Taras Bul'ba/X

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IX XI
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Q
uanto ho dormito! — disse Taras, risentendosi, come dopo un faticoso sonno di ubbriaco, e sforzandosi di riconoscere gli oggetti che l’attorniavano. Una tremenda debolezza aveva oppresso le sue membra. Appena appena riusciva a percepire dinnanzi a sé le pareti e gli angoli di una capanna sconosciuta. Finalmente si accorse che gli sedeva davanti Tovkac e pareva che spiasse ogni suo respiro. «Sí» pensava tra sé Tovkac «poco è mancato che tu t’addormentassi per sempre.» Ma non disse niente, minacciò col dito e fece segno di tacere.

— Via! dimmi dove sono adesso? — tornò a domandare Taras, facendo uno sforzo mentale per ricordarsi il passato.

— Taci, ti dico! — gli gridò con voce aspra il camerata che hai voglia di sapere ancora? Che, forse non lo vedi da te che sei tutto stroncato? Sono già due settimane che io e tu andiamo a cavallo, senza riprendere fiato; e che [p. 213 modifica]tu ardi dalla febbre e dici parole senza senso. Questa è la prima volta che ti assopisti tranquillamente. Sta’ zitto via! se non vuoi rovinarti da te.

Ma Taras seguitò a tentare e sforzarsi di raccogliere i suoi pensieri e ricordare quello che era successo.

— Sí, capisco, mi presero e mi accerchiarono tutti insieme i Ljachi? Io non ebbi nessuna possibilità di cavarmi fuori da quella folla?

— Zitto, eh; dico a te, ragazzaccio del diavolo! — gridò Tovkac, montato in collera, come una bambinaia che perde la pazienza e sgrida una piccola canaglia. — Che t’importa di sapere come te la cavasti? Contentati di essertela cavata. Si trovarono persone che non ti abbandonarono: ecco tutto, e falla finita! Abbiamo ancora non poche notti da passare galoppando insieme sullo stesso cavallo. Tu credi di essere passato per un cosacco qualunque? No, sul tuo capo hanno messo una taglia di duemila ducati.

— E Ostap? — urlò a un tratto Taras, facendo uno sforzo estremo per tirarsi su; e improvvisamente si ricordò come Ostap era stato preso e legato sotto i suoi occhi, e che egli ormai era nelle mani dei Ljachi. E il dolore avvolse quella testa canuta. Strappò e lacerò tutte [p. 214 modifica]le fasciature delle sue ferite; le gettò via, mentre voleva dir forte chi sa che, e invece proferiva voci sconnesse; la febbre e il delirio lo sopraffecero di nuovo, e vennero fuori discorsi senza senso e senza alcun legame logico. Ma frattanto l’amico fedele gli stava accanto, lo sgridava e gli scagliava senza risparmio le piú atroci ingiurie e i piú aspri rimproveri. Da ultimo, lo prese per le mani e per i piedi, lo fasciò come un bambino, gli rimise a posto le fasciature, lo avviluppò in una pelle di bue, lo legò in un involucro di corteccia di tiglio e, assicuratolo con funi sulla sella, si rimise con lui in cammino.

— Magari morto, ma ti porterò via! Non permetterò che i Ljachi oltraggino il tuo lignaggio cosacco, che facciano a pezzi il tuo corpo e poi lo gettino a fiume. Sia magari un’aquila che venga a strappare gli occhi dalla tua fronte, ma sia l’aquila nostra della steppa e non un’aquila polacca, che spicca il suo volo dalla terra dei Ljachi. Magari morto, ti porterò fino in Ucraina!

Cosí diceva il compagno fedele. Cavalcò senza respiro giorno e notte, e lo trasportò senza che egli desse segno di vita, fino alla Sjec dei Saporogini. Là si diede tutto a curarlo con erbe e fomenti; trovò una certa ebrea esperta, che [p. 215 modifica]per un mese gli fece bere svariate pozioni, e da ultimo Taras cominciò a migliorare. O fosse la medicina, o la sua vigoria di ferro che riprendesse il sopravvento, fatto è che in un mese e mezzo egli si rimise in piedi; le ferite si chiusero, e solo alcune cicatrici di sciabolate facevano intendere quante profonde ferite avevano un giorno coperto il corpo del vecchio cosacco. Vero è che egli era diventato melanconico e triste. Tre rughe profonde s’erano incavate nella sua fronte, e non scomparvero piú. Ora, egli cominciò a guardarsi attorno: tutto era nuovo nella Sjec; gli antichi camerati erano tutti morti. Neppure uno ormai di coloro che si erano battuti per il diritto, per la fede e per la fratellanza! Anche quelli che col Koscevoj s’erano diretti a inseguire i Tartari, anche quelli non c’erano piú da un pezzo; tutti ci avevano rimesso la testa, tutti erano periti: chi perdendo la vita onoratamente nella battaglia, chi sfinito dalla sete e dalla fame in mezzo alle saline di Crimea; e chi era morto nella prigionia, non resistendo al disonore, e lo stesso Koscevoj di prima non era piú da un pezzo tra i vivi, e non c’era alcun altro dei suoi vecchi camerati, e già da tempo era cresciuta l’erba sopra quella già cosí fervida forza cosacca. Egli udí soltanto che c’era stato un grande banchetto, una [p. 216 modifica]rumorosa baldoria: tutto il vasellame era stato frantumato; non c’era rimasto da nessuna parte una goccia di vino; gli ospiti e i loro servi avevano portato via tutti i vasi e le coppe preziose... e triste rimane in casa il padrone di casa, pensando: «Quanto era meglio che questo banchetto non ci fosse stato!». Indarno provarono a distrarre e rallegrare Taras; indarno banduristi barbuti e grigi, che passarono a due e a tre per volta, celebrarono le sue gesta cosacche! Cupo e indifferente egli guardava ogni cosa; nel suo volto immobile appariva un dolore inestinguibile; e sottovoce, chinando il capo, egli diceva:

— Figlio mio! Oh mio Ostap!

I Saporogini s’adunarono per una spedizione marittima. Duecento canotti furono spediti sul Dnjepr, e l’Asia Minore li vide coi loro capi rasi e i lunghi ciuffi mettere a ferro e fuoco le sue spiagge fiorenti; vide i turbanti dei suoi abitatori musulmani dispersi al pari dei suoi innumerevoli fiori, sopra i campi bagnati di sangue, o nuotanti presso le spiagge. Vide non pochi calzoni cosacchi imbrattati di catrame, e braccia nerborute impugnanti le nere nagaiche1. I Saporogini divorarono e distrussero [p. 217 modifica]tutti i vigneti; nelle moschee depositarono interi mucchi di letame; costosi scialli persiani furono adoperati invece delle cintole per fermare le svitke impiastricciate. Per molto tempo in seguito furono trovate per quei luoghi le pipette corte dei Saporogini. Lieti e contenti essi si misero in mare per il ritorno; ma si diede a inseguirli una nave turca con dieci cannoni, e con una salva generale disperse come altrettanti uccelli i loro fragili canotti. La terza parte di essi fu sommersa nelle profondità del mare; gli altri, invece, si riunirono daccapo e raggiunsero le foci del Dnjepr con dodici barili pieni zeppi di zecchini. Ma tutto ciò non aveva ormai alcun interesse per Taras. Se ne andava per i prati e per le steppe col pretesto della caccia, ma il suo fucile non si scaricava mai. E, deposto il fucile, tutto pieno di tristezza egli andava a sedere sulla riva del mare. Rimaneva lí a lungo con la testa bassa, e sempre dicendo:

— Oh mio Ostap! Oh mio Ostap!

Davanti a lui si stendeva e luccicava il Mar Nero; nel canneto lontano strideva il gabbiano della steppa; i suoi baffi bianchi lucevano d’argento, e le lagrime sulle sue gote colavano una dopo l’altra.

E non poté resistere finalmente, Taras: «A qualunque costo, devo andare a vedere che n’è [p. 218 modifica]di lui: è vivo? è nella tomba? o non è neppure nella tomba ormai? Andrò a vedere, sia quello che sia!».

E in capo a una settimana si trovava già nella città di Uman, armato a cavallo, con la lancia, la spada, la borraccia sulla sella, la gavetta con l’orzo abbrustolito, le cartucce, le pastoie per il cavallo e ogni altro arnese. Andò difilato a una casupola sudicia e imbrattata, le cui piccole finestre si vedevano appena, tanto erano annerite non si sa di che cosa; la canna del camino era tappata con uno straccio, e il tetto bucherellato era tutto pieno di passerotti. Un cumulo d’ogni sorta d’immondizie giaceva proprio avanti la porta. S’affacciò alla finestra la testa di una ebrea con una cuffia ornata di perle annerite.

— È in casa tuo marito? — domandò Bul’ba mentre scendeva da cavallo e legava le briglie a un anello di ferro che era sulla porta stessa.

— È in casa — disse l’ebrea, e s’affrettò ad uscire con una pala di fieno per il cavallo e un gotto di birra per il cavaliere.

— Dov’è il tuo giudeo?

— Nell’altra stanza, a pregare — seguitò a dire l’ebrea, dopo aver fatto un inchino e aver augurato buona salute, mentre Bul’ba accostava il gotto alle labbra. [p. 219 modifica]

— Resta qui, pensa a dare da mangiare e da bere al mio cavallo; e io andrò a parlare con lui da solo a solo; ho da trattare con lui un affare.

Quel giudeo era il noto Jankelj. Si trovava lí ormai in qualità di appaltatore e bettoliere; aveva preso a poco a poco nelle sue mani tutti i signori e uomini d’arme dei dintorni, aveva succhiato quasi tutti i denari, e aveva dato una forte notorietà alla sua presenza di giudeo nel paese. Per un raggio di tre miglia intorno intorno non rimaneva una sola capanna in buono stato: tutto era rovinato o vacillante, tutto era stato ridotto alla miseria, e rimaneva solo la miseria e i cenci; come dopo l’incendio o la peste, tutto il paese era stato esposto all’aria. Se Jankelj seguitava a vivere lí altri dieci anni, probabilmente mandava all’aria tutto il vojevodato.

Taras entrò nella stanza. Il giudeo pregava, avvolto nel suo piuttosto sudicio sudario, e si voltò per sputare l’ultima volta secondo l’usanza della sua religione, allorché improvvisamente il suo sguardo s’incontrò in Bul’ba che gli stava dietro. Subito, prima di ogni altra cosa, balenarono agli occhi del giudeo i duemila zecchini di taglia messi sul capo del cavaliere. Ma egli si vergognò della sua cupidigia, e si [p. 220 modifica]sforzò di calpestare entro di sé l’eterno pensiero dell’oro, il pensiero che come un verme si attorciglia all’anima del giudeo.

— Sta’ a sentire Jankelj — disse Taras al giudeo, che cominciò a fare inchini dinnanzi a lui e chiuse la porta con attenzione, perché nessuno li vedesse. — Io ti salvai la vita (i Saporogini ti avrebbero fatto a pezzi come un cane); ora è venuto il tuo turno; ora rendimi un servigio!

Il volto del giudeo si corrugò un poco.

— Quale servigio? Se è servigio che si può fare, allora perché non farlo?

— Non fare discorsi, menami a Varsavia!

— A Varsavia? Come, a Varsavia? — disse Jankelj. Le sopracciglia e le spalle gli andarono in su dallo stupore.

— Non mi fare discorsi. Menami a Varsavia. Qualunque cosa avvenga, io voglio vederlo ancora una volta, dirgli almeno una parola.

— A chi dire una parola?

— A lui, a Ostap, a mio figlio.

— Forse vossignoria non ha udito che già...

— So, so tutto: per la mia testa daranno duemila ducati. Sanno bene, canaglie, quale è il suo prezzo! Io te ne darò cinquemila. Eccotene duemila subito — Bul’ba cavò fuori dalla [p. 221 modifica]sua borsa di cuoio duemila ducati — e il resto al mio ritorno.

Il giudeo prese subito un asciugamano e con esso coprí i ducati.

— Ah, che magnifica moneta! Che buona moneta! — diceva facendosi rigirare tra le mani uno zecchino e provandolo ai denti. — Io penso che quell’uomo a cui vossignoria prese siffatti bei ducati, non poté sopravvivere un’ora: andò immediatamente al fiume e s’annegò dopo aver perso cosí magnifici ducati.

— Avrei fatto a meno di rivolgermi a te. Da me solo forse avrei trovato la via di Varsavia; ma io posso essere riconosciuto in un modo o nell’altro, e catturato dai maledetti Ljachi, perché le astuzie non sono il mio forte. Ma voialtri giudei siete stati creati per questo. Voi siete capaci di farla anche al diavolo; voi conoscete tutti i ripieghi: ecco perché sono venuto da te. E poi, a Varsavia da me solo non avrei ottenuto niente. All’istante, metti in ordine il tuo carro e conducimi!

— Ma vossignoria pensa che cosí, detto e fatto, io prendo la cavalla, allestisco il carro, e: «Su, via, andiamo, cavalla grigia!». Pensa vossignoria che cosí come si trova, senza nascondersi, io possa condurre vossignoria?

— Ebbene, sí, nascondimi, nascondimi come [p. 222 modifica]tu sai fare; nel barile della polvere; che ne dici?

— Ohi, ohi! E vossignoria pensa che sia possibile nasconderla in un barile? Forse non sa vossignoria che ad ognuno viene in mente che nel barile ci sia acquavite?

— Via, lasciamoli pensare che ci sia l’acquavite.

— Come? Lasciamoli pensare che sia acquavite? — disse il giudeo, e con tutte e due le mani si afferrò le ciocche sugli orecchi, e poi alzò tutte e due le braccia al cielo.

— Via, perché ti sei tanto spaventato?

— Ma forse non sa vossignoria che l’acquavite Dio la creò apposta perché ognuno l’assaggiasse? Là sono sempre ghiotti, golosi. Un gentiluomo correrà per cinque verste dietro un barile, come niente; verrà a farci un buchetto, vede che non cola niente, e dice: «Il giudeo non trasporta una botte di polvere; certo, qui c’è qualche cosa! Acchiappate il giudeo! legate il giudeo! portate via tutti i denari al giudeo! mettete in prigione il giudeo». Perché tutto quel che c’è di male al mondo, tutto si rovescia sul giudeo; perché un giudeo tutti lo prendono per un cane; perché ormai pensano che non sia neppure un uomo, se è un giudeo.

— Allora, mettimi sul carro in mezzo al pesce salato. [p. 223 modifica]

— Non si può, signoria, non si può, come è vero Dio! In tutta la Polonia oggi la gente è affamata come i cani. Verranno a rubare il pesce, e scopriranno vossignoria.

— Conducimi magari al diavolo, ma conducimi!

— Sentite, sentite, signoria! — disse il giudeo, rimboccandosi le maniche e accostandosi a lui con le braccia tese. — Ecco quello che faremo. Adesso costruiscono da ogni parte fortezze e castelli; dalla Germania sono venuti ingegneri francesi, e per le strade si trasportano molti mattoni e pietre. Vossignoria si stenda sul fondo del carro, ed io vi metterò sopra dei mattoni. Vossignoria è sano e forte all’aspetto; e per questo non gli farà niente, se sentirà un po’ di peso; e io farò di sotto al carro una piccola buca per dar da mangiare a vossignoria.

— Fa’ pure come vuoi; basta che tu mi conduca.

E un’ora dopo il carro coi mattoni partiva da Uman, tirato da due ronzini. Sopra uno di essi sedeva Jankelj, alto e diritto, e i suoi lunghi riccioli pendenti dalle tempie svolazzavano di sotto alla berretta giudaica, a seconda che egli sobbalzava sul cavallo: sedeva diritto e lungo come una colonna miliare posta sulla strada.

Note

  1. Frustini adoperati dai cosacchi.