, ci riunimmo nel mio studio di Via Margutta N. 33. Con me vi convennero: Luigi Silvestrelli, Venanzi, Luigi Mastricola. Non ricordo bene se quel giorno fosse con noi anche Augusto Lorenzini. Circa agli scopi punto fu necessario discutere. Subito fummo concordi nello stabilire: che tutti quanti i Romani liberali si dovevano fondere per aiutare Re Vittorio a liberare tutta l’Italia.

[p. 92 modifica]Passando ad esaminare quali mezzi fossero più acconci ad ottenere tale scopo, presto ci trovammo d’accordo, pure, nel riconoscere che l’uomo più capace e più accetto per ottenere la conversione dei Romani al nostro nuovo indirizzo politico e per ordinare un nuovo partito, per promuoverlo e per sostenerlo fosse l’amico Checchetelli.

Questi erasi da più tempo, onde sottrarsi ad ogni persecuzione, rifugiato ad oscuramente vivere a Ciciliano. I convenuti amici scelsero me per andar da lui a guadagnarlo ai nostri propositi ed a ottenere che ritornasse a dimora in Roma, per dare attuazione pratica a quelli.


Accettato l’incarico, io la sera stessa andai a Tivoli. Qui un dei nostri, tal Gigli, avrebbe dovuto fornirmi una guida ed un cavallo perchè io, nella notte, potessi raggiungere Checchetelli a Ciciliano. Non mi dettero guida. Forse non vollero darmela, perchè Checchetelli era molto sospetto e tenuto d’occhio anche nel suo rifugio di Ciciliano.

Guida gli amici Tivolesi non mi dettero. Mi ressero però la staffa mentre inforcavo un cavallo bianco che aveva la sua stalla a Ciciliano; il quale dal disio chiamato della biada e del riposo, benchè fosse assai oscura notte, mi portò direttamente e sano e salvo a Ciciliano.

La brava bestia usciva talvolta fuor della strada; ma era per accorciare il cammino. Pratica, senza esitare entrava risoluta nei boschi ed attraversava torrentelli. In tali casi io raccoglieva le redini, che gli avevo lasciato fiduciosamente sul collo, temendo che il cavallo ignorasse quanto fossero sicuri i guadi. Ma presto mi accorsi che questo era superfluo e che poteva essere anche pericoloso. Il cavallo, poi, scuotendo la testa mi faceva intendere di saperla più lunga di me. Solo aocchiava un poco, impressionato ed esitante, alla vista di certi alberi bruciati, che apparivano da un lato del nostro cammino come mostri gesticolanti.

Entrato verso giorno a Ciciliano mi trovai col naso contro la [p. 93 modifica]porta di una scuderia, salutato dal di dentro con un gaio nitrito; ciò che mi fece certo che l’onesto cavallo era giunto alla sua mèta.

Trovar la dimora di Checchetelli non mi fu difficile. Lo destai dicendo:

— Levati! Roma non è più!

— Perdio! mi rispose.

— Ossia — ripresi io — non ci son più Romani. Ci siamo tolti da Mazzini ed abbiamo fatto la fusione col Piemonte.

Rimase sbalordito.

lo gli spiegai, allora, come erano andate le cose. Ed egli:

— Io credo che abbiate rovinato ogni cosa. Ora vi saranno grandi scissure fra coloro che rimarranno con Mazzini e voi. Ci saran delatori e vittime in quantità.

Al che io ribattei:

— È troppo tempo che tu vivi isolato fra queste montagne. Nè puoi chiaramente vederè come si svolgano le cose laggiù. Dovresti fare in modo e maniera di venirtene a Roma, dove tutti ti vogliamo alla testa del partito ragionevole.

Checchetelli fece osservare che mancava di mezzi per poter vivere a Roma. Replicai:

— A questo penseremo noi.

Dopo di che me ne tornai a Roma.


Checchetelli molto non tardò a venire ad iniziare l’opera che da lui attendevamo. Alle sue necessità venne provveduto col procurargli un decoroso posto presso il duca Cesarini, retribuito con trenta scudi mensili, che allora non erano magro stipendio, per riordinargli la biblioteca.


Da quest’epoca fino al 1859 la mia vita fu quasi esclusivamente dedicata all’Arte. Pressochè nulla fu in quegli anni la mia attività politica.

Alla politica tornai, e molto attivamente, solo tra il 1864 ed il 1870, allorquando si trattò della liberazione di Roma e del Plebiscito di questa.