Rubin e il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione/Capitolo 1.1

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La critica di Böhm-Bawerk

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Eugen Böhm-Bawerk, nel 1896, formulò la prima rilevante critica alla teoria marxiana, dalla quale prese poi il via il dibattito sul problema della trasformazione che coinvolse, in modo differente e con finalità differenti, numerosi autori. La critica di Böhm-Bawerk, nel suo La conclusione del sistema marxiano (1971) è una critica distruttiva del marxismo in quanto mira a mostrarne le contraddizioni insanabili e la sua invalidità scientifica, nonché la sua certa fine (Böhm-Bawerk et al. 1971, 108-109). Egli vede nella teoria marxiana del valore-lavoro1 il pilastro fondamentale del sistema teorico di Marx e che, essendo secondo lui viziata da contraddizioni insolubili e dalla contrapposizione con la teoria del prezzo di produzione, fa crollare l'intero "castello"2. Come già preannunciato in precedenza, in questa sede di non formuleremo un giudizio di verità sui suoi assunti; è invece importante coglierne quei punti che, riteniamo, possano aver spinto Rubin a tentare di dare un contributo alla comprensione della teoria marxiana.

Böhm-Bawerk, come si può verificare facilmente dalle pagine de Il Capitale da lui citate come fonte nel suo primo capitolo Teoria del valore e del plusvalore}, assume come base esclusiva della sua critica alla teoria del valore il primo capitolo del libro I, escludendo chiaramente il paragrafo sul feticismo, mai menzionato. A queste, contrapporrà i capitoli 9 e 10 del libro III, contenenti la teoria del prezzo di produzione\index{Prezzo di produzione}, vedendo una contraddizione tra le due teorie e l'abbandono implicito da parte di Marx della teoria del valore-lavoro in favore di quella del prezzo di produzione.

L'interpretazione che Böhm-Bawerk da alla teoria del valore di Marx è riassumibile affermando che essa non sarebbe altro che una teoria dei prezzi relativi, non dissimile dai tentativi dei classici, pur con le "conseguenze straordinariamente interessanti e di vasta portata, [...] alla più importante innovazione del terzo volume" (ivi, 15) dell'opera di Marx. A pagina 59 (Marx 1964) trova il concetto di valore e lo fa suo: siccome nello scambio si astrae dalle proprietà fisiche delle merci (ovviamente incommensurabili tra loro) generatrici del valore d'uso delle stesse, non rimane altro che il lavoro che le ha prodotte, lavoro umano generale cristallizzato nelle merci in una sorta di riduzioni successive. Böhm-Bawerk, pur sostenendo con Marx che il valore così definito non coincide con il valore di scambio (espressione fenomenica del valore, rapporto proporzionale di scambio, prezzo) ma ne è tuttavia "inseparabile" (Böhm-Bawerk 1971, 9) e derivato, non va oltre e passa direttamente al concetto di grandezza di valore, che è quello che gli interessa di più in quanto presunta fonte dei prezzi relativi delle merci. Nella sua critica Böhm-Bawerk non cita in nessun modo la teoria del feticismo della merce e riteniamo perciò di essere autorizzati dal silenzio dell'autore a pensare che ne ignorasse il legame con la teoria del valore o che non la ritenesse significativa. Di particolare evidenza è il contrasto con la concezione di Rubin che vede invece la teoria del feticismo come la spiegazione del concetto stesso di valore-lavoro, il mattone indispensabile della teoria marxiana che spiega la natura sociale del valore e il perché il lavoro è la sostanza del valore (Rubin 1976, 91).

L'analisi di Böhm-Bawerk è, a parere nostro, completamente differente da quella di Rubin proprio perché risulta mancare dell'approccio dialettico - quindi dinamico - allo studio di tali problemi. Secondo noi la critica di Böhm-Bawerk assomiglia molto di più al tentativo tipicamente matematico di dimostrazione per assurdo di un teorema, individuando e sviluppando le contraddizioni in forza del principio di non contraddizione tipico di un'analisi statico-descrittiva3: di conseguenza, com'è ovvio, o i prezzi delle merci sono determinati dal valore-lavoro, oppure lo sono dal prezzo di produzione, e in tal caso una delle due è falsa (Böhm-Bawerk et al. 1971, 25)4 Siccome la teoria marxiana è composta da entrambe le teorie, secondo questo ragionamento essa cade in una contraddizione.

Seguendo Böhm-Bawerk, il lavoro creerebbe il valore, e diverse quantità di lavoro generano diverse quantità di valore. Il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro "socialmente necessario" (cioè medio, almeno in un dato settore produttivo). Conclude così che la conclusione non può essere altra che "le merci si scambiano tra loro in proporzione del lavoro medio socialmente necessario in esse incorporato" (ivi, 10) o, detta in altri termini, si "scambiano ai loro valori". Pur egli ammettendo che gli effettivi prezzi di mercato possono divergere dai prezzi espressione dei valori, comunque in media e nel lungo periodo essi tendono a eguagliare i valori; almeno tendenzialmente dunque i valori sono il centro di gravità dei prezzi relativi delle merci.

Questo, per Böhm-Bawerk, è quello che sostiene Marx nel I libro: la sua teoria del valore-lavoro sarebbe, a ben guardare, non molto dissimile dai suoi predecessori classici (in particolare Ricardo) che tentavano di spiegare i prezzi delle merci. E, analogamente alla loro teoria del valore-lavoro, sarebbe destinata a schiantarsi contro la realtà del capitalismo descritta nel III libro (ivi, 26)5: diverse composizioni organiche ma uguali profitti per capitali di grandezza uguale; divergenza persistente tra valore e natural price, ecc.

Böhm-Bawerk argomenta in quattro punti principali le sue obiezioni al passaggio che Marx compie per collegare la teoria del valore a quella del prezzo di produzione, ritenendolo però errato e vedendo con ciò la conclusione del suo sistema, l'abbandono da parte sua della teoria del valore del I libro (ivi, 27). Quello che a noi interessa qui è notare che Rubin non rimprovera tanto ai marginalisti di essersi sbagliati nella logica interna della loro critica; il fatto è che, per lui, senza la teoria del feticismo e le necessarie premesse sociologiche, l'economia politica non sarebbe in grado di spiegare i meccanismi fondamentali della società (Rubin 1976, 68). Sarebbe dunque proprio il loro presupposto di partenza a essere sbagliato (ivi, 6) e, pensiamo noi, è proprio questa convinzione di tale mancanza ad aver spinto Rubin in maniera decisiva a dare così tanta importanza proprio ai presupposti dell'analisi economica: la teoria del feticismo della merce, sulla quale è costruita l'intera sua interpretazione della teoria del valore.

Note

  1. D'ora in avanti, se non diversamente specificato, semplicemente "teoria del valore".
  2. Come immediatamente e palesemente si evince gi dal titolo del capitolo quarto: "L'errore nel sistema marxiano, la sua origine e le sue ramificazioni" (Böhm-Bawerk 1971, 59). Finalità di "correzione" (quindi non distruttive) si possono rintracciare nei contributi di Bortkiewicz (Böhm-Bawerk et al. 1971, 179), come già indica il titolo: "Per una rettifica dei fondamenti della costruzione teorica di Marx nel III volume del Capitale" . Tuttavia la concezione fondamentale che l'autore, secondo noi, mostra di avere della teoria del valore marxiana è la stessa di Böhm-Bawerk: anche se per Bortkiewicz "l'errore" starebbe nel fatto che "non è valido il procedimento con cui Marx calcola il saggio medio di profitto" (Böhm-Bawerk et al. 1971, 179), rimane ferma l'esclusione della teoria del feticismo.
  3. La quale, soprattutto se applicata allo studio dei fenomeni sociali, è per il filosofo Georges Politzer (1936) metodo metafisico, in contrapposizione al metodo dialettico .
  4. In realtà il concetto non è presente solo nella citazione di pagina 25; tale metodo e giudizio senza riserve permea chiaramente e indiscutibilmente ogni singola pagina di La conclusione del sistema marxiano. Per esempio, già due pagine dopo si dice che "questa [contraddizione tra le due teorie] è un impressione che chiunque ragioni secondo la logica non può non ricavare." (ivi, 27, corsivo nostro).
  5. Posizione condivisa anche da Landreth e Colander (1994, 321).