Trattato dei governi/Libro terzo/I

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Libro terzo - Capitolo I: Della città e del cittadino

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro terzo - Capitolo I: Della città e del cittadino
Libro terzo Libro terzo - II


A chi considera della republica che che ella sia, e di che natura, gli occorre quasi per la prima considerazione intorno alla città di vedere, che cosa ella è. Perchè di tal cosa oggi è dubbio, dicendo alcuni, che la città ha fatto una azione, e alcuni negandolo, ma dicendo e’ fu lo stato dei pochi potenti, o e’ fu il tiranno. Ma e’ si vede infatto, che la somma in questo negozio, che si piglia a far dall’uom civile, e dal legislatore, è intorno alla città: e che il governo d’uno stato non è altro, che una ordinazione fatta infra gli abitatori della città.

E perchè ella è un composto, non altrimenti che un altro, tutto di più parti, però imprima è da ricercar del cittadino; essendo la città un numero di cittadini. Laonde si debbe considerare chi sia, che meriti d’esser detto cittadino, e chi ei sia: perchè di lui invero molte volte si dubita, non confessando unitamente ogn’uomo d’un medesimo, che e’ sia cittadino. Perchè nello stato popolare se ne dà uno, che poi nello stato dei pochi molte volte non è più tale.

E lascisi qui la considerazione di quegli, che in altri modi hanno conseguito il nome di cittadino; come sono li fatti di nuovo: perchè il cittadino non è tale, perchè egli abiti in una città: conciossiachè gli servi, e gli artefici ancora essi vi abitino. Nè ancora sien cittadini quei, che in tal maniera partecipano della giustizia, che e’ possin irsene alla ragione, e esser giudicati: conciossiachè un tal giusto sia partecipe ancora a chi insieme fa traffico. Ed è in usanza, che simili possino partecipar delle ragioni di quei luoghi; avvenga che gli forestieri non ne partecipino interamente, anzi è loro di mesteri di pigliar uno avvocato.

Onde imperfettamente si può dire, e in certo modo, che e’ sien partecipi della ragione; ma che e’ sieno come i fanciulli, i quali per la piccola età non sono ancora scritti nel numero dei cittadini; e come li vecchi, che sono stati lasciati senza obblighi civili, i quali assolutamente cittadini non debbon chiamarsi, ma in certo modo. E debbevisi aggiugnere ch’e’ sien cittadini imperfetti quegli, e questi cittadini sfioriti, o altra simil cosa, che ciò non importa: essendo manifesto quello, che io vo’ dire, cioè, che noi cerchiamo qui di chi sia cittadino veramente, e che senza aver nessun difetto non abbia bisogno di correzione. Conciossiachè un medesimo dubbio si possa avere, e che e’ si possa nel medesimo modo sciorre e ne’ cittadini disonorati, e nei ribegli. Ma il cittadino vero con nessuna altra proprietà si definisce meglio, che col potere partecipare dei giudizî, e dei magistrati. Infra i quali alcuni ne son divisi coi tempi, di sorte che certi n’è, che una volta sola possono essere avuti da un medesimo, o per certi tempi determinati, e certi ne sono senza termino, siccome è il giudice, e il concionatore.

Ma forse qui potrebbe dirsi, che questi tali detti non fussin magistrati, e che per tal conto chi n’è, non fusse di magistrato partecipe: anzi è cosa ridicula a privar di nome di magistrati i principalissimi, e supremi gradi. Ma questo qui non importi, essendo la differenza solamente nel nome: (perchè il nome generale manca al magistrato di chi giudica, e di chi è concionatore) qualmente e’ debba l’uno, e l’altro chiamarsi: ma chiamisi per via di diffinizione magistrato indeterminato. E cittadini sien posti da noi esser quegli, che di quei magistrati sien partecipanti. E tal diffinizione sta quasi bene al cittadino, che infra tutti gli altri sia cittadin veramente.

Nè qui ci debbe esser nascosto, che nelle cose, dove sono i suggetti differenti di specie, che l’uno v’è primo dell’altro, e così va consequentemente, quivi o non darsi (in quanto che e’ son tali) cosa alcuna comune, o darsi debolmente. Ma i modi de’ governi son differenti di specie; e questi son prima, e questi son dopo. Conciossiachè gli governi peccanti, e che trapassano, per necessità si debbon collocare dopo i buoni. E in che modo stieno i governi che peccano, dirò io disotto. Però è di necessità che il cittadino sia di più sorte, secondo la diversità di ciascun modo di stato: onde il cittadino sopraddetto principalmente sia cittadino nello stato popolare. E negli altri può ei ben essere, ma non necessariamente; conciossiachè in alcuni stati non vi sia popolo, nè vi s’usi di ragunar la concione, nè senato: e usivisi di giudicare separatamente, siccome è in Sparta: dove de’ contratti vi danno giudizio gli Efori: ma chi ne giudica uno, e chi un altro. E il senato de’ vecchi vi rende ragione sopra le morti: e altri magistrati sopra altre cose vi porgon giudizio. E nel medesimo modo avviene in Cartagine, dove certi magistrati vi rendono ragion d’ogni cosa.

Ma la difinizion data del cittadino si può correggere, con dire, che negli altri governi il concionatore, e il senatore non è in magistrato indeterminato: ma è in magistrato determinato. Perchè un tale uffizio è conceduto o a tutti, o a certi: di consigliar dico, e di giudicare o di tutte le cose, o di certe. È manifesto pertanto chi sia il cittadino, cioè che d’una città si debba chiamar cittadino colui, che può convenir nel magistrato, che consiglia, e che giudica. E città si debbe dir quella, dove sia un numero di cittadini, che basti, per via di dire, alla sufficienza del vivere.

Ma continuando questa materia dico, ch’egli è stato determinato rispetto all’utile ancora per cittadino colui, che è nato d’amendue i genitori cittadini, e non d’uno solamente, come è di madre e di padre. Altri sono, che vogliono in tal determinazione andar più addentro, con pigliarci, gli avoli, e li bisavoli: e ancora più oltre. Ma per tal determinazione fatta civilmente, e con brevità, è chi dubita di quei terzi, o quarti ultimi, in che modo e’ venghino ad esser cittadini. E qui Gorgia Leontino parte dubitando, e parte forse parlando ironicamente, dice, che così come mortai sono quei, che son fatti dagli artefici d’essi, parimente che cittadini di Larissa sono quei, che son fatti dai loro fabbricatori. Perchè ei ve n’è di quei, che ne fabbricano: ma tal cosa è detta semplicemente. Conciossiachè se un partecipa nel governo secondo la difinizione data; questo tale viene ad essere cittadino. Ma egli è impossibile accomodare nei primi abitatori, o fondatori della città, l’essere nato di padre e di madre cittadina.

Ma forse è qui da dubitare maggiormente di quel, che sono stati ammessi al governo dopo le mutazioni degli stati; come fe’ Clistene in Atene dopo la cacciata dei tiranni, perchè e’ messe molti forestieri nelle tribù, e dei servi, e degli artefici vili. Ma il dubbio in simili è piuttosto non s’e’ sieno cittadini, ma s’e’ sieno cittadini giustamente o no; e qui ancora si potrebbe dubitare nuovamente se posto che tali non fussin cittadini giustamente, che e’ fussino dico contuttociò cittadini: come se tanto importasse l’esser cittadino ingiustamente, quanto il non essere. Ma perchè e’ si vede molti, che ingiustamente si portano nei magistrati, e contuttociò, che sono ne’ magistrati, sebbene ei non vi sono giustamente; e perchè il cittadino debbe essere difinito per via di qualche magistrato (imperocchè chi conviene in qualche magistrato è cittadino, siccome io ho detto): però questi tali debbono esser chiamati cittadini ancor’essi. Ma se e’ sieno giustamente o no, questo dico s’appicca al dubbio innanzi proposto, dove è dubitato da certi, quando la città ha fatto o non ha fatto una cosa. Come è verbigrazia quando dallo stato dei pochi, o dalla tirannide si trapassa nello stato popolare, allora è chi non vuole star fermo ai patti: come se il tiranno, e non la città gli avesse presi: od altre simili cose. Come se e’ si desse alcuni stati per fine proprio, e non per utilità publica.

Ora dunque se egli è vero, che in alcune città, che vivono popolarmente, si governino le faccende publiche per comodo proprio, parimente è da stimare, che l’azioni di tal governo stieno non altrimenti, che quelle dello stato de’ pochi; e che quelle della tirannide.