Sessanta novelle popolari montalesi/LX

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LX. Argia

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LIX

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NOVELLA LX


Argia (Raccontata da Giovanni Becheroni contadino)


Ci fu una volta un ricchissimo Conte di Bologna, che aveva una bella figliola sopracchiamata Argia, e la trattava da innamorato un cavaglieri detto Petronio, provvisto sì di beni di fortuna, ma che nun poteva in nissun modo, mettersi al paragone della ragazza: in ugni mo', lui per la bramosia di garbare alla su' dama e di nun parere da meno di lei tieneva un gran treno signorile, faceva delle spese da matto e finì che nun gli rimanette il becco d'un quattrino, poero 'n canna e pieno di debiti per insino agli occhi. Vistosi dunque al perso, Petronio pensò che era più meglio di fuggir via da Bologna e andarsene vagabondo per il mondo, sicché licenziatosi co' una scusa dall'Argia, la lassò libbera per l'affatto e se ne partì alla cheta per il su' pellegrinaggio. Dapprima l'Argia, che cognosceva le vere ragioni, perché Petronio l'aveva dibandonata, se n'affliggé dimolto della su' sparita: ma si sa; lo dice anco 'l proverbio: Lontan dagli occhi lontan dal core; e poi le donne son di natura dimenticone in sullo spasso degli amanti; all'Argia gli capitò dinanzi un altro giovanotto a fargli 'l cascamorto, e Petronio fu seppellito 'n fondo al dimenticatoio. Questo giovanotto, chiamato Anselmo, nun era tanto ricco; bensì di famiglia nobile antica e specchiata, e cugino del Papa allora regnante. Al Conte gli garbò e nun fece ostacolo a darlo per marito all'Argia, e ci aggiunse una bona dota, perché stessano da par loro; accosì fu concluso lo sposalizio e l'Argia viense in gran pompa menata nel palazzo d'Anselmo. Ma Anselmo aveva un grosso [499] mancamen [p. 499 modifica]to; 'gli era geloso fradicio della moglie, e la tieneva quasi sempre chiusa 'n casa, nun la mostrava a nimo e la guardava a vista per paura che qualcuno gliela sbrecass'a su' dispetto; sicché la donna cominciò a annoiarsi e si pentì a bono di quel matrimonio uggioso. Infrattanto successe, che doppo del tempo il Santo Padre scrisse una lettera a Anselmo con comando 'spresso d'andare solo a Roma, addove bisognava si trattienessi almanco du' mesi per certi affari 'mportanti, che il Papa voleva fussano trattati e accomidi dal su' cugino. Anselmo a questa nova si sentette male, perché nun poteva disubbidire al Papa insenza un gran gastigo, e da un altro canto gli s'aggricciava la pelle al pensieri di lassar l'Argia a Bologna, lui stando per tanto tempo lontano: epperò, prima di partire, volse cognoscere la su' sorte, e a questo fine andiede dal Filosafo veneziano, che era un indovino di cartello, a prendere il su' parere. Dice: - Ma che posso propio dilontanarmi al sicuro che la mi' sposa nun mi farà le fusa torte? - Eh! caro mio, - gli arrispose il Filosafo, - son troppi e' punti di simili pericoli. Una donna pole cascare per ambizione, pole cascare per capriccio, pole cascare per 'nteresso, pole cascare per abbattersi in uno che gli garba. 'Gli è tutta fede, caro mio, e bisogna rimettersi al destino. Sicché dunque Anselmo torno a casa con quella risposta, concredendo d'assicurarsi più meglio, menò l'Argia a una villetta deserta e ce la lassò con diversi su' fidati servitori e una camberiera, e con ordine che lei nun avess'a discorrire con anima viva di fora; poi partì per Roma. A que' medesimi giorni Petronio, ma' fermo in un logo, girandolava per il mondo a piedi e campava di carità. Una mattina deccoti che arriva a una siepe folta di spini e vede un omo che co' un bastone ferrato steva arrabinato a frucandolare per entro lo spineto, sicché lui curioso di scoprire quel che cercassi quell'omo, dice: - Che avete vo' perso? Son capace ad aitarvi? Arrisponde l'omo: - Che! i' nun ho perso nulla. Ma una serpaccia spropositata s'è niscosta qui, e i' la vo' ammazzare. Dice Petronio: - Ma che noia v'ha egli dato codesta bestia? Che sugo c'è di romper le tasche a chi non vi guarda? 'Gnamo! Seguitate per il vostro viaggio e lassatela in pace la serpe. A male brighe che l'omo fu ito via, di [500] re [p. 500 modifica]pente apparse a piè della siepe una ragazza di maravigliosa bellezza, con du' occhi simili a' raggi del sole, la chioma de' capelli tutta fila d'oro, e nemmanco il più bravo ritrattore sarebbe stato capace di rifarla. Petronio rimanette mezz'allocchito, e la ragazza gli disse: - I' son io la serpe che cercava quell'omo e se m'avessi pur morta e raddutta in pezzettini, 'gli era la listessa, perch'i' sono una Fata e nun mi si pole ammazzare. In ugni mo' la tu' bona 'ntenzione m'è garbata, e sappi che no' siemo parenti, perché te vieni come me da una stirpe di serpi. I' sono la figliola della fata Manta, e quando buttorno la prima pietra della città di Mantova, la mi' mamma fu quella che la trascelse. Se te lo brami, deccomi pronta a servirti in ugni cosa. Che la passione per l'Argia ti s'è scassiata dal core? Petronio arrispose: - Eh! no, ci penso sempre all'Argia. Ma siccome per via di lei ho finito tutt'e' quattrini e mi trovo poero 'n canna, i' vo per il mondo 'nsenza sapere addove mi fermerò, e della Argia nun ne so più nulla. Dice la Fata: - La tu' Argia t'ha smenticato e sposò Anselmo di Bologna, che n'è geloso a morte, e ora lui 'gli è ito a Roma dal Papa e ha lasso l'Argia in una su' villetta 'n custodia della servitù. Ma se te vòi, i' te la fo avere 'n possesso per una notte l'Argia. Scrama Petronio: - Magari! Ma strucio accosì nun è capo che mi presenti. Dice la Fata: - Oh! i' so trasmutarmi a piacimento e ho la virtù d'arricchire chi mi pare. Ora diviengo subbito un cagnolino scherzoso e te domandami pure tutto quel che ti nasce nell'idea. In un battibaleno la bella Fata si trasficurò in un cagnolino, che saltellava e faceva de' giochi e de' balziculi, e Petronio gli disse: - Dammi dimolti quattrini e pietre preziose. E il cagnolino aperta la bocca, principia a rigombitare munite d'ogni sorta, perle e diamanti di gran valsuta. Petronio a quella vista 'gli era fora di sé dal contento, e raccattate le ricchezze, se n'andette assieme al cagnolino nella città più vicina indove comperò cavalli, carrozza e vestuari, e poi s'avviò per ritornarsene al su' paese, e arrivo che fu, 'nsenza farsi ricognoscere da nimo, una mattina lui e il cagnolino viensano nel salvatico della villetta abitata dall'Argia. Non passò di molto tempo da che Petronio spasseggiava in quel salvatico, che comparse a una finestra l'Argia co' un [ [p. 501 modifica]501] grugno d'uggiosa e d'annoiata, e svolti gli occhi di qua e di là vedde Petronio che si divertiva con il su' animale. L'Argia lo cognobbe che quel cavaglieri era Petronio, ma più gli nascette la brama di possedere 'l cagnolino per su' spasso, sicché chiama la camberiera e gli comanda che vadia a sentire, se quel cavaglieri è disposto a vendergli la su' bestiola. Dice Petronio alla camberiera: - Il cagnolino nun lo vendo, bensì lo regalo, ovverosia, per più meglio 'ntendersi, i' lo do 'n baratto per qualcosa che mi garbi. E badi la tu' padrona, che 'l cagnolino nun è soltanto bello e scherzoso, ma ha pure delle virtù. E rivolto al cagnolino, scrama: - Buttami un anello di brillanti. E subbito 'l cagnolino aperta la bocca rigombitò l'anello di brillanti. Dice la camberiera: - Chieda, guài quel che lei brama 'n baratto, e se la padrona nun ci fa opposizione, si pole dare anco che si ritrovino d'accordo. Dice Petronio: - Gli avete a dire alla padrona, che lei mi meni a dormir con seco stanotte, e il cagnolino è suo. Lei acquista una gran fortuna con poca spesa. Gli sarebbe garbato pure alla camberiera un simile regalo a quel patto; ma come accade di tutte le donne, che fan sempre le viste d'essere schizzignose per finzione e alle prime le si tiengan su d'un palo per nun parere di cascar subbito, lei scramò: - La chiesta 'gli è dimolto ardita e sfacciata per la mi' padrona: ma siccome l'imbasciatore nun porta pena, accosì vo a dirglielo alla signora quel che lei domanda. E corse dall'Argia. Ci fu un po' di contrasto da cantambanchi tra la padrona e la camberiera, perché quella ficurò d'impermalirsi, abbeneché si struggessi d'avere 'l cagnolino con soltanto la fatica gustosa di dormire assieme al su' antico 'nnamorato, e la camberiera si sforzassi dalla su' parte a persuaderla a nun rifiutare 'l patto. Insomma, finirno bene, perché Petronio stiede una notte con l'Argia, l'Argia 'gli ebbe 'l cagnolino e la camberiera una mancia macicana. A bruzzolo poi Petronio se n'andiede pe' fatti sua, e nimo di casa l'aveva visto nentrare e nuscire, salvo che le du' donne. In questo mentre Anselmo se n'arritornava da Roma doppo la su' lontananza obbligata di du' boni mesi, che a lui parseno secoli, tant'era la smania che lo rodeva per via della su' moglie: ma prima di vienirsene alla villetta volse sentire se ma' fosse [502] successo [p. 502 modifica]nulla di traverso, e si portò diviato alla casa del Filosafo veneziano. Dice, a male brighe che lo vedde: - Dunque che novità mi racconta? Fa il Filosafo: - Eh! caro mio, 'gli è casca per lo 'nteresse. 'Gli ha avuto un cagnolino virtudioso in scambio d'una dormita per una notte assieme al cavaglier Petronio, e la camberiera gli reggette il lampanino. Anselmo perse 'l lume degli occhi a quel racconto, e fuggì 'nfurito dandosi de' pugni nel capo e con l'idea d'ammazzarla l'Argia 'nsenza misericordia; ma per istrada, che per insino alla villetta 'gli era da Bologna piuttosto lunga, gli passorno un po' i furori e a ripensarla più a diaccio borbottò: - E se nun è vero il tradimento dell'Argia? Che quel Filosafo sconsagrato nun poterebbe avermi messo 'n mezzo per canzonarmi delle mi gelosìe? Sarà più meglio ch'i' la pigli con manco di rabina e vegga da me se mi rinusce scoprire qualcosa. 'Gli è facile che tra padrona e camberiera si letichino e che si manifestino per dispetto tutti e' mancamenti; e allora poi 'gli è morte sicura per l'Argia. Dunque, co' una faccia accomida a un'allegria finta, arriva Anselmo alla villetta, e gli sposi si feciano una mana di complimenti e di feste, sicché parevan tutti pane e cacio e che dientro al core nun gli ci abitassi l'amaro e 'l sospetto. E' nun eran passe tre settimane, che successe per l'appunto quel che Anselmo aveva pensato; perché per un comando frainteso l'Argia principiò a gridare la camberiera e questa a rispondergli attraverso; se ne dissano d'ugni colore e da ultimo la camberiera stizzita scramò: - Eh! se lei 'gli ha uto 'n regalo il cagnolino delle fortune, bello sforzo! E' bastò che lei menassi una notte a dormir con seco quel cavaglieri. Anselmo che steva niscosto a sentire il battibecco tra padrona e camberiera, subbito disse al su' servitore fidato: - I' vo a Bologna, e te piglia questa spada e porta l'Argia in qualche bosco, e lì ammazzala e po' vieni a trovarmi. A male brighe partito Anselmo, il servitore con la scusa di una spasseggiata fece sortire fora sola con seco l'Argia, e arrivo a una selva disse: - Signora padrona, i' ho l'ordine 'spresso del su' marito ch'i' l'ammazzi per via de' su' cattivi portamenti. Dunque si butti 'n ginocchioni e s'arraccomandi a Dio alla lesta, perch'i' 'ntendo d'ubbidire. L'Argia volse [ [p. 503 modifica]503] rispondere, supplicare quel servitore a nun esser tanto barbaro; ma lui sfoderò la spada e stendette la mana per infilziarla quella disperata. Però il colpo gli andiede a voto, e l'Argia in quel mentre sparì com'un fumo, e 'l servitore rimase a mo' d'un allocco, nun la vedendo più in nissun lato, corse a raccontare questo miracolo a Anselmo: - Ma che novella te mi dai a intendere? 'Gnamo! menami al posto addove tu di' che l'Argia è sparita. Mi vo' sincerare da per me. Gli ci volse del bono a que' dua a ritrovar la selva; ma più anco Anselmo fu sorpreso in nel vedere che lì c'era un palazzo tutto d'alabastro, con un tetto d'oro e le cantonate fatte di diamanti e altre pietre preziose e sul portone ci steva ritto un bratto mostro femminino, che uno l'arebbe creduto piuttosto un animalaccio salvatico e no di stirpe cristiana. Anselmo gli s'accostò tavìa e gli dice: - Di chi è questo palazzo? Fa il mostro: - 'Gli è mio, e se lei brama di visitarlo anco dientro, nun ci ho difficoltà a mostrargli le maraviglie e le ricchezze smense che s'arritrovano in ugni stanza. Arrisponde Anselmo: - Volenchieri. Assieme dunque girorno il palazzo di fondo 'n vetta, e Anselmo si sentiva vienine l'acquolina per la bocca in nello scorgere l'oro, l'argento, le pietre preziose, le seterìe e le mobiglie di lusso ammonticellate a divizia per insino in dove nun ce n'era punto bisogno, e nun potiede tracchienersi dallo scramare: - Oh! s'i' fossi io il padrone di questo bel logo! Dice 'l mostro: - Tutto è tuo, a patto che diaccia per una notte con meco. A simile proposta dapprima si riscoté Anselmo per via della bruttezza orribile di chi gliela faceva; ma poi, scommosso dallo 'nteresse, si risolvé di guadagnarsi 'l palazzo anco a quel mo', sicché la sera doppo cena andiede 'nsenza pensarci più che tanto a dormire con quella specie di bestiaccia, e a occhi serri volse ficurarsi nell'idea d'aver accanto la più perfetta donna di questo mondo. Ma a un tratto, in verso una cert'ora, deccoti si spalanca una porta e nentra di corsa 'n cambera l'Argia: - Bravo! Ora no' siemo del pari. Ma no, mi scambio: perché io almanco e' diacei co' un bel cavaglieri e te ti veggo 'n compagnia d'un mostro, che nun si sa di che stirpe 'gli è, ma più bestia che cristiano. E anco te sie' casco per lo 'nteresso. Si alzò a siedere Anselmo a quella romanzina della su' moglie e [504] [p. 504 modifica]gli sporse la mana e gli disse: - Te ha' cento ragioni da vendere; sicché è meglio perdonarsi e' nostri mancamenti e rimettersi fra di noi in santa pace. Quel che è stato, oramai è stato e nun se ne parli più. Nentra qui con meco, ché il brutto mostro, come te vedi ci ha lasso libberi e i' sono divento padrone spotico di questo palazzo e delle ricchezze che ci sono dientro. L'Argia contenta del successo bono nun si fece più pregare e infilziò tra le lenzola 'n braccio al su' sposo più svelta d'uno scoiattolo, e tuttadua, quand'ebbano chiacchierato un bel pezzo, finirno per addormirsi: ma desti che furno a levata di sole, 'nvece che nel letto principesco si trovorno a diacere a ciel sereno sopra un gran monte di corna 'n mezzo alla selva. Il palazzo 'gli era sparito. Gua'! gli toccò arritornarsene lemme lemme a Bologna, in dove nun ebban più da lamentarsi l'uno dell'altro, e Anselmo smenticò pure tutte le gelosie, che gli eran fuggite via assieme al palazzo 'ncantato.