Rime varie (Alfieri, 1912)/XCI e XCII. Per la morte dell'amico Gori-Gandellini

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XCI e XCII. Per la morte dell'amico Gori-Gandellini

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XCI e XCII. Per la morte dell'amico Gori-Gandellini
XC. Gioisce e soffre nell'avvicinarsi alla sua donna XCIII. Nuova lontananza e nuovi dolori

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XCI e XCII.1

Per la morte dell’amico Gori-Gandellini.

Posto avea di mia vita assai gran parte
Nella soave tua schietta amistade;
E mi sei tolto in assai verde etade,
4 Mentr’io credei per pochi dí lasciarte!2
Dalla tua propria man vergate carte
Mi fean vivere in tutta securtade;
Quando, improvviso, come il fulmin cade,
8 Giunge la nuova che lo cor mi parte.
Chi pensato l’avrebbe? in dirti addio,
Era l’estremo! e rivederti io mai
11 Piú non doveva in questo mondo rio!
Ma, sugli occhi3 pur troppo ognor mi stai;
E vie piú caldo accendi in me il desío
14 Delle virtú, che in te solo trovai.


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Oh piú assai che Fenice amico raro,
Che amavi me, nulla da me volendo;
Che di vita tempravi a me l’amaro
4 Meco i miei studj e i pianti dividendo;4
Deh, sapess’io laudarti in stil sí chiaro,
Che dal sepolcro il tuo nome traendo,
Io nel mandassi riverito e caro
8 All’altre età, cui di piacer piú intendo!5
Ciò per te stesso far potuto avresti
Meglio assai ch’io, se avversi i tempi e il loco
11 Non t’eran, dove occulti dí vivesti.6
Ben d’ingiusta fortuna è crudo il giuoco;
Voler che il fango vile in luce resti,
14 E ignoto e muto il piú sublime fuoco.


Note

  1. Di questi sonetti il primo fu composto il 20, il secondo il 23 settembre a Martinsbourg: la morte del Gori ispirò anche altri sonetti all’A., ma in tempo un poco posteriore, onde si riferiranno al momento opportuno.
  2. 1-4. Nel dialogo La virtú sconosciuta, l’A. immagina di rivolgere all’apparsa ombra dell’amico le seg. parole: «Assai cose mi rimaneano a dirti, e ad udire da te, quando (ahi lasso me!) per poche settimane lasciarti credendomi, senza saperlo, io l’ultimo abbraccio ti dava». E nell’Autobiografia (IV, 14°): «.... mentre io baldo e pieno di gioia mi avviava verso la metà di me stesso, non sapeva io che nell’abbracciare quel caro e raro amico, che per sei settimane sole mi credea di lasciarlo, io lo lascerei per l’eternità». — In assai verde etade, il Gori aveva, quando morí, 41 anno.
  3. 12. Sugli occhi, dinanzi agli occhi. Nel cit. dial.: «Desolato io, ed orbo mi sono da quel giorno funesto: né altra scorta al ben vivere, ed alle poche e deboli opere del mio ingegno mi rimase, se non la calda memoria di tue possenti parole, e di quella tua tanta virtú, di cui nobile ed eccelsa prova al mondo lasciare ti avean tolto i nostri barbari tempi, l’umil tua patria, un certo tuo stesso forte ben giusto disdegno, ed in fine l’acerba, inaspettata tua morte».
  4. 4. Uomo amante del sapere in se stesso, il Gori non lasciò per altro opera alcuna alla quale fosse legato il suo nome, e lo dice l’A. nel cit. dial.: «Morto sei; né di te traccia alcuna in questo cieco mondo tu lasci, nol niego, per cui abbiano i presenti e futuri uomini a sapere con loro espresso vantaggio, che la rara tua luce nel mondo già fu. Ignoto ai contemporanei tuoi tu vivevi, perché degni non erano di conoscerti forse; e ad un reo silenzio mal mio grado ostinandoti, d’essere ai tuoi posteri ignoto sceglievi, perché forse la presaga tua mente, con vero e troppo dolore antivedea, che in nulla migliori delle presenti le future generazioni sarebbero». Fu veramente il Gori l’amico del cuore dell’A., e solo fra tutti, quando, nell’agosto del ’74, questi partí per raggiungere la Contessa a Colmar, seppe il vero scopo e la mèta del viaggio.
  5. 5-8. Ciò fece l’A. col dialogo La virtú sconosciuta, steso nel gennaio del 1786, — Il desiderio di vivere presso la posterità con fama piú rigogliosa che presso i contemporanei, è manifestato infinite volte nelle opere dell’A.: basti ricordare la chiusa del celebre sonetto Giorno verrà, tornerà giorno in cui.
  6. 9-11. Nel cit. dialogo il Gori stesso dice all’A., qual sia stata la ragione della sua inerzia, della sua ostinata contrarietà a volgere i proprii pensieri in iscritto: essa fu «che a ciò non m’essendo io destinato fin dalla prima età mia, le poche forze del mio ingegno tutte al pensare, e al dedurre rivolsi piú assai che allo scrivere; onde lo stile, quella possente magica arte delle parole, per cui sola vincitore e sovrano si fa essere il vero, lo stile mancavami affatto».