Storia di Torino (vol 1)/Libro I/Capo IV

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Capo Quarto


Annibale passa le Alpi ed espugna la città de’ Tavrini.


Poco fidandosi i Romani de’ Boi e degli Insubri, costrussero in mezzo ai paesi da loro occupati Pia­cenza e Cremona, e vi stabilirono colonie l’anno 218 prima di Gesù Cristo. Fu quella ai vinti nuova oc­casione d’insorgere e di contrastare, fu la cagion principale per cui rivolsero le loro speranze e le loro lusinghe verso Annibale, che avea da tre anni cominciato in Ispagna la guerra contro agli amici e confederati del popolo Romano, e soddisfaceva a quel giuramento d’odio immortale contro a Roma, ch’egli, fanciullo di nove anni, per ordine del padre Asdrubale, avea prestato sui sacri altari. Amor di patria, che or pur troppo non è pel maggior numero che un tepido affetto, era allora una passione gigante. Annibale avea perpetuamente avanti agli occhi Car­tagine sua spogliata dell’impero de’ mari, delle isole che fan belle Fonde tirrene, costretta a vergognoso tributo, essa lungamente assuefatta ad imporne.

[p. 38 modifica]Giovane di venticinque anni, di gran cuore e di mente ancor più grande, Annibale meditava la con­quista d’Italia e trovava simpatie fra i popoli Cisal­pini recentemente debellati dall’aquila latina. Aderivangli i Boi, gli Insubri, i Cenomani. I Tavrini, che erano in guerra cogli Insubri, e che forse, meno mescolati coi Galli, conservavano maggior sentimento dell’antica civiltà ligure, e per ciò stesso apprezza­vano meglio il benefìzio della civiltà romana, respin­sero costantemente le sue proferte.

Dopo l’eccidio di Sagunto, Annibale, che i Romani credevano ancora sull’Ebro, giunge rapidamente, improvvisamente sulle rive del Rodano, simile anche in ciò ad un gran capitano de’ tempi moderni. Era la metà d’ottobre; e mentre Publio Cornelio Scipione l’aspetta lungo quel fiume, dovè crede debba deci­ dersi la somma delle cose, il Cartaginese leva il campo improvviso e si spinge verso le Alpi. Anni­bale giunge co’ suoi elefanti, colle sue genti avvezze al clima dell’Africa, colle fosche e seminude tribù del deserto appiè dei gioghi dirupati e nevosi il 31 d’ottobre dell’anno 218. Alle naturali difficoltà dei luoghi, cresciute ancora dai brevi giorni e dagli imbarazzi d’un esercito africano, s’aggiunge la per­fidia o l’error delle guide,1 s’aggiungon l’armi e i sassi d’alcuni popoli alpini che gli contrastan l’an­ dare. Egli lascia per le rocce gelate, per le ruine de’ monti, pe’ burroni, per le selve melanconiose di [p. 39 modifica]abeti, lunga striscia di cadaveri d’uomini e d’elefanti, ma s’inoltra lentamente, ostinatamente, ma giunge alla cima, ma già scende in Italia. Annibale arrivò ne’ campi Taurini il 15 di novembre colla metà ap­ pena dell’esercito.2 Protestando sempre ch’ei la voleva con Roma sola e non co’ popoli soggetti o socii, ricercò nuovamente d’amicizia i Taurini. Ri­ buttato, deliberò d’espugnarne la capitale. Gli storici chiamano la città de’ Taurini fortissima (validissimam) e soggiungono che per fortuna d’Annibale i Taurini erano impegnati in una guerra cogli Insubri,3 il che prova che aveano o confederate o soggette le genti intermedie de’ Salassi e de’ Libici, e ad ogni modo dinota un popolo numeroso e potente. Annibale espugnò in capo di tre giorni d’assedio la città dei Taurini, uccise barbaramente i prigioni4 e pro­cedendo più innanzi e crescendo l’esercito colle schiere de’ Galli che gli erano amici, e più tardi con quelle anche de’ Liguri sconfìsse i Romani al Ticino e alla Trebbia. L’anno seguente tagliò a pezzi l’e­sercito di Flaminio al Trasimeno e ne uccise il con­ dottiero; poi, attraversando l’Umbria ed il Piceno, entrò nella Campania. Nel 217, il 5 di settembre, fu la battaglia di Canne, in cui perirono il console Emilio ed il proconsole Servilio col fior de’ Romani. Roma, atterrita, nominò un dittatore, ed è noto il sistema con cui Fabio Massimo, evitando la battaglia, contentandosi di rinchiudere, di molestare, d’affamar [p. 40 modifica]il nemico, costringendolo ad una inoperosità sui­cida, cunctando restituit rem, ristaurò col sapiente indugio la romana fortuna. Annibale ebbe ancora alcuna fiata la fortuna benevola, ed una volta com­parve fin sotto le mura di Roma; ma la somma delle cose gli fu contraria ne’ tredici anni che rimase an­cora in Italia, finché, l’anno 204 prima di Gesù Cristo, il Senato Cartaginese lo richiamò, onde op­ porlo ai progressi de’ Romani nell’Africa. Ma anche su quella terra natia la sorte gli fu matrigna. Scon­fitto da Scipione a Zama, ebbe il dolore di veder la sua patria chieder ai Romani la pace ed accettarne, dopo diciasette anni d’inutili sforzi, una più vergo­gnosa che tutte le precedenti, l’anno 202.



  1. [p. 49 modifica]Gli scrittori le dicono Taurine; ma Annibale che non aveva potuto ottenere l’amistà dì questo popolo ne avrebbe preso sospetto. Forse dai Taurini n’era stata corrotta la fede.
  2. [p. 49 modifica]Fu lunga questione sul sito in cui passò Annibale le Alpi. Chi conosce i luoghi come li conosco io, e poi legge attentamente le narrazioni di Polibio e di Livio, si persuade che il solo passaggio possibile a quell’esercito per le Alpi Taurine era quello del Monginevra. E vi si accorda anche il calcolo del tempo che Annibale v’impiegò.
  3. [p. 49 modifica]Peropportune ad principia rerum Tavrinis adversus Insubres bellum motum erat. Liv.
  4. [p. 49 modifica]Tavrinos primo in amicitiam societatemque provocare tentavit; de­inde cum id parum Taurinos moveret validissimam eorum civitatem triduo expunavit. Polib. Tavrinorum unam urbem caput gentis eius quia volens in amiciliam non venerat vi expugnat. Tit. Liv. Inde Tavrasia Gallicum oppidum bello petitum quo vi expugnato et captivis ad terrendos reliquos Gallos interfectis. App. Alex.