Satire (Ariosto 1857)/Satira IV

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Satira IV

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Satira III Satira V
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SATIRA QUARTA.




AL MEDESIMO.


     Poi che, Annibale, intendere vuoi come
La fo col duca Alfonso,1 e s’io mi sento
3Più grave, o men, delle mutate some;

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     Perchè, s’anco di questo mi lamento,
Tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto,
6O ch’io son di natura un rozzon lento:
     Senza molto pensar, dirò di botto,
Che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
9E fôra meglio a nessun esser sotto.
     Dimmi or, c’ho rotto il dôsso, e, se ’l ti piace,
Dimmi ch’io sia una rôzza, e dimmi peggio;
12In somma, esser non so se non verace.
     Che s’al mio genitor, tosto ch’a Reggio
Daria mi partorì, facevo il giuoco
15Che fe Saturno al suo nell’alto seggio;2
     Sì che di me sol fosse questo poco,
Nello qual dieci, tra frati e sirocchie,3
18È bisognato che tutti abbian loco;
     La pazzía non avrei delle ranocchie
Fatta già mai, d’ir procacciando a cui
21Scoprirmi il capo e piegar le ginocchie.
     Ma poi che figliuolo unico non fui,
Nè mai fu troppo a’ miei Mercurio amico,
24E viver son sforzato a spese altrui;
     Meglio è, s’appresso il Duca mi nutrico,
Che andare a questo e a quel dell’umil volgo
27Accattandomi il pan come mendico.
     So ben che dal parer dei più mi tolgo,
Che ’l stare in corte stimano grandezza;
30Ch’io pel contrario a servitù rivolgo.
     Stíaci volentier, dunque, chi l’apprezza:
Fuor n’uscirò ben io, se un dì il figliuolo
33Di Maja vorrà usarmi gentilezza.
     Non si adatta una sella un basto solo
Ad ogni dosso: ad un non par che l’abbia,
36All’altro stringe e preme e gli dà duolo.
     Mal può durare il rosignuolo in gabbia;
Più vi sta il cardellino e più il fanello;
39La rondine in un dì vi muor di rabbia.
     Chi brama onor di sprone o di cappello,
Serva re, duca, cardinale o papa:
42Io no, che poco curo questo e quello.

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     In casa mia mi sa meglio una rapa
Ch’io cuoca, e cotta su ’n stecco m’inforco,
45E mondo, e spargo poi di aceto e sapa,
     Che all’altrui mensa tordo, starna o porco
Selvaggio; e così sotto una vil coltre,
48Come di seta o d’oro ben mi corco.
     E più mi piace di posar le poltre
Membra,che di vantarle che agli Sciti
51Sien state, agl’Indi, agli Etïopi, ed oltre.
     Degli uomini son varî gli appetiti:
A chi piace la chierca, a chi la spada,
54A chi la patria, a chi li strani liti.
     Chi vuole andare a torno, a torno vada;
Vegga Inghilterra, Onghería, Francia e Spagna:
57A me piace abitar la mia contrada.
     Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,
Quel monte che divide e quel che serra
60Italia, e un mare e l’altro che la bagna.4
     Questo mi basta: il resto della terra,
Senza mai pagar l’oste, andrò cercando
63Con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra;
     E tutto il mar, senza far voti quando
Lampeggi il ciel, sicuro in sulle carte
66Verrò, più che sui legni, volteggiando.
     Il servigio del duca, da ogni parte
Che ci sia buona, più mi piace in questa,
69Che dal nido natío raro si parte.
     Per questo i studî miei poco molesta,
Nè mi toglie onde mai tutto partire
72Non posso, perchè il cor sempre ci resta.5
     Parmi vederti qui ridere, e dire
Che non amor di patria nè di studî,
75Ma di donna, è cagion che non vogl’ire.
     Liberamente tel confesso: or chiudi
La bocca,6 chè a difender la bugia

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78Non volli prender mai spada nè scudi.
     Del mio star qui qual la cagion si sia,
Io ci sto volentier: ora nessuno
81Abbia a cor più di me la cura mia.
     S’io fossi andato a Roma, dirà alcuno,
A farmi uccellator de’ benefici,
84Preso alla rete n’avrei già più d’uno:
     Tanto più ch’ero degli antiqui amici
Del papa,7 innanzi che virtude sorte
87Lo sublimasse al sommo degli uffici:
     E prima che gli aprissero le porte
I Fiorentini, quando il suo Giuliano
90Si riparò nella Feltresca corte;
     Ove col formator del Cortigiano,
Col Bembo e gli altri sacri al divo Apollo,
93Facea l’esilio suo men duro e strano:
     E dopo ancor quando levaro il collo
Medici nella patria, e il gonfalone,
96Fuggendo del palazzo, ebbe il gran crollo;8
     E fin che a Roma s’andò a far Leone,
Io gli fui grato sempre, e in apparenza
99Mostrò amar più di me poche persone.
     E più volte Legato, ed in Fiorenza
Mi disse, che al bisogno mai non era
102Per far da me al fratel suo differenza.
     Per questo parrà altrui cosa leggiera,
Che stando io a Roma, già m’avesse posta
105La cresta dentro verde e di fuor nera.9
     A chi parrà così, farò risposta
Con uno esempio: leggilo, chè meno

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108Leggerlo a te, che a me scriverlo, costa.
     Una stagion fu già che sì il terreno
Arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte
111De’ suoi corsier parea aver dato il freno:
     Secco ogni pozzo, secca era ogni fonte,
Li rivi e i stagni e i fiumi più famosi
114Tutti passar si potean senza ponte.
     In quel tempo, d’armenti e di lanosi
Greggi, io non so s’i’ dica, ricco o grave
117Era un pastor fra gli altri bisognosi;
     Che poi che l’acqua per tutte le cave
Cercò indarno, si volse a quel Signore
120Che mai non suol fraudar chi in lui fede have;
     Ed ebbe lume e ispirazion di côre,
Ch’indi lontano trovería, nel fondo
123Di certa valle, il desïato umore.
     Con moglie e figli, e con ciò ch’avea al mondo,
Là si condusse, e con gli ordigni suoi
126L’acqua trovò, nè molto andò profondo;
     E non avendo con che attinger poi,
Se non un vase picciolo ed angusto,
129Disse: — Che mio sia ’l primo non v’annoi.
     Di mógliema il secondo, e ’l terzo è giusto
Che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi
132L’ardente sete, onde è ciascuno adusto:
     Li altri vuò ad un ad un che sien concessi,
Secondo le fatiche, alli famigli
135Che meco in opra a fare il pozzo messi.
     Poi su ciascuna bestia si consigli,
Che di quelle che a perderle è più danno,
138Innanzi all’altre la cura si pigli. —
     Con questa legge un dopo l’altro vanno
A bere; e per non essere i sezzai,
141Tutti più grandi i lor meriti fanno.
     Questo una gaza,10 che già amata assai
Fu dal padrone ed in delizie avuta.
144Vedendo ed ascoltando, gridò: — Guai!
     Io non gli son parente, nè venuta

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A fare il pozzo; nè di più guadagno
147Gli son per esser mai, ch’io gli sia suta:
     Veggio che dietro agli altri mi rimagno;
Morrò di sete, quando non procacci
150Di trovar per mio scampo altro rigagno. —
     Cugin, con questo esempio vuò che spacci
Quei che credon che ’l papa porre innanti
153Mi debba a Neri, a Vanni, a Lotti e a Bacci.11
     Li nipoti e i parenti, che son tanti,
Prima hanno a ber; poi quei che lo ajutaro
156A vestirsi il più bel di tutti i manti.
     Bevuto ch’abbian questi, gli fia caro
Che beano quei che contra il Soderino,
159Per tornarlo in Firenze, si levaro.
     L’un dice: — Io fui con Pietro in Casentino,
E d’esser preso e morto a risco venni: —
162— Io gli prestai danar, — grida Brandino.
     Dice un altro: — A mie spese il frate12 tenni
Uno anno, e lo rimessi in veste e in arme;
165Di cavallo e d’argento gli sovvenni. —
     Se fin che tutti béano, aspetto a trarme
La volontà di bere, o me di sete
168O secco il pozzo d’acqua veder parme.
     Meglio è star nella solita quïete,
Che provar s’egli è ver che qualunque erge
171Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.
     Ma sia ver, se ben gli altri vi sommerge,
Che costui13 sol non accostasse al rivo
174Che del passato ogni memoria asterge:
     Testimonio son io di quel ch’io scrivo;
Ch’io non l’ho ritrovato, quando il piede
177Gli baciai prima, di memoria privo.
     Piegòssi a me dalla beata sede;
La mano e poi le gote ambe mi prese,
180E il santo bacio in amendue mi diede.
     Di mezza quella bolla anco cortese

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Mi fu,14 della quale ora il mio Bibiena15
183Espedito m’ha il resto alle mie spese.
     Indi, col seno e con la falda piena
Di speme, ma di pioggia molle e brutto,
186La notte andai sin al Montone a cena.
     Or sia vero che ’l papa attenga tutto
Ciò che già offerse, e voglia di quel seme,
189Che già tanti anni sparsi, or darmi il frutto;
     Sia ver che tante mitre e dïademe
Mi doni, quante Jona di cappella
192Alla messa papal non vede insieme:16
     Sia ver che d’oro m’empia la scarsella,
E le maniche e il grembo, e, se non basta,
195M’empia la gola, il ventre e le budella:
     Sarà per questo piena quella vasta
Ingordigia d’aver? rimarrà sazia
198Perciò la sitibonda mia cerasta?
     Dal Marocco al Catai, dal Nilo in Dazia,
Non che a Roma, anderò, se di potervi
201Saziare i desiderî impetro grazia:
     Ma quando cardinale, o delli servi
Io sia il gran servo, e non ritrovino anco
204Termine i desiderî miei protervi;
     In ch’util mi risulta essermi stanco
In salir tanti gradi? meglio fôra
207Starmi in riposo, affaticarmi manco.

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     Nel tempo ch’era nuovo il mondo ancora,
E che inesperta era la gente prima,
210E non eran l’astuzie che sono ora;
     A piè d’un alto monte, la cui cima
Parea toccasse il cielo, un popol, quale
213Non so mostrar, vivea nella valle ima;
     Che più volte osservando la ineguale
Luna, or con corna or senza, or piena or scema,
216Girar il cielo al corso naturale;
     E credendo poter dalla suprema
Parte del monte giungervi, e vederla
219Come si accresca e come in sè si prema;
     Chi con canestro, e chi con sacco per la
Montagna, cominciâr correre in su,
222Ingordi tutti a gara di volerla.17
     Vedendo poi non esser giunti più
Vicini a lei, cadeano a terra lassi,
225Bramando in van d’esser rimasi giù.
     Quei ch’alti li vedean dai poggi bassi,
Credendo che toccassero la luna,
228Dietro venían con frettolosi passi.
     Questo monte è la ruota di Fortuna,
Nella cui cima il volgo ignaro pensa
231Ch’ogni quïete sia, nè ve n’è alcuna.
     Se nell’onor si trova nella immensa
Ricchezza il contentarsi, i’ loderei
234Non aver, se non qui, la voglia intensa:
     Ma se vediamo i papi e i re, che Dei
Stimiamo in terra, star sempre in travaglio,
237Che sia contento in lor dir non potrei.
     Se di ricchezze al Turco e s’io me agguaglio
Di dignitade al papa, ed ancor brami
240Salir più in alto, mal me ne prevaglio.18
     Convenevole è ben ch’i’ ordisca e trami
Di non patire alla vita disagio,
243Che, più di quanto ho al mondo, è ragion ch’ami.

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     Ma se l’uomo è sì ricco, che sta ad agio
Di quel che la natura contentarse
246Dovría, se fren pone al desir malvagio;
     Che non digiuni quando vorría trarse
L’ingorda fame, ed abbia fuoco e tetto,
249Se dal freddo dal sol vuol ripararse;
     Nè gli convenga andare a piè, se astretto
È di mutar paese; ed abbia in casa
252Chi la mensa apparecchi e acconci il letto;
     Che mi può dare o mezza o tutta rasa
La testa, più di questo? Ci è misura19
255Di quanto pôn capir tutte le vasa.
     Convenevole è ancor che s’abbia cura
Dell’onor suo; ma tal, che non divenga
258Ambizïone, e passi ogni misura.
     Il vero onore è ch’uom da ben ti tenga
Ciascuno, e che tu sia; che non essendo,
261Forza è che la bugía tosto si spenga.
     Che cavallero o conte o reverendo
Il popolo te chiami, io non t’onoro
264Se meglio in te, che il titol, non comprendo.
     Che gloria ti è vestir di seta e d’oro,
E quando in piazza appari nella chiesa,
267Ti si levi il cappuccio il popol soro;
     Poi dica dietro: — Ecco chi diede presa
Per danari a’ Francesi Porta Giove20
270Che il suo signor gli avea data in difesa? —
     Quante collane, quante cappe nove
Per dignità si comprano, che sono
273Pubblici vituperi in Roma e altrove!
     Vestir di romagnuolo ed esser buono,
Al vestir d’oro ed aver nota o macchia21

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276Di barro e traditor, sempre prepono.
     Diverso al mio parere il Bomba gracchia,
E dice: — Abb’io pur roba, e sia l’acquisto
279O venuto per dado o per la macchia.22
     Sempre ricchezza riverire ho visto
Più che virtù. Poco il mal dir mi nuoce:
282Si rinniega anco e si bestemmia Cristo. —
     — Pian piano, Bomba, non alzar la voce:
Bestemmian Cristo gli uomini ribaldi,
285Peggior di quei che lo chiavaro in croce;
     Ma li onesti e li buoni dicon mal di
Te, e dicon ver, chè carte false e dadi
288Ti dànno i beni c’hai, mobili e saldi.
     E tu dài lor da dirlo, perchè radi
Più di te in questa terra straccian tele
291D’oro e broccati e velluti e zendadi.
     Quel che dovresti ascondere rivele:
A’ furti tuoi, che star dovrían di piatto,
294Per mostrar meglio, allumi le candele;
     E dài materia ch’ogni savio e matto
Intender vuol, come ville e palazzi
297Dentro e di fuor in sì pochi anni hai fatto;
     E come così vesti e così sguazzi:
E rispondere è forza, e a te è avviso
300Esser grand’uomo, e dentro ne gavazzi. —
     Pur che non se lo veggia dire in viso,
Non stima il Borna che sia biasmo s’ode
303Mormorar dietro che abbia il frate ucciso.
     Se ben è stato in bando un pezzo, or gode
L’ereditate in pace; e chi gli agogna
306Mal, freme indarno e indarno se ne rode.
     Quell’altro va sè stesso a porre in gogna,
Facendosi veder con quella aguzza
309Mitra, acquistata con tanta vergogna.
     Non avendo più pel d’una cucuzza,
Ha meritato con brutti servigî
312La dignitade e ’l titolo che puzza
     A’ spirti umani, a li celesti e a’ stigi.




Note

  1. Dopo la morte del cardinale Ippolito, il duca Alfonso richiamò presso di sè il nostro poeta, mostrandosi in più guise disposto a beneficarlo; come n’è prova, tra le altre, la Satira VI.
  2. Favola assai nota.
  3. Più specialmente nominati nella Satira II. Vedi pag. 168 e la n. 8.
  4. Testimonianza dei viaggi ch’egli avea dovuto fare in servigio, principalmente, del cardinal d’Este, e che gli avevano procurato il contento di veder quasi le due terze parti d’Italia, e la soddisfazione, assai pia rara, di non desiderare di più.
  5. Queste parole si credono allusive al suo amore verso l’Alessandra Benucci Strozzi.
  6. Cioè, taci.
  7. In questa e nelle seguenti terzine parla il poeta di Giovanni de’ Medici, poi Leone X, di cui era amico assai prima del suo pontificato — (V. la Lettera I), — e sin dal tempo che la sua famiglia andava esule da Firenze, e Giuliano suo fratello si riparava nella corte d’Urbino, ove il poeta medesimo conobbe il Bembo, il Castiglione autore del Cortigiano, ed altri illustri letterati di quel tempo. Intorno ai detti fatti può vedersi il Guicciardini nel libro XI. — (Molini).
  8. Cioè nel 1512, quando i Medici, restituiti colle forze di Giulio II e degli Spagnuoli in Firenze, fecero ne fosse cacciato il gonfaloniere che col nome di perpetuo era stato messo a capo di quella repubblica.
  9. Come nella Satira I: «Quell’altro per fodrar di verde il nero Cappel ec.» (v. 178).
  10. Così tutte le stampe; per effetto, crediamo noi, della pronunzia provinciale dell’autore, in vece di Gazza.
  11. Con questi nomi di Fiorentini vuol dire il poeta che un papa fiorentino non avrebbe premiato un ferrarese prima dei suoi parenti e paesani. — (Molini.)
  12. Il fratello, cioè, dello stesso papa, Giuliano.
  13. Cioè, Leone.
  14. Il Baruffaldi fa queste cose avvenute nella terza andata di Lodovico a Roma; e congettura che la bolla della quale il pontefice condonò a lui non per intero ma solo la metà della spesa, fosse quella che riguardava il benefizio di Sant’Agata. Vita ec., pag. 145. — Che poi Lodovico si trovasse in Roma circa il fine del 1517, o di fresco vi fosse stato, n’è prova ancora la Lettera XLVI (secondo le più recenti edizioni) tra le familiari di Niccolò Machiavelli, ove è bello il vedere la stima che lo stupendo politico mostrava di fare dello stupendo poeta. Quel passo, non inosservato dai biografi dell’Ariosto per ciò che vi concerne l’ambizione poetica del Fiorentino, giova qui riportarlo testualmente: «Io ho letto a questi dì l’Orlando Furioso dell’Ariosto, e veramente il poema è bello tutto, e in dimolti luoghi mirabile. Se si trova costì, raccomandatemi a lui; e ditegli che io mi dolgo solo, che avendo ricordato tanti poeti, che mi abbia lasciato indietro come un... e, che egli ha fatto a me in detto suo Orlando, che io non farò a lui in sul mio Asino
  15. Il cardinale Bernardo Dovizii da Bibiena, allora datario.
  16. «Allude il poeta al Giona dipinto a fresco da Michelangiolo nella volta della cappella Sistina in Vaticano, di dove il profeta vede al di sotto le tante teste mitrate de’ cardinali, arcivescovi, vescovi, patriarchi ec., assistenti alla messa del pontefice.» — (A. Torri.)
  17. Tutte l’edizioni che ho potute consultare leggono di tenerla. Nel MS. originale l’autore fece fino dal principio di volerla, poi cancellò; indi scrisse nuovamente di volerla. — (Molini.)
  18. Spiegherei a questo luogo: male me ne avvantaggio, quanto alla mia interna Felicità.
  19. Qui sembra da intendersi per quantità proporzionata. Con che verrebbe in qualche modo a scusarsi la ripetizione della rima la quale potrebbe dar luogo a censura nel v. 258.
  20. Porta Giove (poi Giovia) era una delle porte di Milano. Intende l’autore di quel castellano di Lodovico Sforza, che vendette il castello a Luigi XII re di Francia. (Guicciardini, lib. IV) — (Molini.)
  21. Le moderne edizioni (eccettuata quella del Rolli) leggono questi due versi come segue:
                             Io mi contento; ed a chi vuol, con macchia
                             Di barería, l’oro e la seta dono.
    Chi abbia inventata questa lezione, non saprei dirlo. L’autografo in questo luogo non ha correzione alcuna, ed è stato seguito nelle prime edizioni. — (Molini.)
  22. Macchia, spiegato dagli altri per latrocinio, potrebbe anche intendersi per Ogni genere di frode.