Trattatello in laude di Dante/II

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II
Patria e maggiori di Dante

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I III


Fiorenza, intra l’altre città italiane più nobile, secondo che l’antiche istorie e la comune oppinione de’ presenti pare che vogliano, ebbe inizio da’ Romani; la quale in processo di tempo aumentata, e di popolo e di chiari uomini piena, non solamente città, ma potente cominciò a ciascun circustante ad apparere. Ma qual si fosse, o contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizii di mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de’ Vandali e generale guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi o tutti o la maggior parte di quegli cittadini, che [in] quella erano o per nobiltà di sangue o per qualunque altro stato d’alcuna fama, in cenere la ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si crede che dimorasse. Dopo il quale termine, essendo non senza cagione di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale altezza elevato Carlo Magno, allora clementissimo re de’ Franceschi, più fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla reedificazione della desolata città lo ’mperiale animo dirizzò; da quegli medesimi che prima conditori n’erano stati, come che in picciol cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe’ reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche reliquie, che si trovarono, de’ discendenti degli antichi scacciati.

Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de’ Frangiapani, e nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch’ebbe la principale cosa, per la quale venuto v’era, fornita, o dall’amore della città nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al quale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuo cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l’antico sopranome de’ loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli Elisei. De’ quali di tempo in tempo, e d’uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per senno ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella sua giovanezza fu data da’ suoi maggior per isposa una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara, così per bellezza e per costumi, come per nobiltà di sangue pregiata, con la quale più anni visse, e di lei generò più figliuoli. E come ché gli altri nominati si fossero, in uno, sì come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare il nome de’ suoi passati, e nominollo Aldighieri; come che il vocabolo poi, per sottrazione di questa lettera "d" corrotto, rimanesse Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero di lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale, come che alquanti figliuoli e nepoti e de’ nepoti figliuoli discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il cui nome fu Alighieri, il quale più per la futura prole che per sé doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre suo; come che ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, e oggi, per lo effetto seguìto, sia manifestissimo a tutti.

Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire unofigliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante: e meritamente, perciò che ottimamente, sì come si vedrà procedendo, seguì al nome l’effetto.

Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel Dante che a’ nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio; questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle Muse, sbandite d’Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesì meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate, lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto dimostreranno.