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Sopra le vie del nuovo impero/Prefazione

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Prefazione

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Dedica Le due giornate del trionfo nazionale

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PREFAZIONE.


Il titolo del presente volume ha più un valore ideale che reale, perchè le «vie» del nostro nuovo impero sono in Tripolitania e in Cirenaica, mentre qui si parla della Tunisia, dell’emigrazione italiana in Tunisia e delle isole dell’Egeo che noi abbiamo piuttosto occupate che conquistate. Ma, ripeto, le nostre «vie» sono più linee di pensiero che di terreno. Così è una linea di pensiero leggermente tracciata nel volume questa: che l’emigrazione è in un certo senso un principio d’imperialismo, in quanto, per lo meno, il popolo che emigra, può diventare una materia prima d’imperialismo. Altrimenti non s’intenderebbe che io parlassi di Tunisi sotto il titolo che adopro, di Tunisi che, se mai, fu una provincia tolta al nuovo impero italiano.

Circa le isole dell’Egeo i lettori noteranno uno spirito «ottimista» per rispetto all’avvenire. Ciò dipende dall’essere state scritte quasi tutte le lettere a Rodi dove una calda atmosfera ottimista esisteva, e in parte ingenuamente nasceva dalla [p. x modifica]bellezza dell'isola stessa, la quale incitava il desiderio, e il desiderio suscitava la speranza. I lettori vedranno come a mano a mano che si va verso la fine, il roseo ottimismo decada. Oggi, mentre scrivo, mentre le famose «trattattive» italo-turche continuano altrettanto divulgate quanto di carattere oscuro, nessuno può sapere; ma si sente che sopra a noi preme la volontà dell'Europa.

Questo volume muove da Roma e dalle due memorande giornate del 23 e 24 Febbraio scorso in cui il decreto d’annessione della Libia fu confermato dal parlamento e dal senato; passa per Tunisi, come ho detto, per le Sporadi meridionali e per Atene e finisce in un discorso morale sopra la civiltà mercantile e la civiltà guerresca, contrapposte fra loro, e i massimi valori dell'uomo alla cui restaurazione si deve tendere. Eppure, tutte queste materie diverse nel genere e distanti nello spazio hanno tra loro un nesso, convivono in unità come parti d’un’opera organica, come parti d’un’opera d’arte. Questa unità nel volume sorge dagli accenni che qua e là faccio a nazioni «plutocratiche» ed a nazioni «proletarie» coesistenti sul Mediterraneo, collaboranti e in conflitto, attori del dramma della presente civiltà [p. xi modifica]europea. Tunisi, per esempio, è un punto dove il contatto, di collaborazione e di conflitto tra la nazione per eccellenza plutocratica, la Francia, e la nazione per eccellenza proletaria, l'Italia, è evidente; e quindi Tunisi è un ottimo punto di osservazione. E bisogna di frequente tornarci.

Ciò premesso, si può capire come la Turchia stessa assuma la sua parte nel sopraddetto dramma. È la parte del cadavere di appestare la casa; così è di questo mostro tartarico putrefatto, di corrompere la civiltà europea, di far calare i valori della morale politica europea. Già così la Turchia agisce da secoli secondo la verità delle seguenti parole dette alla camera francese dal deputato Malleville nel 1846, ma lapidarie anche oggi: «La volontà dell'Europa è decisa a mantenere l’integrità dell’impero ottomano, l’integrità, cioè, della preda mostruosa verso la quale da sì gran tempo le ardenti rivalità europee aguzzano il loro appetito, e la cui spartizione si sforzano di differire sine die, nell’incertezza del pezzo che sarà per toccarne a ciascuno». Già quale è esposta in queste parole, la Turchia agisce come fomite permanente di cupidigia e di viltà per le nazioni europee. Ma c’è di peggio oggi. La Turchia, debitrice del capitale straniero, dispensatrice di [p. xii modifica]«concessioni» al capitale straniero, fa schiave le politiche nazionali delle varie nazioni, le fa schiave delle imprese plutocratiche. In questo senso sopratutto la Turchia corrompe la civiltà europea, in quanto, come dicevo, fa schiave le politiche nazionali che comunque siano, hanno un valore maggiore, le fa schiave dei valori che debbono essere subalterni; le fa schiave, cioè, delle imprese plutocratiche.

Di contro a una simile Turchia, io vorrei dare alla nostra guerra un carattere ideale. L’ho appena accennato nel volume, perchè in realtà un tale carattere, nei fatti e nel sentimento della gente, la nostra guerra non l'ha. È soltanto una guerra che si fa, con più o meno ostacoli per parte dell’Europa, contro l'impero ottomano, per costringerlo a cederci la Tripolitania e la Cirenaica. È il fatto, anzi la materia nuda e cruda del fatto. Ma le significazioni ideali per l'atto morale nella storia del mondo, le significazioni ideali della grande proletaria del Mediterraneo che assalta l'impero morituro che sul Mediterraneo ha rese sterili le sponde di tre continenti, dell’Europa, Asia e Affrica, rompendo dei tre continenti l’antica unione, e che ora è fatto mezzo, per non dire mezzano, della plutocrazia internazionale ad abbassare la politica [p. xiii modifica]; queste significazioni ideali non esistono. Ma si potevano creare.

Ciò avrebbe potuto dare altra luce alla nostra guerra, altra ira al nostro cuore contro l’Europa, altro impeto alla nostra entrata nell'agone imperiale del mondo. Ciò è oggi soltanto timido accenno d’ingenua poesia. Insomma io considero la Turchia antagonista nostra non soltanto per la guerra libica, ma per la sua stessa essenza, per l'essenza del suo imperialismo che è fra tutti il pessimo, mentre a me l'italiano si presenta come il prototipo del migliore. Il quale per me è l'imperialismo nazionale, propagatore della specie e della civiltà, attore necessario nel dramma del loro sviluppo; e l’imperialismo medio è quello plutocratico, pur esso creatore e necessario. E infimo è l'imperialismo dell’orda, distruttore, e di questo ultimo genere è prototipo il turco. Sul grandioso triangolo, Europa, Asia e Affrica, su cui l’impero turco s’eresse, sappiamo benissimo che preesistevano a lui stirpi decadute, greci, arabi, persiani, nè tutto esso distrusse, ma molto trovò distrutto; quando però per scorcio verbale diciamo che fu così, che esso dove giunse distrusse, vogliamo significare che qua e là distrusse, o finì di distruggere, in nessuna parte resuscitò, o suscitò. [p. xiv modifica]

Ben s’intende che quando si distinguono i tre imperialismi, nazionale, plutocratico, turco, si nominano da quello degli elementi componenti che predomina; non si vuol dire che un imperialismo nazionale possa essere senza essere anche in parte plutocratico, nè che un imperialismo plutocratico non possa essere anche in parte nazionale; e se mai, soltanto del turco si può dire che è turco e nulla più, cioè distruttore e nulla più. Così quanto in certe pagine del volume dirò circa la colonizzazione francese in Tunisia, e la probabilità che essa passi de’ guai, apparirà molto inesatto, se preso alla lettera. Perchè molti imperialismi plutocratici hanno avuto ed hanno la loro ragione di essere nel mondo, hanno fatto e fanno con buon successo il loro corso, e la colonizzazione francese in Tunisia potrà aver guai non tanto perchè plutocratica, come altre furono e sono; quanto perchè vuole essere troppo, per la sua scarsità di popolo, anche colonizzazione nazionale, colonizzazione di popolamento francese e a questo scopo male, secondo noi, tratta con gli arabi.

Tornando all’impero turco, esso fu conquista d’orda e fu cadaverico sempre nel senso che da tutti fu notato: che fu incapace di sviluppo. Nella stessa guerra fu [p. xv modifica]incapace di sviluppo. Nel secolo XVIII, un generale francese fattosi musulmano e passato al servizio della Turchia, il conte di Bonneval, raccontò nelle sue memorie che cosa aveva visto tra l’esercito turco. «Sebbene questa nazione, egli scrive, sia di natura guerresca ed abbia quasi continuamente le armi in mano, è inconcepibile quanto sia poco agguerrita e sino a che punto ignori l’arte della guerra.... Non sono affatto divisi in reggimenti e appena sanno che cosa significhi formare un battaglione.... La cavalleria è una moltitudine confusa e appena sa ordinarsi in isquadroni. Che cosa significhi fare una carica, l’ignora».

Così è l’impero turco. Io vedo, ripeto, il nuovo impero italiano come il suo ideale avversario. Ma le ragioni dell’idealità sfuggono ai più. Ne ho notato qualche accenno in qualche repubblicano, anche in qualche socialista. E il volere espresso, ben s’intende, solo nei nazionalisti. Ma il «mondo ufficiale» e le «classi dirigenti», al solito, ne sono immuni.

Firenze, 4 Settembre 1912.

Enrico Corradini.