Sole d'estate/Occhi celesti

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Occhi celesti

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Caccia all’uomo Scherzi di primavera
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OCCHI CELESTI

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Come spesso le piaceva fare, la signora andò a sedersi sul divano del salotto, nell’angolo dal quale meglio si vedeva la finestra sul giardino.

Era quasi sera; una sera di maggio, ancora fresca, ma con già lievi rossori estivi ad occidente. Nel vano della finestra aperta, attraverso la tenda di finissimo tulle, che dava al quadro di fuori come un’impressione di arazzo, si disegnava una palma, nera, sempre più nera nel rosso stemperato dello sfondo, con le foglie un po’ pendule, come grandi ali stanche: dalla vigorosa colonna del tronco pendevano cespuglietti di erbe selvatiche, ed anche un tralcio di pervinca che piano piano chiudeva i suoi fiori come occhi di fanciullo che si addormenta. Questo istinto di sonno vinse anche la signora: ma era un senso di sonno fisico, di rilassamento, di abbandono alle forze crepuscolari che vincevano la natura. Aveva lavorato anche lei tutto il giorno, non per necessità assoluta, ma per un bisogno di [p. 82 modifica]moto, di sfogo della sua energia interiore, ancora viva e potente; e adesso il corpo non più giovane si risentiva della fatica inutile e si ripiegava su se stesso, tentando di trascinare nella sua stanchezza alquanto disperata lo spirito sempre vigile. Questo però si ribellava tutto, respingendo quel principio di fine, di annientamento notturno: di morte, insomma. Ma a misura che la luce mancava, ella sentiva l’ombra addensarsi anche dentro di lei; sebbene in fondo al cuore le rimanesse, come appunto nel centro delle cose intorno, una scintilla di fuoco, che era quasi il seme del rinnovarsi della luce di domani.


~


Fu suonato con una certa violenza il campanello della porta di strada. Ella si sollevò, fra sdegnata e ansiosa. Non aspettava nessuno, e neppure desiderava visite, a quell’ora: e il portalettere o il fattorino degli espressi o del telegrafo non potevano recarle buone o cattive notizie, poiché ella non aveva parenti né amici e tanto meno nemici sparsi per il mondo. Eppure, perché questo senso di risveglio e di attesa, più che di [p. 83 modifica]curiosità, fra l’andare e il venire della cameriera alla porta e da questa all’uscio del salotto?

— Signora, c’è una bambina che deve consegnarle una lettera.

— Una bambina? A quest’ora?

— Non è sola. L’accompagna una signora piuttosto anziana che l’aspetta alla porta.

Un breve silenzio. La signora piega la testa, la solleva con sùbita calma.

— Fatele entrare.

Entrò solo la bambina: era piccola, esile, con le gambine scarne e i piedi grandi: grandi anche le mani, ch’ella tentava di nascondere entro le maniche di un paltoncino rosso troppo largo per lei. Un berrettino a maglia, dello stesso colore, ardeva come un fiore in mezzo al cespuglio dei suoi capelli crespi di un nero dorato. Del viso non si vedeva che l’uovo del mento, poiché ella si avanzava a testa bassa, quasi spinta benevolmente, anzi con incoraggiamento, dalla mite cameriera: e appena consegnata alla signora la piccola lettera che aveva tratto dalla manica del paltoncino parve volesse fuggire.

— Ma no, ma no; mettiti qui, carina; adesso la signora legge.

Era la cameriera che parlava; la fece sedere quasi per forza, sul divano, accanto [p. 84 modifica]alla padrona, e stette lì quasi per impedirle di scappare. La signora leggeva, Fredda, diffidente: aveva già veduto, alla luce della prima lampada accesa dalla domestica, la busta umile: e su questa l’indirizzo scritto con quella caratteristica grafia popolaresca le cui lettere sembrano piuttosto segni e ghirigori.

— Accendete bene, — ordinò alla cameriera, e la bambina sollevò d’istinto, riabbassandolo subito, il viso stupito, quando anche le lampade aderenti al soffitto sparsero una luce vivissima sulle cose belle che riempivano la stanza: ma più fulgido fu il baleno dei suoi grandi occhi celesti, che parve accrescere l’improvvisa luminosità del luogo.

La signora leggeva.

«Signora, si ricorda di Augusta la Sua cameriera di dieci anni fa, quando ancora viveva il Suo buon Consorte? Andata via da Loro, trovai, sebbene non più molto giovane, da accasarmi: pur troppo però anche mio marito è morto, e anch’io forse sono sulla sua strada, perché domani devo entrare all’ospedale per subire una gravissima operazione. Perciò le mando i saluti con la mia unica bambina, e la prego di scusarmi se, in quel tempo, qualche volta ho mancato. La Sua devotissima serva Augusta.»

Finito di leggere, anche la signora rimase [p. 85 modifica]viso piegato sul foglio con un atteggiamento che rassomigliava a quello della bambina: e, invero, anche il suo era un senso di smarrimento profondo, come se ella si trovasse, spintavi a forza, in casa d’altri, in un mondo nuovo e sconosciuto, che al solo guardarlo di sfuggita destava meraviglia e timore insieme.

Ombre e luci, fantasmi e angeli, altezze e abissi la circondarono: le passarono davanti fantasmagorie di nuvole nere e fiammanti, come quelle che dopo un temporale estivo marciano sull’orizzonte, in lotta col sole.

Augusta. Sì, la ricordava. Bruna, formosa, con la bocca e gli occhi ardenti, i fianchi ondulanti come quelli della Sposa del Cantico dei Cantici: e anche come quelli delle tigri.

Ella si era persino ingelosita della sua serva possente e felina e del «buon consorte» che in gioventù era stato biondo e aveva gli occhi celesti come quelli della bambina seduta al suo fianco.

Ombre fuggenti; passato cancellato dal tempo e dalla morte. Sollevò il viso e guardò la piccola messaggera come la vedesse solo allora. Il rosso stonato del vestitino povero e pretenzioso le destò quasi una vampata di odio. [p. 86 modifica]

Domandò con voce dura:

— Come ti chiami?

— Rosa.

La voce esile tremò come uno stelo, con in cima il fiore di quel nome luminoso.

— La signora che aspetta di fuori è la tua mamma?

— Sì.

La cameriera, che attendeva ordini ferma nell’angolo del salotto, credette che la padrona mandasse a chiamare la sua antica collega.

Nulla. La signora disse:

— Adesso ti darò la risposta.

Si alzò, rigida pur nella persona pesante che sembrava intagliata, anche per il colore del vestito, in qualche legno duro: lenta e calma andò nella stanza attigua, della quale l’uscio era sempre aperto; lenta e calma rientrò nel salotto, con in mano una busta chiusa. La risposta alla donna, che forse implorava sul serio, tragica sulla sua porta come sulla soglia della morte, e che le offriva la vita della bambina come una eredità inestimabile, — o forse la ingannava ancora come dieci anni prima, — era un biglietto da cinquecento lire. [p. 87 modifica]

~


La bambina prese la busta e si alzò di scatto, sempre in atto di fuggire. La signora, adesso, fu lei a fermarla; anzi la colse quasi a volo come una farfalla.

E come una farfalla la sentì davvero vibrare fra le sue mani, tutta tremula, morbida, di una bellezza irreale eppur vivida e calda come l’essenza stessa della vita. Quel tremito, quella impressione di volo fermato, di gioia e terrore confusi in uno stesso mistero, le penetrarono fino al cuore, le sfiorarono il sangue. Un gesto, e la divina farfalla poteva fermarsi lì, e quella vita poteva rinnovare e illuminare la sua, con l’eterno miracolo dell’amore.

La bambina sentì questo soffio avvolgerla tutta in un’onda di luce: sgusciò dalle mani rallentate della signora, corse fuori ma tornò subito: portava una rosa rossa: gliela porse e le sorrise. Sembravano due fiori sullo stesso stelo, adesso, la rosa e la bambina: e gli occhi di lei scintillavano come la rugiada al primo sole.

Ma la signora già di nuovo si era ripresa e irrigidita. Disse alla cameriera, che seguiva [p. 88 modifica]sempre la bambina con una certa aria di complicità:

— Spegnete, e accompagnate la signorina.

E a questa, che si era anch’essa di nuovo tutta oscurata e chiusa, disse:

— Addio.