Storia di Torino (vol 2)/Libro VI/Capo IX

Da Wikisource.
Libro VI - Capo Ultimo

../Capo VIII ../../Avvertimento IncludiIntestazione 24 ottobre 2023 75% Da definire

Libro VI - Capo VIII Avvertimento
[p. 750 modifica]

Capo Ultimo


Varii giudizi di viaggiatori intorno alla città di Torino ne’ secoli xvi, xvii e xviii. — Impertinenze di scrittori trasvolanti, e di scrittori che viaggiano stando a Parigi.— Ponte di Dora.— Strade di ferro.


Le nazioni come gli individui hanno l’eia delle speranze e dei sogni dorati, l’età del senno e delle forti opere. Se non che a differenza dell’individuo la nazion non perisce, e dopo lunghi anni di torpore si sveglia e ritrova i giorni accettevoli, e ripiglia l’antica fortezza, e torna a quelle imprese, nelle quali la gagliardia morale, l’unità e la costanza dei voleri vincono qualunque fortuna e misurano l’oslacolo perchè son certi di sormontarlo.

Uscite dal lungo sminuzzamento del Medio Evo, le varie genti del Piemonte appena nella seconda metà del secolo xvi cominciarono a ordinarsi in una sola nazione, la quale s’andò via via accrescendo [p. 751 modifica]a misura che altre genti Italiane entrarono a far parte della nova e vasta famiglia.

Allora solamente la città di Torino ne fu veramente la capitale, ed è mirabile vedere, come seguendo il fato della Monarchia, da tenue principio salisse rapidamente a notabil grandezza.

Imperocchè dopo i tempi in cui la capitale de’ Taurini, gente guerriera e conquistatrice, avea gloriosamente resistito ad Annibale, dopo il breve comparire che fe’ come parte della Lega Lombarda, e il non lungo periodo d’una oscura indipendenza, la sua fama non era molto cresciuta; e certo era città assai piccola intorno alla metà del secolo xvi quella che aveva da 1400 passi di giro, e un popolo di circa diecimila anime.

Ma sebbene d’allora in poi il Piemonte sostenesse pressochè continue guerre contro la prepotenza straniera, comunque si battezzasse o dall’Ebro o dalla Senna o dal Reno, veloce fu l’ingrandirsi e l’ornarsi di questa città, veloce l’assumer che fece il popolo tempera fortemente e veracemente Italiana. Ne’ primi capi di questo volume abbiam parlalo delle ampliazioni di Torino. Esaminiamo adesso le impressioni, per dirla con un vocabolo alla moda, che fece in diversi tempi ai viaggiatori.

Facciamo capo dal celebre Michele di Montaigne, il quale parlando di Turino, scrive nel suo viaggio d’Italia fatto negli anni 1580, 1581: «Piccola città, [p. 752 modifica]in un sito molto acquoso, non molto ben edificata, nè piacevole con questo che per mezzo delle vie corra un fiumicello per nettarla dalle lordure... Qui si parla ordinariamente francese e paiono tutti mollo divoti alla Francia. La lingua popolesca e una lingua che non ha quasi altro che la pronuncia italiana. Il restante sono parole delle nostre ».1

Riducendo il fiumicello alle proporzioni d’un piccolo rivo, e la stessa diminuzione introducendo nella divozione alla Francia;2 notando che il dialetto Piemontese è ricco di vocaboli Italiani, e che alquanti ne ha derivati dal latino, dal greco, dallo spagnuolo, e da radici teutoniche, il giudicio di Montaigne non era tanto fallace.

Verso i medesimi tempi Giulio Cesare Scaligero chiamava i Torinesi gente lieta, festiva, data alle danze, che non si piglia pensier del domani; d’ingegno naturalmente acuto, ma neghittoso, magnifica ne' suoi concetti piucchè le forze noi consentano; felice pel novello Marte, e pei progressi guerrieri.3

Pietro Le Monnier, notaio e borghese della città di Lilla, vi venne nel 1609. Egli ne dice assai poco: « nella quale città è la corte e residenza ordinaria del duca di Savoia principe del detto paese che ha il suo palazzo mollo superbo (il palazzo vecchio, architeltura del Viltozzi) accanto alla bella chiesa di San Giovanni che è la principale della città, e di [p. 753 modifica]prospetto a quello un altro palazzo che occupava allora per grazia del duca il cardinale Aldobrandino nipote di papa Clemente vra; il qual palazzo del duca s’attiene a un bello e grande castello di difesa fatto all’antica con bellissime alte torri di molto bella apparenza poco lungi dalla piazza ».

Loda poi la cittadella fatta a somiglianza di quella d’Anversa e la buona guardia che si fa alle porte, non consentendosi ad uno straniero l’ingresso e lo stare più di tre giorni senza licenza del governatore.4

Jouvin nel suo viaggio d’Europa (1672) comincia a celebrare la nostra città. Parlando della chiesa di San Carlo (ch’egli crede per errore uffìziala dai Domenicani) dice che era frequentatissima e che ha veduto più volte alla porta della medesima più di cento carrozze ricchissime. Ed essendo note le ampie dimensioni delle carrozze d’allora, queste cento carrozze doveano occupare tutta la piazza, se pure Jouvin non v’ha comprese le bussole che erano anche molto in uso.5

In marzo del 1677 l’abate Pacichelli, napolitano, scrivea con abbondanza di encomio intorno alle grandezze Torinesi. Magnifici diceva i palazzi, comode le case; la piazza grande innanzi al real palazzo, vedersi spesso folta di carrozze; lodava la stupenda galleria d’arti e di storia naturale creata da Carlo Emmanuele i, dove trasse particolarmente la sua [p. 754 modifica]attenzione « un piccolo carro d’oro con sei cavalli gioiellati della stessa materia, ed un castello con le sue forlifìcationi artiglierie ed altre armi da fuoco le quali con molto ingegno si sparano... ha ammirato la splendidezza della corte nella qualità, e nel numero de’ cavalieri e titolati riccamente vestiti, un treno di molti servidori di livrea disposti con tal simmetria nell’esercizio delle loro cariche e nell’accompagnamento che forse non ha simile in tutta l’Europa ».

All’abate Pacichelli la chiesa di San Carlo parve la meglio adorna; afferma egli di nuovo che il servizio della corte ed i Magistrati hanno qui veramente del Reale e possono paragonarsi co’ primi Sovrani d’Europa. Più di 300 cavalli erano nelle scuderie del Duca. La cappella noverava dodici musici e più di trenta suonatori. La guardia del Duca era composta di cinque compagnie; una d’arcieri Savoiardi; una di corazze e tre d’archibugieri, tutti a cavallo; due delle quali colla casacca rossa a ricami d’oro, e l’altra d’azzurro, color di Madama (Maria Giovanna Battista): oltre a questa guardia ne aveva un’altra di cento svizzeri.6

In giugno del 1688 Massimiliano Misson francese scrivea da Torino e di Torino; « è un luogo gradevolissimo, i dintorni sono ridenti, i modi degli abitatori sciolti e compagnevoli, il che ce ne fa respirar l’aria con tanto maggior diletto, in quanto [p. 755 modifica]siamo appena sfuggiti ai selvaggi costumi del resto dell’Italia dove abbiam veduto più statue che uomini ».

Accettando l’omaggio che rende alla cortesia de’ Torinesi, noi rigettiamo lo storto giudicio che reca degli altri Italiani. È un francese che scrive; non un francese come Montaigne, ma un francese come Giulio Janin, e consorti; dico in quanto all’impertinenza ed a un superbo dispetto pel vero, non in quanto all’ingegno.

Sul cadere del secolo xvii vennero di moda le delizie: come qualche anno fa erano venute di moda le bellezze. Si descrissero le delizie della Svizzera, le delizie di Spagna, le delizie del paese di Liège, le delizie d’Italia. Ma il Piemonte, o non si considerava da quelli oltremontani come parte d’Italia, o credevasi non aver delizia; sebbene i suoi laghi, le sue valli alpine, le sue foreste, i suoi monti coperti d’eterno gelo, e le colline, e i piani abbondino dei più graziosi, de’ più tranquilli, dei più solinghi, dei più terribili, dei più tempestosi prospetti; sebbene sia una Svizzera col sole, coi fiori, colla verzura, e colle donne d’Italia.

Il Viaggio storico politico di Svizzera, d’Italia e di Germania fu scritto negli ultimi anni del regno di Vittorio Amedeo ii (prima del 1730). L’autore commenda assai la fermezza del Re nell’abbattere l’insolenza de’ nobili delle provincie staccate del [p. 756 modifica]ducato di Milano, usati ai disordini del governo di Spagna. Lo chiama eccellente politico, generale esperto, bravo soldato, perito del commercio come un negoziante. Dice che quando, ritirandosi innanzi a forze superiori, si gittò tra i Valdesi, li aringo con tanto affetto che li fe’ pianger tutti.

Passando a discorrere d’altre materie racconta che, non solo i borghesi, ma anche i contadini godono d’una certa agiatezza; che la nobiltà e i negozianti parlano più comunemente il francese e l’italiano che il piemontese (così dovrebbe essere anche al dì d’oggi; dico dell’italiano), che qui si fa la miglior seta d’Europa; che il tabacco formava altre volte un ramo di commercio molto lucrativo: ciascuno sa, dice, la stima in cui era tenuto il tabacco di Torino, quello di Millefiori, quello delle Dame; ma il tabacco di Spagna ha fatto cader questo commercio (ora è risorto più attivo che mai).

Anche i grissini, bastoncini di pane tutto crosta (così egli) erano caduti di moda, e abbandonati alla plebe e ai contadini, preferendo gli altri il pan francese.

Il rosolio di Torino era famoso fin d’allora. La corte compariva tra le più numerose e più splendide. Luogo di passeggio più frequentato era il doppio viale del Valentino.

Versogli stessi tempi Galante chiamava questa città la più bella d’Europa per la sua simmetria; ma questa [p. 757 modifica]stessa simmetria increbbe a molti altri viaggiatori, come i portici, che tanti con ragione c’invidiano, e nel qual fatto non abbiamo rivali, e che altri afferma guastar la strada di Po; come i rigagnoli che molti benedivano come causa di frescura e di nettezza, come singoiar beneficio pe’ casi d’incendio, e che molti accusano come lordura ed inciampo.

Richard scrivea dopo la metà del secolo che i Torinesi non usavano invitarsi a pranzo, ma sì solamente a veglie e conversazioni (ora si segnalano pel difetto contrario e per la troppa lautezza de’ conviti); che non v’era lusso in città, non fasto alla corte; ma poi soggiunge che anche gli artigiani portavano la spada e vestivano di seta. Il che, in quanto al portar la spada, non era vero.

In settembre del 1761 egli vide sulla piazzetta di Sta Teresa (sito immune) una capanna di legno costrutta da un condannato a morte e da alcuni condannati alle galere che là viveano sostentati dalla pubblica carità e guardati a vista dai birri.

Non parlerò de’ viaggi di Lalande, nè di quei più recenti; ne’ quali ultimi, singolarmente in molti de’ Francesi, si trovano sulle medesime cose i giudizi più strani e più contraddicenti. Per l’uno il palazzo Carignano è dimora degna d’un re; per un altro c’est un lourde bicoque; gli uni ci trovano più che mezzo Francesi; gli altri s’accorgono al frequente uso del pugnale che siamo Italiani!... Alcuni più [p. 758 modifica]discreti hanno l’amabile condiscendenza di farci partecipare ai difetti delle due nazioni.

Questi contrapposti farebbero una lunghissima litania, ma noi non la proseguiamo. Sarebbe incoraggir la baldanza di questi avventati stranieri, che per altro non merita sdegno ma compassione.

Prima di chiudere questo capo e con esso l’opera mia, mi rimane a parlare di un monumento che basta a nobilitare qualunque più gran capitale; ed e il ponte di pietra sulla Dora d’un arco solo, dovuto all’alto ingegno del cav. Mosca ed alla munificenza del re Carlo Felice.7

E convien pure ch’io rammenti l’Imbarcadero della via di ferro prossima a stabilirsi vicino a Porta Nuova; perchè questa via, o per dir meglio queste vie segneranno un’epoca nuova per la patria nostra, renderanno il Piemonte centro e guida d’uno de’ più estesi e più facili e più pronti commerzii che mai si sieno aperti all’ingegno ed all’industria degli Italiani; e faranno soave e reverendo all’intera penisola, anzi a tutte le genti che vi parteciperanno, fi nome, la sapienza e la costanza del re Carlo Alberto


Note

  1. [p. 763 modifica]Journal du voyage de Michel de Montaigne eri Italie. Tom. ii, pag. 580.
  2. [p. 763 modifica]Conviene eccettuarne la moda, i precetti della quale fin dal secolo xiv ci venivano da Parigi, come abbiam notato in altr’opera; sebbene non colla rapidità, nè colla universalità presente.
    A Torino usarono per molti anni le dame e le borghesi portare in capo una cuffia alta un mezzo raso, chiamata arcoua, guernita di pizzi e di nodi di nastri. Nel 1715 l’ambasciadrice di Francia giunse in città con una piccola cuffia chiamata borgogna, alta tre dita con un solo nodo di nastri. Tanto bastò perchè tutte le dame e le cittadine pigliassero con gran fretta la nuova acconciatura, lasciando l’antica alle donne di contado, che ancora la portano.
    Soggiungo in questa nota alcune notizie che mi vengono in punta di penna, perchè essendo al termine dell’opera, non trovo luogo più appropriato.
    Alle processioni generali intervenivano in principio del secolo scorso le Loro Maestà ed i Principi. Quella dell’8 settembre 1717 componevasi come segue: 422 poveri dello spedale, 42 orfanelle, 96 disciplinanti di S. Maurizio, 96 di S. Rocco, 56 del SS. Sudario, 98 dell’Annunziata, 42 della Misericordia, 52 della Trinità, 128 dello Spirito Santo, 100 del Nome di Gesù, 100 di Santa Croce, 17 padri Trinitarii di S. Michele, 26 Minimi, 56 Francescani riformati della Madonna degli Angioli, 50 Agostiniani scalzi di S. Carlo, 78 Cappuccini, 29 Carmelitani di Sanla Maria, 27 Agostiniani, 56 Francescani dell’osservanza di S. Tommaso, 30 Minori conventuali di S. Francesco, 31 Domenicani, 18 Monaci cistercensi riformali della Consolata. [p. 764 modifica]Il Soleri, da cui ho queste notizie, accenna all’anno 1720 varii fallimenti; fra gli altri quello del banchiere Colomba, e nota che questo banchiere avea più lingeria di Fiandra che il principal cavaliere di Torino, e che spendeva 15ꞁm. lire all’anno per la casa. Ora queste cose non farebbero certamente il menomo senso di maraviglia; poichè chi ha danari vive a suo modo, e non v’è più differenza esteriore di condizione.
    L’ultima volta in cui si segnalò ufflcialmente tal differenza, fu nel 1775, quando Maria Clotilde di Francia, principessa di Piemonte, fece il suo solenne ingresso in Torino. Allora ciascuna delle arti meccaniche pigliò un uniforme, e si mosse in bell’ordine fuori di porta Susina ad incontrarla:
    Gli argentieri aveano abito cilestrino, guernito in argento, con galloni, giustacuore e calzette di seta bianca;
    I sarti, un abito di scarlatto;
    Gli acquavitai ed i confettieri, un abito color di castagno;
    I calzettai, un abito chermisino;
    l guantai, un abito di pelle;
    I pellicciai, un abito verde e chamois, guernito di martora e di galloni d’oro all’ussera, ecc.
  3. [p. 764 modifica]
    Excipiens gelidas patriis ex alpibus auras

      Hesperii princeps jus capit una soli.
    Terra ferax, gens laeta, hilaris addicta choreis
      Nil curans quidquid crastina luna ferat.
    Ingenium natura aptum sed more solutum,
      Plus animo capiens, quam dare possit ope.
    Felix Marte novo, felix melioribus armis,

      Namque recens acuet pectora lenta metus.
  4. [p. 764 modifica]Monnier, Antiquités, mémoires et observations remarquables etc. Lille, 1614. ’
  5. [p. 764 modifica]Tom. ii, 351.
  6. [p. 764 modifica]Memorie dei viaggi dell’abate Pacichelli, iii, 511.
  7. [p. 764 modifica]A luogo a luogo abbiam designalo le case in cui abitarono uomini illustri. Qui aggiungeremo alcune altre notizie dello stesso genere da noi sapute o ritrovate.
    Bernardino Galliari abitava nelle soffitte del R. Teatro.
    Jacopo Durandi, in casa S. Sebastiano, via della Basilica.
    Papacino d’Antoni, all’Arsenale.
    Gaetano Pugnani, sovrano suonator di violino, in casa Borsone, avanti all’albergo del Pozzo.
    Vittorio Rapous, pittore di storia a olio ed a fresco, dietro la chiesa di Santa Maddalena.
    [p. 765 modifica]Michele Rapous, pittore di fiori, di decorazioni e d’animali, in via di Po, vicino all’albergo del Pozzo.
    Carlo Porporati, incisore, in piazza di Madama, casa Pollone.
    Carlo Francesco Allione, botanico, avanti alla chiesa delle Cappuccine, via di San Carlo, allato al palazzo Candii (ora Galino).
    Francesco Domenico Michelotti, idraulico, avanti al teatro Guglielmone, ora d’Angennes.
    Claudio Beaumont, nella casa dell’Università.
    Ambrogio Bertrandi, in casa Balbo.
    Vincenzo Malacarne, in cittadella.
    Dottore Francesco Cigna, uno de’ fondatori dell’Accademia delle Scienze, in casa Graneri, verso il Ghetto, vicino a San Francesco di Paola.
    Il conte Benvenuto Bobbio di San Raffaele, avanti a San Filippo, casa Piovano. Il conte Dellala di Beinasco, architetto, in casa Graneri.
    Vittorio Cignaroli, pittor di paesi, via di San Francesco di Paola, casa Salasco.
    Francesco Ladatte, scultore in bronzo, avanti a San Francesco di Paola, casa Soglio.
    Ignazio Collini, scultore, vicino alla Zecca.
    Palmieri padre, disegnatore, in casa Perrone.
    Giuseppe Vernazza, in fine della via della Provvidenza, nella penultima porta a sinistra. Ivi nell’ultima porta abitava e morì Francesco Omodei.
    Gian Francesco Galeani Napione, nel palazzo vecchio del Be, in fondo al secondo cortile.
    Giuseppe Biamonti, via di San Francesco di Paola, sopra al caffè delle Indie.
    Carlo Balbis, piazza Vittorio Emmanuele, casa Avena.
    Franco Andrea Bonelli, nel palazzo de’ Musei. — Luigi Bolando, In piazza Carlina, casa Boero di Guarene. — Giovanni Antonio Giobert, accanto al teatro Sutera.— Bagetti, via di San Carlo, casa della Villa.
    Carlo Boucheron, via dello Spedale, casa del principe della Cisterna.
    Lorenzo Martini, in piazza Carlo Felice, casa Bellora.
    Fo menzione in questo luogo, non avendolo saputo prima, d’uno spedale di recente eretto pe’ fanciulli dal mio amico conte Luigi Franchi di Pont, a compimento dell’egregio instituto delle Scuole infantili, delle quali egli ed il senator Boncompagni, per tacer d’altri molti, sono grandi proraovitori.