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Sotto l'Austria nel Friuli/A Jalmicco nel 1848

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A Jalmicco nel 1848

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La donna di Osoppo La ressurezione di Marco Craglievich

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A JALMICCO NEL 1848.

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Dicono che il luogo dove si scrive o dove si legge influisca sulle idee del nostro cervello. Certo è che questa mattina, 22 ottobre, io ho provato ad evidenza una tale verità. Sono uscita di casa con in tasca alcuni numeri dell’Osservatore Triestino; vecchie notizie come possono giungere presentemente a noi, povera gente di campagna, e, nell’intenzione di dar loro una scorsa, mi sono seduta tra le recenti rovine del villaggio di Jalmicco. Leggere le discussioni della Costituente di Vienna circa la ricompensa da offrirsi all’esercito che torna vittorioso dall’Italia, qui, tra questi mucchi di sassi e di macerie annerite dal fuoco, qui fra duemila abitanti ridotti alla più squallida miseria, che vedono avvicinarsi l’inverno senza avere nè un tetto che li ripari, nè un abito che li cuopra, nè un letto dove stendere le membra affaticate, dava invero nella mia mente uno strano risalto alle parole patriottiche di quei deputati austriaci che hanno proposto di rimeritare con un voto di riconoscenza del [p. 92 modifica]Parlamento, con un voto che al dire di Fuffer è il premio più grande che possa dare una civile società agli autori di queste orribili stragi. Io non ho passato il Tagliamento; non ho portato i miei passi fuori del circondario che per cinque o sei miglia; non vedo che la prima orma, stampata sul suolo italiano da questo esercito, che è andato sempre innanzi con un crescendo spaventoso sino a Milano, sino alla frontiera elvetica. Il gemito di quattro milioni di abitanti conculcati dalla forza brutale è giunto fino a quest’ultimo lembo del Friuli e si unisce al nostro pianto. La verità di ciò che ci sta sotto gli occhi può bene farci credere anche quei fatti di cui non fummo testimoni; ma io non voglio parlare di ciò che qui potrebbe essere in qualche modo esagerato. Fra le sventure della mia patria queste sono le minime. Il Friuli non ha patito nemmeno la centesima parte di quanto han patito Treviso, Vicenza, Milano, ed io parlerò solo di questa centesima parte. Qui era un villaggio abitato quasi esclusivamente da contadini, la maggior parte proprietari del campicello che coltivavano e della casuccia ora distrutta. Riflettendo alla lingua che parlavano, alla loro posizione geografica, alla loro indole e più di tutto a quell’intimo sentimento che Dio stampa nel cuore di ogni popolo, sentivano d’essere italiani e si dichiaravano italiani ad onta di un potentissimo esercito austriaco stanziato a meno di un tiro di balestra dal loro confine. Questa fu l’unica loro colpa. Inermi e fidenti nell’innocenza della loro confessione, essi guardavano senza paura le numerose baionette del conte Nugent, di quello stesso conte che ora in Ungheria con crudele e sanguinosa protesta ha dichiarato al colonnello Blomberg di voler sostenere la naziona[p. 93 modifica]lità croata2 e che qui col ferro, col fuoco, colla rapina ha punito la nazionalità italiana. Dalla finestra della mia camera io ho veduto le fiamme che consumavano questo villaggio e tutte le sostanze dei suoi poveri abitanti; qua e là in diversi punti ho veduto contemporaneamente gl’incendi di altri villaggi ridotti per la stessa colpa alla stessa deplorabile condizione. Udivo le grida efferate e il briaco urlare dei soldati lanciati al saccheggio. Udivo poi più dappresso, sotto le mie finestre, i gemiti dei tapini sfuggiti alla strage con la sola vita e coi bambini in collo, e venuti a cercar ricovero nella mia villetta; udivo dalla lor bocca la narrazione degli orrori di quella notte spaventosa; degli animali rapiti, delle povere masserizie e delle sostanze saccheggiate, del denaro e degli oggetti di qualche valore predati e dalle mani sanguinose del soldato assassino depositati in salvo provvisoriamente a Gorizia al Monte di Pietà.... Monte di Pietà che in questa occasione si mostrò veramente pietoso! Udivo narrare (e in sèguito più di cento testimoni me lo han ripetuto) che i sacerdoti furono insultati, i sepolcri aperti e contaminate le ossa dei morti, che le sante reliquie, gli altari, le immagini furono deturpate, mutilate, che le mani sacrileghe si posarono sui vasi sacri. Dimandatene a questi poveri contadini, testimoni di quella notte e dei dì seguenti, e ad una voce vi diranno che la profanazione e il dileggio furono spinti [p. 94 modifica]perfino ad ungersi gli stivali coll’olio santo, perfino a far mangiare ai cavalli le particole consacrate! Io non ho veduto questi ultimi eccessi, ma vedo co’ miei occhi le pietre sepolcrali spezzate, vedo sull’altare e sulle sacre immagini le vestigia patenti della mano dei barbari; vedo rimasugli di quadri bruciati, ancora appesi intorno alle pareti del tempio, vedo gli stendardi e i pennoni che conservano ancora intorno al loro fusto qualche brandello di seta arsiccia scampata alle fiamme. Vedo scoperchiata al sole la stanza dove fu lasciato insepolto Antonio Busetto, un vecchio di settantanni che fu trucidato, perchè non rispose, essendo sordo, ai brutali che gli domandavano denaro. Vedo l’albero ai cui piedi molti giorni dopo l’invasione consumò il suo martirio il villico Antonio Nobile di Claujano. Alcuni soldati volevano forzarlo a bestemmiare il Pontefice. Egli credette dovere di religione di benedirlo invece. Allora fu spogliato nudo, legato a quel tronco e battuto tante volte sulla bocca quante egli gridava: «Viva Pio IX!» finché sotto quei colpi spirò.

Mentre scrivo di questi fatti, una turba di tapini mi circonda e chi mi addita la casa dove i soldati con le fiaccole appiccarono l’incendio, chi il luogo dov’era schierata la cavalleria colle armi abbassate ad impedire che i meschini fuggissero. Una vecchia mi siede accanto con un braccio rotto, col volto sfigurato da un colpo di calcio di fucile: è Maria Masini detta Fabbro, che essendo accorsa a implorare misericordia per un suo figliuolo, impotente da cinque anni, che battevano sul letto dove fu trovato, venne conciata in quel modo.

Questi ed altri mille, che la penna rifugge dal più oltre narrare, sono orrori che si spiegano, trattandosi [p. 95 modifica]di un esercito formato di masse raccolte in paesi ignoranti e disgraziatamente ancora nella notte della barbarie, ma che diremo della disciplina militare di un tale esercito? Che cosa dei capi i quali non han saputo impedire simili efferatezze? che non han protestato contro di esse, nè in alcuna maniera le hanno punite? Forse forse le avranno essi stessi comandate!... Poiché era un ufficiale quello che a Sevegliano regalava ad un contadino, che gli aveva medicato il cavallo, il letto di Cirillo Gaspardis, calzolaio, a cui fu tutto saccheggiato, perfino gli strumenti del mestiere! Era un ufficiale quello che a Predemano s’appropriava l’uniforme dello studente Andrioli! Erauo due ufficiali quelli che nella notte del bombardamento di Udine, a Cupignano dov’erano accampati e dove tutto il giorno saccheggiarono, vedendo nell’osteria del Costantini la padrona in lagrime, e saputo che la cagione dell’immenso suo dolore era l’avere una figlia maritata nella città, la strascinarono fuori così piangente e desolata e l’obbligarono, nonostante i replicati deliqui a cui andava soggiacendo, ad assistere a tutta quella scena d’orrore, confortandola col dirle che fra poche ore Udine doveva esser ridotta un mucchio di rovine e tutti gli abitanti passati a fil di spada! Era un principe (così si narra da parecchi) quello che in casa Loschi a Vicenza apriva colle proprie mani gli armadi e ne traeva per suo bottino gli scialli e le gioie appartenenti a quelle signore! Era di mano di un generale il rescritto col quale s’instituiva possessore di una casa e di alcuni fondi in Jalmicco il contadino Domenico Bergamasco che li teneva in affitto dal barone Codelli di Gorizia! E si loda un esercito che non rispettò nè le sacrosante leggi dell’umanità, nè [p. 96 modifica]i diritti di proprietà, nè tampoco i propri capitolati, (e lo sanno Udine e Palma) nè le istituzioni civili del suo governo, perchè arbitrariamente ordinava ai nostri Comuni carri e uomini per suo servizio, arbitrariamente citava al suo tribunale quelli che sospettava avversi, e senza forma di processo emanava le sue sentenze. A corroborare il mio asserto valga il fatto del parroco di Pontebba, catturato proditoriamente, legato ad una carretta, in mezzo a due sgherri che gli tenevano due bocche da fuoco sul petto, e così condotto fino a Gemona; del cappellano di Svegliano, Daniele Nigris, parimente arrestato ad arbitrio e tenuto prigioniero per più di due mesi, durante i quali ebbe a soffrire ogni sorta di contumelie e d’insulti. Giunsero fino a sputargli in faccia e sul pane di cui miseramente si nutriva, a minacciarlo di fucilazione, a spaventarlo, a farlo alzare fin tre volte per notte, a radergli per dispregio i capelli, ecc. ecc.; del parroco di Ontegnano, Venturini, che, fuggito dalla canonica saccheggiata, e dopo qualche tempo lasciatosi persuadere a ritornarvi da reiterate promesse fattegli per bocca del troppo credulo Luigi Lestani, potè convincersi che gli si tendeva un tranello del quale sarebbe rimasto vittima, se per caso in quella notte fissata per il ritorno non si fosse fermato in casa del suddetto Lestani; poiché la canonica fu circondata da soldati, e un capitano, nonostante la data parola d’onore, fece sfondare le porte e a guisa d’assassino brandendo non già la spada, ma uno stile, cercava il prete in ogni angolo della canonica protestando di volerlo trucidare; del cappellano di Soleschiano, Pietro Spizzi, alla cui canonica nel giorno 18 luglio si presentava in persona il colonnello cavaliere Kerpan, i. r. comandante il blocco di Palma, [p. 97 modifica]col suo aiutante capitano Ikssek e con otto croati armati, e non trovatolo gli si lasciava un rescritto per cui, senza ricorrere alle autorità civili nè alle ecclesiastiche, gli s’imponeva di tutto loro arbitrio di presentarsi ad un costituto a Claujano. E un esercito macchiato di simili soprusi, di tante turpitudini, di tante infamie si acclama a Vienna e in seno alla Costituente si propone di rimeritarlo col premio dei valorosi? Oh sì! Fregiate a questi prodi il petto colla croce del merito: essi hanno bene meritato dalla patria! Le hanno conquistato una corona d’infamia che tutti i secoli venturi non arriveranno a sfrondare. Chiamateli pure invitti e valorosi! incoronateli pure d’alloro! Da tutte le nazioni incivilite s’innalzerà una voce d’indignazione che, mista ai gemiti di quattro milioni d’italiani conculcati, farà degna musica alla festa nazionale che voi loro apprestate! Io non ho mai guardato la statua di Napoleone circondato dai suoi militari trofei senza fremere. Mi pareva che da tutti quei vessilli, da tutte quelle innumerevoli foglie di alloro gocciassero le lagrime dei popoli, e, inorridita, tra mezzo ai pomposi emblemi della vittoria sentivo l’orribile puzzo del sangue. Pure Napoleone a tanta carne umana sacrificata poteva opporre qualche bel fatto d’intrepidezza, di coraggio, di strategia militare. Nella guerra d’Italia di quali fatti gloriosi possono vantarsi questi vostri generali che, seduti a tavolino tre o quattro miglia lontani dal campo di battaglia, comandavano l’incendio, il saccheggio, la strage?

  1. Dal «Giornale di Trieste» del 22 ottobre 1848.
  2. «Noi dobbiamo avere il Banato ed i confini militari per incorporarli nel nostro nuovo regno slavo. I Tedeschi pertanto devono ritirarsi verso Nassan e la Germania, i Valacchi nella Valacchia e gli Ungheresi nell’Asia, e a quelli che non vogliono andarsene troveremo ben noi un luogo». Parole di Nugent al colonnello Blomberg (Ved. «Giornale di Trieste, n. 5, 16 ottobre 1848).