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Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro ottavo/Capo secondo

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CAPO SECONDO

(Dall’anno 1743 al 1744.)

I. Il contagio attacca i sobborghi. Angustie pubbliche. Precauzioni di sanità. II. Sovvenzioni fatte da’ paesi vicini. Tremuoto. La pestilenza è in colmo. Lutti e miserie generali. III. Il morbo si attenua. Esorbitanze di Diego Ferri. Irritazione pubblica, che trascorre a tumulto. IV. La gente della Sbarra, di S. Lucia, e di S. Caterina si solleva. Fatti degli Sbarroti in Pellaro. L’arcivescovo s’interpone a paciare gli animi; ma non ne può nulla. Il deputato Giuseppe Genoese. V. Que’ di S. Caterina e di S. Lucia si appostano fuori della città. Loro minacce al governatore. Questi provvede alla difesa, e dà avviso al Preside in Scilla. Viene in Reggio il capitano Basta. Sue disposizioni. I rivoltosi, rompendo la porta di S. Filippo, si precipitano al Quartiere per impadronirsi del Ferri; ma ne sono ributtati da’ soldati Svizzeri. VI. L’Arcivescovo ritenta le vie della conciliazione. Franco Rodino gli risponde in nome di tutti i sollevati. Garenzie che costoro domandano. VII. Queste sono comunicate per iscritto all’Arcivescovo, e da lui a’ regii Ufiziali. Il Ferri dà buone parole, ed intanto spedisce corrieri al Preside per chiedergli solleciti ajuti. Bando del governatore, e preparativi a difesa. Condizione del Regno. Battaglia di Velletri.


I. Già il contagio si era steso irresistibile alla Sbarra, a Sasperato, a Valanidi, ed a tutte le terre propinque. E se nella Sbarra non fece gran danno, se ne dee merito alla previdenza e solerzia di Giacomo e Francesco Laboccetta, che veramente in questa occasione si com[p. 71 modifica]portarono con meravigliosa carità cristiana, pensando per tutti, ed a tutto provvedendo. Angustiata Reggio e dalla malattia e dalla fame, si rivolgeva per soccorso al governo. E finalmente al vigesimottavo giorno di agosto vennero due feluche, mandate dal Maony con duecento sacca di farina, per esser distribuita alla gente più povera. Ma ciò non era che poca cosa, rispetto alle grandissime necessità publiche. Crescevano intanto le miserie, crescevano colle miserie le tasse, che i sindaci erano costretti a sovrimporre per far fronte ai dispendii inevitabili in tali emergenze. Ed avvenne che molte persone, cacciate dall’estremo bisogno, e vedendo mal guardato il cordone della Mesa, lo infransero; e si fecero via nelle case di quelli ch’eran morti appestati, per buscarsi di che campare la vita. Ed impadronitisi delle provvigioni ivi trovate, parte tennero per loro, e parte vendettero ad altri necessitosi. Ma con ciò, mentre contribuirono in gran modo ad estendere l’infezione, non salvarono sè medesimi. Perciocchè il governatore saputo il reato, alcuni fece fucilare senza remissione, altri costrinse a far da becchini, ed a servire ne’ lazzaretti. Venivano mancando alla vita da sessanta a cento persone per giorno; e taluni diventavano così fatui, che faceva mestieri tenerli incatenati ne’ lazzaretti medesimi. La desolazione era massima: la peste e la fame infuriavano tremende e sterminatrici su’ miseri Reggini! Tulio confusione, tutto spavento; ed a’ morti di fame e di peste si aggiungevan quelli, che morivano giustiziati, o per aver violato il cordone, o per aver avuto contatto con persone infette. Ed assai sovente chi era infermo di altro che di peste veniva mandato a’ lazzaretti, e doveva, volesse o non volesse, morire di contagio.

Era al finir di settembre, ed il freddo fattosi gagliardo prima del solito, ajutava il lavoro distruttore della peste e della fame. Pareva la fine del mondo; piogge dirottissime crosciavano impetuose, e travagliavano quanto non può dirsi tanta gente che languiva stipata nei lazzaretti, ove l’acqua penetrava per ogni lato, e faceva lago. Le grida, i lamenti, i disperati aneliti, le preghiere, che movevano da quelle anime desolate, avevano forza di lacerare i cuori più arcigni. Le fiumane, soverchiando i loro argini, dilagavano le campagne, e si traevano al mare le fatiche di tutti; ed il Calopinaci era già per traboccarsi nella contrada di S. Filippo. Ma ecco che a due giornate di pioggia serrata e continua, succede una incantevole serenità e bellezza di cielo; il sole risorge in tutta la maestà del suo splendore sulle montagne di Calabria; ma risorge ad illuminare le miserie inenarrabili di Reggio sventuratissima! [p. 72 modifica]

Molte tartane cariche di viveri, accompagnate da un Brigadiere del Re, giungevano a’ ventiquattro di settembre nella cala di Pentimele. Recavano diecimila tumoli di grano, mille di farina, cento cantaja di cacio, altrettante di riso, e moltissime vaccine. Ogni cosa fu sbarcata e riposta in apposito magazzino; e valse poi a temperar tanto o quanto le angustie del popolo. Sovrastando l’inverno i sindaci videro necessario, che la gente, che aveva stanza in campagna dentro il cordone (ove non poteva farsi alcun riparo all’inclemenza della stagione) avesse ad esser traslocata in luogo men disagioso, e coperto. Si ordinò adunque a tutti quelli, che abitavano dalla chiesetta di S. Filippo Neri sino a S. Lucia, di vuotare dentro due giorni le lor case, e se nol facessero vi sarebbero costretti per forza. Fu necessità ubbidire, benchè di malissima voglia. E poscia a occhi veggenti de’ medici e de’ Deputati maggiori, gl’individui del cordone furon distribuiti in tutte quelle case vuote, avendoli però prima fatti svestire de’ loro abiti, lavarne le membra nell’aceto, e rivestirli di nuovi panni. Chiunque poi, stando per venti giorni nella nuova dimora, non soffriva alcun male, era abilitato ad uscirvi ed andarsene a posta sua; purchè non fosse in casa sospetta, e dentro la città. Per porre il lazzaretto in luogo più idoneo, fu intimato a’ pochi frati zoccolanti che stavano nel convento di S. Francesco d’Assisi, a doverlo sgombrare; e quivi subitamente furono trasferiti tutti gl’infermi. Li serviva ivi ne’ bisogni dell’anima e della persona il virtuosissimo Padre Francesco da Siderno, il quale adempiva con amorevole sollecitudine a tutti gli uffizii del sacerdote cristiano. I medici che con maggior premura e disinteresse prestaronsi a pro della pubblica salute furono Francesco Marrari, che rimase vittima del morbo, e Giacomo Smorto.

Essendo ormai scarse a’ bisogni le tasse già poste, altre se ne mettevano, e chi poteva ancor pagare, pagò; chi no, ebbe il carcere. Il male, ch’era scemato nella Sbarra, ripullulava; le provvigioni mandate dal governo erano già consumate. Gli amministratori però non cessavano di far procaccio di quante vaccine trovar potessero negli altri paesi di Calabria. Tra queste dolorose strettezze veniva il novembre; nè v’era speranza di posa, o di minor pena. Bandi a bandi succedevano, ed i deputati Paolo Ferrante e Francesco Filocamo attendevano istancabili a mitigare, per quanto era da loro, lo strazio comune.

II. Niuno era morto il giorno sette di novembre nel lazzaretto; onde que’ poveri infermi stando a speranza che il male fosse cessato, vi fecer festa grandissima con giulive conclamazioni, ed a suono [p. 73 modifica]di tamburi. E se non vi fossero stati varii casi nel borgo di S. Filippo, la speranza non era forse senza ragionevole fondamento; ma nondimeno ne’ giorni seguenti la mortalità riprese vigore nel detto borgo e nella Sbarra. Intanto la peste s’era interamente dileguata da Messina, e vi si stava facendo lo spurgo.

Il decimo giorno di novembre arrivò in Reggio un caricato di maccheroni e di lardo, che il Re inviava per distribuirsi a’ più bisognosi. Ed alle gravi necessità nostre non poco allora soccorsero le vicine terre; e meritano a preferenza di esser con grato animo ricordati gli Scillesi. I quali non passava quasi giorno che non spedissero una loro barca per aver contezza dell’andamento del morbo, e questa recava per ordinario frutta, legumi, ed altre cose simili per gli ammalati Reggini. Ingratissima (non taccio nè il bene, nè il male) si mostrò la terra di Santagata, i cui abitatori non solo non offerirono alcun loro soccorso, benchè minimo, a’ nostri; ma sequestrarono ancora con inaudita durezza i varii proventi che i Reggini solevano cavare dalle loro possidenze in quel tenimento. A sventura si aggiungeva sventura; chè a’ sette di dicembre un gagliardissimo tremuoto gittava nel terrore i cittadini, a’ quali era tolto potere uscir delle case loro a trovar salvezza. Gli edifizi però non ebbero che poche screpolature; ma ne venne assai guasto a molti paesi di Calabria, massime a S. Giorgio di Polistena, a Catanzaro, ed a Soriano, ove andò a rovina buon numero di case, ed assai persone ebbero prima sepoltura che morte. In decembre la pestilenza venne al colmo della sua intensità, e levò la vita a più che ottocento persone. I tempi andavano belli e sereni, nè pioggia alcuna aveva ricreata la terra dall’ottobre al termine dell’anno. Ma un freddo secco e mordente si metteva nelle ossa, e ti assiderava; onde a’ poveri, facendosi impossibile il sudore, diveniva tanta rigidità micidialissima. Fra questi lutti, fra questi prolungati ed indicibili patimenti giunse la vigilia del Santo Natale. In vece delle feste, e della popolare ilarità, solita in queste solenni ricorrenze, non vedevi nella città nostra che vie desolate, porte e finestre o murate o chiuse, cittadini di dolore e di stento quasi stupidi, uomini che recavano sembianza più di cadaveri che di esseri viventi. Altro rumore non ti feriva per via, che l’uniforme e lento passo de’ soldati svizzeri, che facevano la ronda; non altro vedevi che il supplizio mortale di qualche coppia d’infelici, caduti in colpa o di furto, o di aver violato il cordone. Unica consolazione era l’ammirabile Padre Francesco, il quale con insigne e paziente carità iva interrogando i bisogni degli ammalati, e confortandoli di parole soavissime, e de’ più umili servigi nelle loro [p. 74 modifica]tribolazioni. Della gente povera a chi campava dal male, dava morte il freddo, chi di freddo non moriva, doveva morirsi di fame. E veramente come potevano esser bastevoli alla vita poche once di pane segaligno, o un pugno di castagne e di legumi, che si dispensavano ogni giorno a tanta copia di affamati?

I campagnuoli erano ridotti a tale stremo da aver per unico cibo le ortiche, le malve, ed altre vili erbe; e chi poteva buscarsene una tantina, beato lui. I cittadini alimentavansi ormai di pane ed acqua; ed assai sovente anche l’acqua era scarsa o manchevole a chi non avea comodità di pozzo in casa propria. Ciò che rimaneva a’ ricchi non bastava a pagar le tasse, le quali eransi incomportabilmente aumentate; ed ogni cosa, di che abbisognavano per vivere, dovevano comperarsela a carissimo prezzo. A dir tutto, le cose erano precipitate nell’abisso d’ogni miseria: ed i furti divennero tremenda necessità di natura. Ma la suprema necessità della sicurezza civile puniva di morte inevitabile questa irresistibile tracotanza della disperazione; e questa disperazione spingeva moltissimi a procacciarsi la morte da sè stessi. Nè a tanti dolori conferiva poco la tristizia degli uomini, e la cupidigia di trar subiti e maledetti guadagni dal pubblico infortunio. Tristissimo tra tanti tristi era il Ferri governatore. Costui in vece di adoperarsi a far meno gravose le calamità de’ Reggini, pareva dilettarsi di renderle più funeste ed intollerabili. Per cose lievissime ordinava supplizii e rigori massimi, ora che non poteva farsi più schermo al male. E pure, si era mostrato così arrendevole e spensierato quando all’incipienza del contagio avrebbe potuto metter ritegno con savii ed energici provvedimenti, e con punizioni immediate! Aggiungi a questo la fiacchezza e timidità dei sindaci e dei deputati, i quali non osavano per cosa del mondo far rimostranza ed opposizione alcuna alle spietate opere del Ferri. E spesso, non sapendo disdirgli, si facevano complici delle costui oppressioni. Onde a tanti mali non si vedeva più termine: ed i rimedii o intempestivi o troppo indugiati, senza por modo all’infermità, pesavano penosamente su tutti. Reggio infelicissima pareva interamente abbandonata da Dio, e gittata alla balìa di pochi scellerati, che così reo governo ne facevano. Così finiva il 1743, ma non finivano con esso le sventure di Reggio.

III. La pestilenza ne’ primi mesi del nuovo anno (1744') continuò sì, ma sempre attenuandosi di maniera, che per ordine sovrano quegli operai veneziani, che avevano fatto lo spurgo di Messina, passarono in Reggio a farvi il medesimo. A costoro furono aggiunti taluni condannati, che avevano servito gli appestati di Messina e [p. 75 modifica]n’erano usciti illesi. Non può dirsi a parole quale sia stata l’allegrezza de’ Reggini, a’ quali tardava di veder fatto lo spurgo de’ luoghi infetti, e di sottrarsi ai travagli del morbo. Ma la speranza andò in fumo, e permise Dio che l’umana malvagità protraesse all’infinito le ambasce di Reggio. I giorni passavano, e lo spurgo, che sempre si prometteva, non si faceva mai. Nè le vessazioni avevano misura; ed i regii uffiziali, che si eran congiurati a tirare a proprio vantaggio la sventura pubblica, parevano non di altro occupati che d’inasprirla quanto più potessero. Imperciocchè le gravezze fiscali, che mai non finivano, anzi crescevano, in luogo di tornar soccorrevoli all’indigenza, non facevano che vôtar le borse de’ cittadini per empir quelle del Ferri, e de’ suoi confidenti e scherani. Di che la citta tutta cominciava a fare manifesto risentimento, ed imputava al Ferri la continuazione di tanti mali, ed a’ sindaci, che non sapevano o volevano ripugnare alle costui prepotenze.

La malattia era affatto cessata nella contrada della Sbarra, e quegli abitanti avevan messo un rigoroso cordone per tagliare qualunque comunicazione colla città, dove tuttavia durava, benchè lento e rado, il contagio. Ma il Ferri permetteva che le sue squadre ed i suoi birri potessero impunemente rompere quel cordone, e penetrar nella Sbarra. Di ciò grandemente si querelavano gli Sbarroti, e dicevano contro il governatore cose di fuoco. Nè può imaginarsi quanto sia cresciuta l’ira loro, allorchè per cagione del birro Cosimo Pavone, si riaccese la peste in quella contrada. Ciò sapeva il Ferri, e mostrava goderne. Pure per ammorzare in parte lo sdegno degli Sbarroti, non volle o seppe trovare altro spediente che far condurre i loro ammalati nel lazzaretto della città, ove nessuno era morto da parecchi giorni. A distorto da tal pessimo e funesto consiglio, non ebbero forza le forti rimostranze di Pietro Pollacco, direttore dello spurgo; nè le preghiere de’ sindaci, nè le vive proteste della città tutta quanta. Perilchè l’odio pubblico, ch’era già grande contro il governatore, non ebbe più misura. E ben egli sel sapeva, ma la pubblica abominazione, in cambio di assennarlo, il rese più incaponito e perseverante nel pensiero del male. Questi nefandi procedimenti del Ferri fecero riardere l’epidemica lue di contrada in contrada, quando pareva spenta per sempre. E lo spurgo, tanto aspettato e promesso, non mai si faceva; e da queste cagioni il malumore de’ Reggini prendeva alimento e gagliardia. La loro sofferenza non poteva più durare a queste ultime provocazioni; ed a prorompere a sollevazione aperta non aspettava che un incentivo: il quale non mancò. [p. 76 modifica]

Correva il secondo sabato della festa della Madonna della Consolazione quando approdava in Reggio una barca proveniente da Scilla, e recante un piego di lettere al governatore. Trovandosi tutti gli animi assai esasperati contro il Preside ed il Ferri, agevolmente congetturarono che quelle lettere contenessero qualche risoluzione a pregiudizio della città. Ed uscì subita voce che la detta barca dovesse trasportare altrove tutti gli oggetti così di argento come di oro, che si trovavano presso Antonio Megali, posti in pegno a vil prezzo per aver modo di pagar le tasse: i quali pegni formavano tutto l’avere ed il capitale di un gran numero di cittadini. A queste dicerìe dava faccia di verità il vedere che la barca non si risolveva a partire; e susurravasi anzi che la prossima notte era già posta al trasferimento dei pegni. Per questa ingrata notizia, e per l’odio che si covava grandissimo contro il Ferri (il quale continuava a non volere che lo spurgo si facesse) furono primi a commuover gli animi due Padri Cappuccini Anselmo Bosurgi da Reggio, e Basilio da Santagata. Costoro eccitarono con calde parole gli abitanti della Sbarra, di S. Lucia, di S. Caterina e di Archi ad unirsi a’ cittadini, e quella notte medesima opporsi armata mano al tentativo meditato. Palle e polvere furono celeremente distribuite a tutti; ne fu persona atta alle armi che in poco d’ora non si provvedesse di queste, e di quanto altro fosse bisognevole a conseguire l’intento. Fu convenuto che una forte mano degli abitanti delle vicine terre dovesse in sulle ore cinque della prossima notte appostarsi dietro le porte della città. Ed in quel medesimo i cittadini di ogni ceto dovessero pigliar le armi, spalancar le porte, e levarsi tutti concordi ed in un tratto contro il mal governo del Ferri. I deputati maggiori Paolo Cumbo e Gaetano Musitano erano tra’ più caldi istigatori del movimento popolare, e facevano i bravacci, e sbottoneggiavano. Intanto era stata fatta prevenzione al Megali che non dovesse per cosa del mondo consegnar que’ pegni a chicchessia. La comune sventura aveva affratellati i nobili a’ popolani; i quali già da gran pezza non facevano più causa comune, anzi si astiavano per ogni nonnulla. Di questi segreti maneggi ebbe qualche fumo il governatore, e prevedendo ciò che sarebbe succeduto, chiese soccorso di soldatesca al Comandante della piazza. Ma questi per non aggiunger esca alla comune irritazione, non volle condiscendere in quel subito alla fattagli richiesta.

IV. Alle tre ore della notte la gente della Sbarra, ch’era un mille persone ben armate e preste di mano, s’incamminò verso la porta di S. Filippo, ove le si congiunse ivi a poco la gente armata di S. Lucia. Questa nel primo tratto era discesa al lido, ed avea costretta [p. 77 modifica]a partire quella barca scillese, che per ordine del Ferri stava sulla Punta de’ Giunchi pronta alla vela. Fu ivi da que’ paesani arrestato un soldato dell’Udienza provinciale, che vi stava alla guardia. Contro cui erano costoro irritatissimi, perchè quel giorno stesso aveva malmenato assai duramente un povero paesano, andato ivi presso alla pesca. Questo soldato adunque, avuti prima schiaffi in buon dato, fu poi legato ad una colonna sullo spianato della chiesa di S. Francesco di Paola. Appressatasi l’ora posta di entrare in città, credevano di trovarvi pronti all’opera que’ di dentro; ma dati i segni convenuti, nè le porte si aprivano, nè sentivano o vedevano persona. Ebbero un bell’aspettare; tutto dentro era silenzio profondo. Cominciarono allora a temere di qualche tradimento; e non indugiandosi più oltre, si allontanarono, e tornarono alle lor case, senza però deporre le armi. Anzi gli Sbarroti vollero sfogarsi, e torcendo il cammino per Pèllaro, e squarciando il cordone di questa contrada, corsero minacciosi contro il conte Stella. Il quale stando ivi deputato a vegliare tal cordone, poco di ciò si curava; ma era tutto a far sue le rendite de’ proprietarii locali. Abitava costui nella casa del nobile reggino Francesco Bosurgi; e gli facevano compagnia Francesco Gullì, Andrea Nava, ed altri reggini, che davano mano alle sue oppressioni, e venivano a parte dei disonesti guadagni. A tal casa si diressero a furia gli Sbarroti, ed accerchiatala di fascina, vi ficcaron fuoco. Chi v’era dentro, quando cercò di fuggire, cadde nelle mani loro: onde lo Stella, il Gullì, ed il Nava furono strettamente legati, e condotti come in trionfo alla Sbarra sul largo del Convento de’ Riformati; dove quella gente sollevata ed in armi si raccolse, e fece festa.

Di questo tratto degli Sbarroti come andò notizia al Ferri, n’ebbe seria paura, e desiderò che i sindaci si tramettessero a sedare il tumulto. Per mediatore fu prescelto l’Arcivescovo, il quale accettò assai volentieri questa nobilissima missione. Intanto il Comandante della piazza fu previdente a rinforzar la guardia della porta Amalfitana. Le pattuglie e le sentinelle furono raddoppiate, specialmente dove le mura della città erano più fiacche. Fu turata la porta Crisafi, e data al governatore una buona brigata di soldati a sua personal difesa. Oltre di ciò il Ferri fece premura al patrizio Giacomo Laboccetta, il quale era deputato della Sbarra, che si adoperasse, perchè quegli abitanti ponessero giù le armi, e si quietassero. Ma il Laboccetta, non volendo brigarsene, per bel modo se ne schermì. Il dimane uscì l’Arcivescovo per la porta di S. Filippo, e prese via per la Sbarra. Giunto allo spianato dei Riformati lo trovò gremito di gente armata di tutto [p. 78 modifica]punto, in mezzo alla quale stavano legati il conte Stella, il Nava, ed il Gullì. Ispirato allora dal suo divino ministero cercò insinuare a quei sollevati sentimenti di pace, promettendo ad un tempo soddisfazione alle loro ragioni, e dimenticanza dell’avvenuto. Ma nulla potettero le sue parole in quegli animi concitati: e Domenico Valentino, parlando in nome di tutti, espose in breve le querele di quella gente, e come ormai non vi fosse altro mezzo che le armi e la forza per liberarsi dalle ostinate ribalderie del Ferri. I sacerdoti così regolari come secolari stavano anche col popolo, e ripetevano vivamente quanto avevano sofferto durante la pestilenza sotto il feroce governo di quel tristo. Si ritenne forse il Ferri, dicevano, dal conculcare empiamente sino la stessa dignità ecclesiastica; dignità che il Prelato, per soverchia mitezza, non aveva saputo sostenere contro i protratti insulti della civile autorità? Pensi a questo l’Arcivescovo, e vegga quanta ragione sia in loro, quanta malizia nel Ferri. Così dunque il Prelato dovette ritornarsene in città senza alcun successo, e col dolore nell’anima. E recatosi senza indugio alla mezzaluna della Porla Amalfitana, ove il governatore ed il comandante stavano ansiosi ad aspettarlo, disse loro come le sue calde esortazioni, ed anzi preghiere, non avessero partorito alcun effetto.

Ma al governatore davano animo la Deputazione ed i sindaci, assicurandolo che avrebbero fatta ogni loro possa per indurre a sentimenti conciliativi que’ masanielli, e farli stare a ragione. Tra questi deputati, che con più ardore offerivano al Ferri i loro buoni uffizii, notavansi quel Paolo Cumbo, e quel Gaetano Musitano, dalle cui bravate aveva avuto maggiore spinta la pubblica commozione. Ed ora, vestendosi un’altra persona, si facevano al Ferri svisceratissimi, e pronti a versare il loro sangue per lui. Dopo mangiare, un sindaco e con lui il patrizio Giuseppe Genoese, ch’era della maggiore ed il più anziano, mossero per la Sbarra; e seppero dir tanto da persuadere agli insorti che deponessero le armi, restituissero in Pellaro il Gullì ed il Nava, e libero in tutta la Sbarra lasciassero il conte Stella; con divieto però che egli non potesse uscir fuori di questa contrada. In cambio fu loro promesso di sollecitare lo spurgo senz’altri pretesti: d’inibire severamente al bargello, ed a qualunque altra persona l’entrata nel cordone della Sbarra; e di fare in ultimo che il regio cordone fosse trasferito all’oliveto della Motta, acciocchè agli Sbarroti rimanesse libera l’andata a’ loro poderi verso mezzodì. Così pareva ogni cosa composta; ma non sapevano costoro che il Ferri sotto quel benigno e tranquillo viso covava i semi di una vendetta piena, e non lontana. [p. 79 modifica]

V. Restava che si vedesse di ammorzar l’ira de’ parrocchiani di S. Caterina, e di S. Lucia; i quali elettisi a caporali Saverio Pileci, Giuseppe Spanò, Petrillo Musitano, ed Antonio Cilea, non si spostavano dalle armi, ed erano circa un migliajo. Costoro, tenendosi più al duro che non avevano fatto gli Sbarroti, domandavano lasciarsi libera l’introduzione de’ commestibili nelle contrade loro, e senz’altro ritardo o scusa effettuarsi lo spurgo. Ed in quel medesimo che gli Sbarroti deponevano le armi, que’ di S. Lucia e di S. Caterina (i quali avevan per fermo che le promesse fatte artatamente ai primi non sarebbero attenute dal governatore) si dirigevano verso porta Mesa, e schieravansi dietro le muraglie della Candelora e di Crisafi. Donde mandaron minacciando al governatore che darebbero ferro e fuoco ad ogni cosa, qualora lo spurgo non fosse loro accordato in sull’istante. Gli amministratori regii frattanto, e tutti quelli, a cui faceva agra impressione questo cipiglio de’ Catarinoti e Lucioti, videro necessario contrapporvi una forza bastevole a comprimere qualunque trascorso dalle minacce a’ fatti. Per la qual cosa provvidero che al venir della notte tutta la gente atta alla difesa, tra nobili, civili e popolani, si raccogliesse sopra la mezzaluna di porta Amalfitana, e stesse presta ad ogni bisogno. Poichè pareva certo, dicevano, non altro essere il proposito di quella sedizione, che di mettere a rapina e ad incendio le robe de’ cittadini.

Si scrisse inoltre segretamente al governatore de’ casali Giuseppe Mendozza, come pure agli uffiziali del cordone regio, che si affrettassero a recare ajuti in città. E mediante una barca che da Bova, passando per Reggio, navigava a Scilla, fu data relazione al Preside delle istanti turbolenze, e chiestigli solleciti soccorsi. Ma usando co’ faziosi maniere coperte e palliative, il governatore si fece alle mura della città, e li esortò quasi pregando che volessero per allora ritirarsi alle loro borgate tranquillamente. Egli intanto si confiderebbe di acconciar le cose per forma, che le loro domande potessero esser soddisfatte. Dall’altra banda aveva cura di rinforzar le guardie interne colla compagnia degli artiglieri urbani, in tutti que’ punti che ricercavano maggior difesa. Poi verso due ore di notte si ridusse in sua casa, accompagnato dalle Deputazioni maggiore e minore, dai sindaci, e da quanti altri gli erano aderenti e soggetti. Come prima il Preside ebbe in Scilla notizia del tumulto reggino, per conoscere più a minuto e con precisione ogni cosa, spedì in Reggio con una feluca il capitano Basta suo fratello, affinchè ne pigliasse esatta informazione. Giunse qui il Basta, e prese terra di là da’ Giunchi presso il casino del cavalier Nicola Parisio. Il quale ospitandolo con molta cor[p. 80 modifica]tesia ebbe a divisargli che principal cagione e fornite di quelle turbolenze era il deplorabile stato in cui quella gente gemeva già da quattordici mesi: sequestrata per forza nelle proprie case, e condannata a finir di stenti e di miserie. E ciò per il mal governo di pochi tristi, che in vece di alleviare la sventura pubblica, avevano diletto a gravarla. E sostenne anzi il Parisio, in faccia allo stesso governatore ed al comandante della piazza (ivi venuti a fare accoglienza al fratello del Preside) non esser vero che l’ammutinamento popolare fosse, com’essi volevano dare ad intendere, contro il Sovrano; sibbene contro chi si opponeva pertinacemente allo spurgo, sempre desiderato con impazienza da’ cittadini, e sempre aggiornato dal Ferri. Nè ciò era da far meraviglia; che costui trovava il suo buon conto in quello stato eccezionale di cose. Dopo questo il Basta, cedendo all’istanza del Parisio, restò a pernottare in quel casino; ed il Ferri seguito da’ suoi cagnotti si ritornò dentro la città.

Alle asserzioni del Parisio, furon conformi quelle del cav. Felice Laboccetta: e poichè questi due nobili cittadini avevan nome di molta probità, ed eran riveriti ed amati da’ più, non poco effelto produssero sull’animo del Basta le loro parole, dettegli con tanta franchezza e vivacità. Onde costui, consigliatosi colle deputazioni, diede ordine che si schiudessero le porte in tutti i rioni della città, e che a tutti nel proprio rione fosse libero il conversare, ed il visitarsi. Questo fece echeggiare per tutto un grido unanime di gioja, non parendo vero a’ Reggini che finalmente potessero aver termine tante fiere e diuturne oppressioni. Queste misure non garbavano a’ sinistri disegni del Ferri; pure egli s’infingeva, e si dimostrava lieto in volto: ma come dentro stesse, e che pensieri meditasse, il vedremo fra breve. Di queste provvisioni però non si appagava il commosso spirito degl’insorti, i quali la mattina appresso facendo via verso il cordone di Vito e dell’Archi, dettero il fuoco a tutte le casotte che vi erano, ed abbattendo quanto loro veniva in mano, facevano coraggio a que’ terrazzani che loro si unissero, e concorressero tutti d’un animo a strappar la città dalle unghie del nuovo Nerone, ch’era Diego Ferri. Fattosi in picciol’ora un assembramento popolare sulle pianure di Vito, si andaron proponendo parecchi modi per poter avere in mano il Ferri, ed il suo assessore Angelo di Simone. E per il mezzo di un cavaliere reggino si aprì maneggio d’indurre il Comandante della piazza a chiuder gli occhi e lasciar fare: ed a non mostrarsi sollecito di dare al governatore alcun soccorso di truppa svizzera, qualora e’ ne facesse richiesta. Nè si penò molto ad aver tale promessa sottomano, e dagl’incauti si credette sincera; poichè [p. 81 modifica]sapevasi di certo che il Comandante non guardava di buon occhio il Governatore, il quale non gli avea risparmiati, quando occorse, nè soverchierie, nè sgarbi. E contuttochè i più scaltri tenessero poco a capitale questa promessa, e stessero anzi in forte dubbio di qualche agguato; nondimeno lasciaronsi trarre a prestarvi fede dall’osservare ch’egli avesse fatto ritirar nel castello un buon nerbo di soldatesca, che aveva in guardia quella parte del Quartiere, dove il Ferri aveva mutata la sua dimora.

I sollevati adunque, promettendosi leggermente che non avrebbero ricevuta alcuna briga dalla guardia svizzera, nel dopo pranzo del giorno di S. Lorenzo avviarono una sola banda di centocinquanta uomini dei più risoluti (ed armati quali di schioppi, e quali di ferri adunchi e di bastoni) verso la porta di S. Filippo. Guidavanli Pietro Musitano ed Antonino Cilea, e rompendo questa porta a colpi di scure si misero nella città, ed i cittadini chiamarono alle armi ed alla vendetta. Questa banda, ingrossatasi di nuova gente che da fuori e nella città vi traeva a secondarla, si divise in due drappelli, de’ quali l’uno corse al Quartiere per metter le unghie addosso all’odiato Ferri. Ma quando fu presso al portone videsi assalito d’improvviso dagli Svizzeri ch’eransi ivi appostati ad urtar que’ temerarii. Nè il conflitto durò a lungo, perchè i sediziosi erano in piccol numero, non preparati a quel riscontro, e scoperti; mentre gli Svizzeri cominciarono a sparar coperti dall’interno del Quartiere con fuoco concentrato e sicuro. I paesani perciò furono messi in fuga, e lasciaron nella zuffa quattro de’ loro; cioè due morti, e due gravemente feriti. Come tosto si dileguarono dalla città, si accorsero non poter ritornare al grosso della loro gente senza incontrarsi nelle cannonate del castello. Piegaronsi quindi nella Sbarra, dove non solo ebbero buona accoglienza, ma promessa altresì che quegli abitanti avrebbero riprese le armi per tornare insieme alla prova. Volevano vendicarsi del tradimento, e della perdita de’ compagni. Gli Svizzeri non perseguirono i fuggitivi fuori della porta, ma acconciatala alla meglio su’ rotti gangheri, si appostarono dietro di essa e sopra le mura della città; donde spiavano le mosse de’ rivoltosi, brulicanti ed agitantisi sulla via della Sbarra. Intanto la più parte de’ cittadini si era affrettata a chiudersi dentro le case, e tutte le strade della città restarono deserte e silenziose.

VI. Il Governatore, ch’era più morto che vivo, come vide che la baruffa era succeduta bene, riprese fiato: e chiamati a se i sindaci e la Deputazione maggiore fece ressa che pregassero l’Arcivescovo a ritentar le vie della conciliazione presso i sollevati, colla promis[p. 82 modifica]sione d’un indulto generale e pienissimo. Il buon Prelato non si negò a questo difficil carico, e messosi tosto nel suo carrozzino si trasferì alla porta S. Filippo, dove stava ad aspettarlo tutta l’uffizialità, tranne il Ferri che non volle uscirsi di casa. Giunto l’Arcivescovo allo spianato dei Riformati, ove cogli Sbarrati avevan fatto massa i Catarinoti ed i Lucioti, seppe ch’eran già presti a correre e far impeto contro la città; e doveva condurveli il nobil Franco Rodino, uomo di provata bravura ed arditissimo, il quale con altri suoi due fratelli avea servito parecchi anni da uffiziale nell’esercito del Re di Piemonte. Al primo apparir del Prelato, il Rodino gli andò incontro, e seco tutte le persone più segnalate di quella contrada. Costui, parlandogli con molta riverenza e moderazione, espresse a chiare note, senza andar per diverticoli, la comune avversione non contro il solo Ferri, ma eziandio contro la Deputazione. E protestò che gl’insorti non declinerebbero dal loro proposito, se non a patti che s’incominciasse lo spurgo di presente. Senza di che, torrebbero meglio il morire colle armi in pugno, che il durare più avanti la vita in condizioni tanto misere, tanto incomportabili. Nè il Rodino si astenne dal mordere vivamente il Comandante Burgati e gli uffiziali; a’ quali coll’aiutante della piazza Nicola Fallucci mandò dicendo ch’e’ non tarderebbe a punirli della loro perfidia. Rifiutarono gli ammutinati l’indulto che l’Arcivescovo offeriva loro in nome del governatore, e solo gli promisero che, a suo special riguardo, avrebbero per quella sera soprasseduto dall’andare in città. Anzi per argomento che non parlavano fuor di ragione ed a sproposito, e che stavano levati sull’armi unicamente per ottener lo spurgo, e toglier di mezzo il pessimo governo del Ferri, porsero a Monsignore uno scritto di diciassette articoli, contenente le garanzie ch’essi chiedevano. Su di che fra ventiquattro ore aspetterebbero una risposta nè ambigua, nè fraudolente o evasiva.

Questo curioso documento, che mi piace qui trascrivere di parola a parola, non sarà sgradito a chi mi legge.

«Punti che si domandano in nome di tutti i Nobili, Civili e Plebei della Sbarra.

1. Diego Ferri, per essere inesperto, in vece di governar bene pone in rovina li poveri vassalli di Sua Maestà (Dio guardi) pretendendo distruggerli lutti con farli morire di penuria, e se non fosse stalo per il suo mal governo, li morti non averebbero arrivati nè meno al numero di mille; onde non deve governare.

2. Per far vedere quanto sia la loro fedeltà presso S. M. (D. G.) vogliono per governatore politico e militare il signor Comandante [p. 83 modifica]Colonnello Giuseppe Burgati, persona militare, e come tale più interessato de’ vassalli di S. M. e de servizii Reali.

3. Ed affinchè niuno fosse col tempo calunniato nella richiesta della libertà, per la quiete comune si dia dal Vicario generale Conte di Maony un indulto generale con parola regia da pubblicarsi subito.

4. Per non perire al solito di fame vogliono la comunicativa di dentro il cordone regio, giacchè per la grazia di Dio cessò il male da un pezzo, e dal principio non fu ferale.

5. Vogliono la libertà di tutti li carcerati che godono l’indulto di S. M., e per la pertinacia e tirannia di esso Diego Ferri non furono finora scarcerati.

6. Affinchè Iddio non ci perseguitasse co’ flagelli, che si scarcerassero li Ecclesiastici e Religiosi; per qual motivo incorsero molti le censure, e ne fu causa il Governatore che ne faceva più conio delli sbirri che delli Ecclesiastici, e mostrò chiaramente non aver rimorso di coscienza, ed essere eretico nel dominio di S. M. Cattolica (D. G.), e scoperto per tale non può, nè deve più governare.

7. Per non patire interessi l’Università, e pregiudizio il pubblico, che dagli spurgatori si facesse subito lo spurgo, perchè è imminente l’inverno, la gente è nuda, e si morirà per il freddo.

8. Che le spese sinora fatte in paga de’ spurgatori non andassero in danno dell’università, ma del detto Diego Ferri che impedì da tanto tempo lo spurgo.

9. Che li pegni di oro e di argento, li quali sono in potere di Antonino Megali si dessero in deposito a Mons. Illustrissimo, perchè sono il duplicato di quanto è il debito, e con secondi fini furono apprezzati di minor prezzo, e fintanto non si pagherà il giusto, fossero tenuti in potere di detto Monsignore Arcivescovo.

10. Che detto don Diego Ferri dia conto dell’amministrato al detto Comandante, preceduta la nomina dei Razionali, e che le querele si ricevessero dal detto signor Comandante, secondo il privilegio della città.

11. Che il signor don Paolo Cumbo, ed il signor don Gaetano Musitano non potessero in avvenire esercitare uffizio alcuno della salute, stante loro animarono la gente alla sollevazione, e poi si unirono col detto don Diego Ferri.

12. Che niuno delli famigli potessero esercitare uffizio nella Corte, specialmente li forestieri, e li uffiziali di Segreteria Angelo di Simone, Francesco Romeo, e Michele Cama. [p. 84 modifica]

13. Che li due aggiutanti delli sbirri, Giuseppe e Domenico Laganà fratelli, si mettessero in sicure carceri per dar conto alle molte querele che si daranno da’ particolari per il loro mal oprato.

14. Che non si potessero ammettere persone inquisite e foriudicate al servizio della Corte.

15. Che fussero sovvenuti quelli che non hanno pane, come sono molti galantuomini e civili che non hanno grano e si morono di fame.

16. Che nella contrada l’Archi fusse tolto quel forestiero da capitano, e fusse fatto un paesano.

17. E per ultimo che tutto quello si fece e si fa, è per il bene pubblico e servizio di S. M. (D. G.) dichiarandosi tutti prontissimi di spargere il proprio sangue per servizio di S. M. il nostro Re, per dove comanda, anche fuori del Regno, e per togliere il pubblico dall’oppressione.

Reggio, in contrada li Riformati, li 10 agosto 1744.


VII. Queste ardite pretensioni, così come le avevano formolate l’insorti, furono recate dall’Arcivescovo al Comandante della piazza, Sindaci, e Deputazione maggiore, che stavansi ad attendere il suo ritorno nel largo di S. Filippo, per vedere come finirebbe la cosa. Anzi il Prelato e’ proprio le lesse loro a voce alta, e poi ricapitò quello scritto al Governatore, che se ne stava circospetto in sua casa. L’attitudine ferma e minaccevole de’ tumultuanti, ed il tenore de’ sopradetti capitoli misero al Ferri una gran febbre addosso, ed un sudor freddo. Cercare ajuti al Preside era inutile, inutile cercarne al governo, il quale impigliato nella guerra coll’ Austria aveva richiamate tutte le forze alle frontiere, e sguernite quasi al tutto le provincie, nelle cui piazze non erano rimasti che debolissimi presidii. Bisognava adunque premer la rabbia, che gli logorava l’animo indocile; bisognava baloccare i turbolenti, ed aspettar tempo. Disse perciò con mansuete parole che voleva accordar tutto, e poichè il piacer del popolo era cosiffatto, rinunziar voleva al suo uffizio. Queste cose diceva il Ferri, ma quelle che si pose ad operare furono delle dette assai diverse. Indettatosi col Burgati convennero di spedire a Scilla un altro corriere per far manifesto al Preside il grave pericolo in cui versava la città, e loro medesimi. Dopo questo pensò il Ferri al fatto suo, mettendo in sicuro ogni sua masserizia in casa del Maestro Portolano Tommaso Piconiero, e ritraendosi la notte con Angelo di Simone, ed altri suoi satelliti nel Castello. La dimane, mentre faceva sperarsi all’Arcivescovo una soddisfacente risposta da re[p. 85 modifica]carsi agl’insorti, il governatore dal Castello ove stava, gittando gli occhi alla volta della Catona, si accorse che tre feluche, una galeotta, ed un pinco, navigando marina marina a sinistra, prendevano l’abbrivo per Reggio. Ebbe allora certezza essere su que’ legni il Preside, che conduceva il soccorso atteso con tanta ansietà. Gli era entrato sì gran giubilo, che non vedeva più sè medesimo, e fece il Comandante della piazza desse bando, che niuno, pena la vita, avesse ad uscir di casa, e chi fosse per via dovesse spacciatamente ritirarsi. Fu ordinato chiudersi la porta Amalfitana, tener sotto veduta, nè far che si assentassero dalla città, tutti quelli che si erano chiariti avversi al Ferri, o poco amorevoli. Questo bando fu gridato al suono del tamburo militare; e molta parte de’ fucili e delle altre armi ch’erano nel Quartiere furono traslocati nel castello, come in luogo più acconcio. In varii punti della città si rizzaron trincee a tutta fretta; parecchie strade furono barricate; i cannonieri appostati sulle batterìe, e pronti a far fuoco. Pareva che qualche gran foga di nemico esercito stesse per precipitarsi a sterminio di Reggio. Con questi simulacri voleva il Ferri dare a credere al Preside che il minacciato tumulto non avesse quello scopo stretto e locale che si pretendeva, ma fosse precursore di una general sollevazione, preparata nello Stato dalle mene dell’Austria.

Maria Teresa d’Austria era allora in guerra con mezza Europa. Ed in questo anno 1744 si vide la povera Italia conquassata dalle armi proprie, e dalle straniere. Gli Austriaci, capitanati da Cristiano principe di Lobkovitz, avevano combattendo respinto gli Spagnuoli sin dentro il Regno di Napoli. Carlo Borbone sapeva pur troppo quanto l’Austria fosse tuttavia cupida di ritogliersi questo Stato, e di fare impossibile ai Borboni di Spagna e di Francia ogni dominio in Italia. Vedeva intanto questo Re l’esercito spagnuolo cacciato a furia ne’ suoi Stati, sprovveduto di tutto, brullo, abbattuto; vedeva vittoriose le armi di Maria Teresa; in Napoli gli animi quali fiacchi per anticipata paura, quali di fede assai dubbia, o apertamente inchinevoli all’Austria, e desiderosi di mutazione di governo. Sapeva inoltre che la peste, travagliando tuttavia parte di Calabria e di Sicilia, teneva sgomentati i popoli, e male atti alle fatiche ed a’ disagi della guerra. Tutte queste considerazioni facevano agitata la mente del re, e de’ suoi consiglieri, nè sapevano pigliar partito. Intanto Maria Teresa, spinta dalle facili promesse de’ fuorusciti napolitani, si gittò alla guerra contro Napoli; e mandò ordine al Lobkovitz che si sollecitasse ad invaderlo.

Re Carlo prese coraggio e determinazione dal pericolo, e si diede [p. 86 modifica]animoso a rintuzzar l’arto delle nemiche armi. Ammassò soldati, armi, viveri da ogni parte, e quanto meglio e più presto potette. Sicchè l’esercito napolitano unito agli spagnuoli non era inferiore all’oste austriaca. Volle il re che i nostri, prevenendo il nemico, marciassero nello Stato pontificio ad affrontarlo. Campo alla battaglia fu Velletri; nè pareva che l’impetuoso avversario potesse esser trattenuto dalle nostre forze. Dubbio ed angoscioso fu il cimento; ed il duca di Castropignano, che comandava le armi napolitane, fu in questi supremi frangenti capitano valorosissimo. La possa austriaca fu fiaccata a Velletri; splendidamente vittoriosi i nostri; salvato lo Stato. Queste cose avvenivano in agosto 1744, e da esse, sapute velocissime a Reggio, crebbe tanto l’animo a Diego Ferri, quanto andò mancando a’ sollevati.