Satire (Ariosto 1857)/Satira V

Da Wikisource.
Satira V

../Satira IV ../Satira VI IncludiIntestazione 23 aprile 2024 100%

Satira IV Satira VI
[p. 189 modifica]

SATIRA QUINTA.




A MESSER SISMONDO MALEGUCCIO.1


     Il vigesimo giorno di febbrajo
Chiude oggi l’anno, che da questi monti,
3Che dànno a’ Toschi il vento di rovajo,
     Qui scesi,2 dove da diversi fonti
Con eterno rumor confondon l’acque
6La Turrita col Serchio fra duo ponti;
     Per custodir, come al signor mio piacque,
Il gregge Garfagnin, che a lui ricorso
9Ebbe, tosto che a Roma il Leon giacque;
     Che spaventato e messo in fuga e morso
Gli l’avea dianzi, e l’avria mal condotto,
12Se non venía dal ciel giusto soccorso.
     E questo in tanto tempo è il primo motto
Ch’io fo alle Dee che guardano la pianta
15Delle cui frondi io fui già così ghiotto.
     La novità del loco è stata tanta,
C’ho fatto come augel che muta gabbia,
18Che molti giorni resta che non canta.
     Maleguzzo cugin, che taciuto abbia
Non ti meravigliar; ma meraviglia
21Abbi che morto io non sia ormai di rabbia,
     Vedendomi lontan cento e più miglia,
E da neve, alpe, selve e fiumi escluso
24Da chi tien del mio cor sola la briglia.3
     Con altre cause e più degne mi escuso
Con gli altri amici (a dirti il ver); ma teco

[p. 190 modifica]

27Liberamente il mio peccato accuso.
     Altri a chi lo dicessi, un occhio bieco
Mi volgerebbe addosso, e un muso stretto: —
30Guata poco cervel! — poi diría seco:
     — Degno uom da chi esser debbia un popol retto!
Uom che poco lontan da cinquant’anni,
33Vaneggi nei pensier di giovinetto. —
     E’ direbbe il vangel di san Giovanni;4
Chè se ben erro, pur non son sì losco,
36Che ’l mio error non conosca e ch’io nol danni.
     Ma che giova s’io ’l danno e s’io ’l conosco,
Se non ci posso riparar, nè truovi
39Rimedio alcun che spenga questo tôsco?
     Tu forte e saggio, che a tua posta muovi
Questi affetti da te, che in noi nascendo,
42Natura affigge con sì saldi chiovi!
     Fisse in me questo, e forse non sì orrendo,
Come in alcun c’ha di me tanta cura,
45Che non può tollerar ch’io non mi emendo;
     E fa come io so alcun che dice e giura
Che quello e questo è becco, e quanto lungo
48Sia il cimier del suo capo non misura.
     Io non uccido, io non percuoto o pungo,
Io non do noja altrui; se ben mi dolgo
51Che da chi meco è sempre, io mi dilungo:
     Perciò non dico nè a difender tolgo
Che non sia fallo il mio; ma non sì grave,
54Che di via più non ne perdoni il volgo.
     Con manco ranno il volgo, non che lave
Maggior macchia di questa, ma sovente
57Titolo al vizio di virtù dato have.
     Ermilïan5 sì del denajo ardente
Come di Alessio il Gianfa, e che lo brama
60Ogn’ora, in ogni loco, da ogni gente,
     Nè amico nè fratel nè sè stesso ama;
Uomo d’industria, uomo di grande ingegno,
63Di gran governo e gran valor si chiama.
     Gonfia Rinieri, ed ha il suo grado a sdegno;

[p. 191 modifica]

Esser gli par quel che non è; e più innanzi
66Che in tre salti ir non può, si mette il segno.
     Non vuol che in ben vestire altro lo avanzi;
Spenditor, scalco, falconiero, cuoco,
69Vuol chi lo scalzi, chi gli tagli innanzi.
     Oggi uno e diman vende un altro loco;
Quel che in molt’anni acquistâr gli avi e i patri,
72Getta a man piene, e non a poco a poco.
     Costui non è chi morda o chi gli latri;
Ma liberal, magnanimo si noma
75Fra li volgar giudici oscuri ed atri.
     Solonnio6 di faccende sì gran soma
Tolle a portar, che ne saría già morto
78Il più forte somier che vada a Roma.
     Tu ’l vedi in Banchi, alla dogana, al porto,
In Camera apostolica, in Castello,
81Da un ponte all’altro a un volger d’occhi sórto.7
     Si stilla notte e dì sempre il cervello,
Come al papa ognor dia freschi guadagni,
84Con novi dazî e multe e con balzello.
     Gode fargli saper che se ne lagni
E dica ognun che all’util del padrone
87Non riguardi parenti nè compagni.
     Il popol l’odia, ed ha d’odiar ragione,
Se d’ogni mal che la città flagella,
90Gli è ver ch’egli sia il capo e la cagione.
     E pur grande e magnifico s’appella,
Nè senza prima discoprirsi il capo
93Il nobile o ’l plebeo mai gli favella.
     Laurin8 si fa della sua patria capo,
Ed in privato il pubblico converte;
96Tre ne confina, a sei ne taglia il capo.
     Comincia volpe, indi con forze aperte
Esce leon, poi c’ha ’l popol sedutto
99Con licenze, con doni e con offerte.
     Gl’iniqui alzando, e deprimendo in lutto
Gli buoni, acquista titolo di saggio,

[p. 192 modifica]

102Di furti, stupri e d’omicidî brutto.
     Così dà onore a chi dovrebbe oltraggio,
Nè sa da colpa a colpa scerner l’orbo
105Giudicio, a cui non mostra il Sol mai raggio;
     E stima il corbo cigno e il cigno corbo:
Se sentisse ch’io amassi, faría un viso
108Come mordesse allora allora un sorbo.
     Dica ognun come vuole, e siagli avviso
Quel che gli pare: in somma, ti confesso
111Che qui perduto ho il canto, il giôco, il riso.
     Questa è la prima; ma molt’altre appresso,
E molt’altre ragion posso allegarte,
114Che dalle Dee m’han tolto di Permesso.
     Già mi fur dolci inviti a empir le carte
Li luoghi ameni di che il nostro Reggio,
117Il natío nido mio,9 n’ha la sua parte:
     Il tuo Maurizïan10 sempre vagheggio,
La bella stanza, il Rodano11 vicino,
120Dalle Najade amato ombroso seggio:
     Il lucido vivajo onde il giardino
Si cinge intorno, il fresco rio che corre,
123Rigando l’erbe, ove poi fa il molino.
     Non mi si pôn della memoria tôrre
Le vigne e i solchi del fecondo Iaco,12
126La valle e il colle e la ben posta torre.
     Cercando or questo ed or quel loco opaco,
Quivi in più d’una lingua, e in più d’un stile
129Rivi traea sin dal Gorgoneo laco.
     Erano allora gli anni miei fra aprile
E maggio belli, ch’or l’ottobre dietro
132Si lasciano, e non pur luglio e sestile.
     Ma nè d’Ascra potrían nè di Libetro
Le amene valli, senza il cor sereno,
135Far da me uscir gioconda rima metro.

[p. 193 modifica]

     Dove altro albergo era di questo meno
Convenïente ai sacri studî, vuoto
138D’ogni giocondità, d’ogni orror pieno?
     La nuda Pania13 tra l’aurora e il noto,
Dall’altre parti il giogo mi circonda
141Che fe d’un Pellegrin la gloria noto:
     Quest’è una fossa ove abito, profonda;
D’onde non muovo piè senza salire
144Del selvoso Apennin la fiera sponda.
     O siami in rôcca, o voglia all’aria uscire,
Accuse e liti sempre e gridi ascolto,
147Furti, omicidî, odî, vendette ed ire:
     Sì che or con chiaro or con turbato volto,
Convien che alcuno prieghi, alcun minacci,
150Altri condanni, altri ne mandi assolto;
     Ch’ogni dì scriva ed empia fogli, e spacci
Al duca, or per consiglio or per ajuto,
153Sì che i ladron, c’ho d’ogn’intorno, scacci.
     Dêi saper la licenza in ch’è venuto
Questo paese, poi che la Pantera,14
156Indi il Leon l’ha fra gli artigli avuto.
     Qui vanno gli assassini in sì gran schiera,
Ch’un’altra che per prenderli ci è posta,
159Non osa trar del sacco la bandiera.
     Saggio chi dal castel poco si scosta!
Ben scrivo a chi più tocca, ma non torna,
162Secondo ch’io vorrei, mai la risposta.15
     Ogni terra in sè stessa alza le corna,
Che sono ottantatrè, tutte partite
165Dalla sedizïon che ci soggiorna.
     Vedi or se Apollo, quando io ce lo invite,
Vorrà venir, lasciando Delfo e Cinto,
168In queste grotte a sentir sempre lite!

[p. 194 modifica]

     Dimandar mi potresti chi m’ha spinto,
Dai dolci studî e compagnía sì cara,
171In questo rincrescevol labirinto.
     Tu dêi saper che la mia voglia avara
Unqua non fu; ch’io solea star contento
174Dello stipendio che traea a Ferrara.
     Ma non sai forse come uscì poi lento
Succedendo la guerra; e come volse
177Il duca che restasse in tutto spento.16
     Fin che quella durò, non me ne dolse;
Mi dolse di veder che poi la mano
180Chiusa restò, che ogni timor si sciolse.
     Tanto più che l’ufficio di Melano,17
Poi che le leggi ivi tacean fra l’armi,
183Bramar gli affitti suoi mi facea in vano.
     Ricorsi al duca: — O voi, signor, levarmi
Dovete di bisogno, o non v’incresca
186Ch’io vada altra pastura a procacciarmi. —
     Grafagnini in quel tempo, essendo fresca
La lor rivoluzion18 che spinto fuori
189Avea Marzocco19 a procacciar d’altr’esca,
     Con lettere frequenti e ambasciatori
Replicavano al duca, e facean fretta
192D’aver lor capi e lor usati onori.
     Fu di me fatta una improvvisa eletta,
O forse perchè il termine era breve
195Di consigliar chi pel miglior si metta;
     O pur fu appresso il mio signor più leve

[p. 195 modifica]

Il bisogno de’ sudditi che il mio:
198Di che obbligo gli ho quanto se gli deve.
     Obbligo gli ho del buon voler, più ch’io
Mi contenti del dono; il quale è grande,
201Ma non molto conforme al mio desio.
     Or se di me a questi uomini dimande,
Potrían dir che bisogno era di asprezza,
204Non di clemenza all’opre lor nefande.
     Come nè in me, così nè contentezza
È forse in lor: io per me son quel gallo
207Che la gemma ha trovata e non l’apprezza.
     Son come il Veneziano, a cui il cavallo
Di Mauritania, in eccellenza buono,
210Donato fu dal re di Portogallo;
     Il qual, per aggradir il real dono,
Non discernendo che mistier diversi
213Volger timoni e regger briglie sono,
     Sopra vi salse, e cominciò a tenersi
Con mani al legno e co’ sproni alla pancia:
216— Non vuò (seco dicea) che tu mi versi. —
     Sente il cavallo pungersi e si lancia,
E ’l buon nocchier più allora preme e stringe
219Lo sprone al fianco, aguzzo più che lancia;
     E di sangue la bocca e ’l fren gli tinge:
Non sa il cavallo a chi ubbidir, o a questo
222Che ’l torna addietro, o a quel che l’urta e spinge;
     Pur se ne sbriga in pochi salti presto:
Rimane in terra il cavalier, col fianco,
225Con la spalla e col capo rotto e pesto.
     Tutto di polve e di paura bianco
Si levò al fin, del re mal satisfatto,
228E lungamente poi se ne dolse anco.
     Meglio avrebbe egli, ed io meglio avrei fatto,
Egli ’l ben del cavallo, io del paese,
231A dire: — O re, o signor, non ci son atto;
     Sie pur a un altro di tal don cortese. — 20




Note

  1. Fratello di Annibale, cui sono dirette le due precedenti Satire.
  2. Cioè in Castelnuovo, terra principale della Garfagnana. Vi passa il fiume Serchio, nel quale non lungi di là imbocca la Turrita. Poco dopo la morte di Leone X, la Garfagnana, sottraendosi all’occupazione delle armi pontificie, si restituì al suo antico signore, il duca di Ferrara, che vi mandò l’Ariosto governatore. — (Molini.)
  3. Cioè, come tutti credono, la vedova Strozzi.
  4. Direbbe verissimo.
  5. In questa e nelle seguenti terzine morde l’Autore, sotto vari nomi, o finti o veri, diversi uomini viziosi del suo tempo, e sotto quello di Gianfa alcuno che avesse la pecca di Coridone. — (Molini.)
  6. Pare ingegnosamente composto da solus omnia; fa tutto.
  7. Giunto (e per similitudine), Approdato.
  8. Il nome supposto dà sospetto di allusione ai due Lorenzi di casa Medici; e il ritratto che segue, anzichè al junore, sembra adattarsi al più antico.
  9. Lodovico era nato in Reggio nel settembre del 1474, e vi aveva composte alcune delle sue poesie latine.
  10. La villeggiatura Maleguzzi detta il Mauriziano, la quale anche oggidì ne’ suoi avanzi addita al passeggiero la sua passata bellezza. — (Baruffaldi.)
  11. Fiumicello fra Reggio e Modena, vicino alla chiesa di San Maurizio. — (Molini.)
  12. Uno de’ soprannomi di Bacco. Virg. Buc., Egl. VI, v. 15: Inflatum hesterno venas, ut semper, Iaccho. Da ίακὴ, clamor.
  13. Monte altissimo negli Appennini. Il monte di San Pellegrino è altra gran montagna ove si conservano le ossa del pio eremita, da cui ha il nome. — (Molini.)
  14. Insegna della repubblica di Lucca. Così, nei Decennali, il Machiavelli: «Ed al vostro Leon trasser de’ velli La Lupa con San Giorgio e la Pantera.»
  15. Avvertì il Baruffaldi, come da alcune lettere di Lodovico, esistenti nell’Archivio Estense, e già vedute dal Tiraboschi, si raccolga «che la corte non gli porse (allora) tutto quel braccio che all’uopo era per lui richiesto.» Vita ec., pag. 189.
  16. Può vedersi, tra le Lettere che per noi si raccolsero, la VII; nella quale contuttociò non sembra alludersi allo stipendio che allora rimase sospeso, e che l’autore qui confessa di aver già direttamente ricevuto dalla corte. Varie poi furono le guerre che il duca Alfonso ebbe a patire, in ispecie da parte dei pontefici, che desideravano di togliergli quello stato; ma le cose qui dette debbono riferirsi alla inimicizia dichiaratagli da Leone X dopo che, essendosi questi discostato dai Francesi, il duca, fermo nella loro alleanza, si fu recato per ajutarli in Lombardia, liberandoli dall’assedio di cui erano stretti in Parma: onde Leone «pubblicò contro di lui un monitorio, con privazione e censure», secondochè leggiamo in una Vita inedita di esso Alfonso, di cui torneremo a dire nella nota prima alla Satira VI.
  17. Vedi il v. 109 e seg. della Satira II.
  18. Ecco un esempio di più di rivoluzione, per indicare le mutazioni politiche.
  19. Marzocco sta per la repubblica di Firenze; e questo dice perchè al tempo di Leone X era stato posto nella Garfagnana un presidio fiorentino.
  20. Questa Satira nell’autografo porta la sottoscrizione seguente: Ex Castro Novo Carfignanæ. — (Molini.)