Trattato completo di agricoltura/Volume I/Vinificazione/5

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Della svinatura

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della svinatura.

§ 539. Terminata la fermentazione, e riconosciuto che la parte liquida siasi fatta limpida, si passa alla svinatura, ossia a cavare il vino.

Questa operazione si fa allo scopo di separare il vino dalle vinaccie che occupano la parte alta, e dalla feccia che sta sul fondo del tino.

L’epoca della svinatura non può precisarsi in giorni, potendosi fare più o meno prestamente, a seconda della qualità dell’uva e del modo di fermentazione del mosto. Quanto più l’uva è matura, zuccherina e non troppo acquosa, la fermentazione essendo più lenta, più tarda riesce anche la svinatura. Chi pratica la follatura, permettendo alle vinaccie di portarsi alla superficie, è obbligato a svinar prima di chi le tiene depresse, per evitare il pericolo della fermentazione acida. Generalmente da noi il vino è limpido fra gli otto ed i dodici giorni. Chi non tiene compresse le vinaccie nel vino cavar deve subito; e quando invece rimangono immerse si può tardare a volontà, anche dai 16 ai 20 giorni e più, non essendovi pericolo di acidificazione. L’unico criterio per giudicare del momento propizio è quello di osservare se il vino sia limpido, ed abbia la stessa temperatura dell’ambiente.

Vi ho già detto che in questo momento nel tino si osserva la seguente disposizione nelle varie sue parti. Superiormente trovansi le vinaccie o cappello. Di mezzo il vino, o parte liquida, limpida, e che si può considerare come un miscuglio in proporzioni variabili di acqua, alcool, bitartrato di potassa, d’acido libero, di glutine, zuccaro e materia colorante. Sul fondo trovasi la feccia o sedimento, composta per 1/5 di fermento insolubile, 3/5 di bitartrato di potassa, precipitato per la successiva formazione dell’alcool, e per la restante parte di altre sostanze grasse, gommose, e sali formatisi durante la fermentazione, per le combinazioni dell’acido tartrico colla magnesia o colla calce che entrano nella composizione dell’uva; trovasi inoltre una particolare materia colorante.

Se il tino si lasciasse in queste condizioni, dopo un tempo più o men lungo, per una lenta assimilazione dell’ossigeno, e per una ulteriore alterazione del sedimento, l’alcool [p. 532 modifica]verrebbe a convertirsi in aceto. Da ciò il bisogno di separare dal resto la parte già rischiarata, cui si dà il nome di vino crodello, o primo vino.

Parlando degli effetti della luna, vi dissi correre il proverbio che il vino fatto in due lune, a stento o mai si rischiara; volendosi dire con ciò che la fermentazione sarebbe avvenuta in luna scema, ritenuta poco favorevole a questa operazione, e che la svinatura si sarebbe fatta in luna nuova o crescente, la quale invece influirebbe a mantenere nel vino una leggier fermentazione. Gli antichi adunque usavano far bollire il vino in luna crescente, e cavare in luna scema. Ma ormai sapete fin dove giunga l’onnipotenza della luna; basta che regoliate bene la fermentazione, soprattutto in quanto alla temperatura dell’ambiente, e vi assicuro che potrete dormir tranquilli quand’anche il mosto fermentasse al bujo.

Riconosciuta la limpidezza del vino, e la sua temperatura eguale a quella dell’ambiente, si passa a cavarlo, avendo di mira, anche in questa operazione, di esporre il vino meno che sia possibile al libero e prolungato contatto dell’aria; poichè, ritenuto che nei nostri vini vi ha sempre un avanzo di glutine, anche dopo la totale conversione della materia zuccherina in alcool, una successiva alterazione di esso agirebbe sull’alcool contenuto nel vino per convertirlo in aceto. Gli acidi liberi poi in contatto dell’aria si alterano e si coprono di quella muffa biancastra, detta fioretto.

Per cavare il vino senza che n’esca la feccia, abbisogna che il tino sia munito d’un foro alto almeno 0m,08 dal fondo. A questo foro si applica una spina o cannello, possibilmente munita di robinetto, onde limitare ii getto, e non essere obbligati a turare ed aprire ad ogni istante la spina, cagionando una continua agitazione sul fondo del tino pel reiterato afflusso e riflusso del liquido, che produrrebbe un intorbidamento col sollevamento della feccia.

Ordinariamente il vino si cava in mastelli o brente, per poi essere trasportato nelle botti, facendo una strada più o men lunga. Nelle botti poi è versato dall’alto, cadendovi con gran fracasso, agitazione e spuma. Ben vedesi che una simile maniera d’operare non è consentanea a quanto vi dissi, che anzi sembra fatta appositamente acciò il vino si metta nel maggior contatto possibile coll’aria, e ne assorba e trattenga in istato di semplice mescolanza per mezzo delle bollicine spumose. Inoltre la perdita dell’alcool e dell’aroma del vino può essere sensibile. [p. 533 modifica]

Per evitare quest’inconveniente sarà di grande vantaggio l’avere la tinaja assai prossima alla cantina, perchè in allora si potrà travasare il vino nelle botti nel seguente modo. Sotto alla spina a robinetto si ponga un largo imbuto di legno, volgarmente pidria, la quale riceva il vino, avvertendo però che superiormente questo imbuto abbia una rete di filo di ferro, mobile o fissa, che non permetta il passaggio agli acini ancora interi, ai granelli o ad altri corpi. L’estremità di questo imbuto sia in comunicazione con una canna di corda inumidita, divisa in varj pezzi, da unirsi fra loro a norma della distanza cui si vuol condurre il vino. L’estremità di questa canna sia pure munita di un robinetto, e la si faccia giungere sino al fondo della botte che si vuol riempire, acciò il vino si agiti il meno possibile, e prima d’averla riempiuta perfettamente s’innalzi la canna, e per mezzo del robinetto se ne limiti il getto fino al punto che non siavi spazio vuoto, dopo di che si chiude la chiave.

In questo modo si evita l’agitazione ed il contatto dell’aria che il vino ordinariamente subisce col trasporto e col versamento nelle botti.

Le botti devono esser riempite perfettamente e turate con cocchiume, senza dar forti colpi di martello. Nello svinare s’abbia poi anche l’avvertenza di tener separato il primo e l’ultimo vino che esce dal tino, perchè essendo torbido, guasterebbe la limpidezza dell’altro.

Cavato il primo vino, di solito si passa a trarre le vinaccie dal tino e si fa la torchiatura; ma, nel caso che siasi tenuta a parte una porzione di mosto biancastro estratto dalle navazze prima della pigiatura, si potrà versarlo sulle vinaccie quantunque già fermentate, quando però siansi tenute immerse nella parte liquida.

Con questo mezzo, che volgarmente dicesi incappellatura, il mosto biancastro ancor fermentante comunica nuovamente la fermentazione alle vinaccie; cessata la quale, si ottiene un vino più colorato, e più forte di quello che sarebbesi ottenuto lasciando quel mosto nella botte a terminare la fermentazione.