Typee/XXXII

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XXXI XXXIII

Nuova visita dello straniero. – Singolare intervista – Tentativo di fuga – Insuccesso – Triste situazione – Simpatia di Marheyo.

— Marnoo, Marnoo pemi!

Queste furono le gradite esclamazioni che udii circa dieci giorni dopo l’evento da me raccontato nel precedente capitolo. Ancora una volta l’annuncio che arrivava lo straniero sortì su di me il suo magico effetto. Avrei potuto finalmente parlare con qualcuno che avrebbe compreso la mia lingua; e a qualsiasi rischio decisi di accordarmi con lui per togliermi da una condizione divenuta ormai insopportabile.

Mentre si avvicinava, ricordai con molta apprensione la fine poco lieta della nostra prima intervista, e quando entrò in casa, fu con grande ansietà che m’accinsi ad osservare in che modo sarebbe stato ricevuto. Ma con mio gran sollievo la sua comparsa fu accolta con grandi dimostrazioni di giubilo. Avvicinatosi, mi si sedette vicino e si pose a conversare con gli isolani che ci attorniavano. Compresi però subito che questa volta non aveva alcuna notizia da comunicare. Gli chiesi da dove veniva. Rispose che giungeva da Pueearka, la sua vallata natia, e che intendeva ritornarvi lo stesso giorno.

Mi balenò subito nella mente che, se avessi potuto raggiungere quella vallata sotto la sua protezione, di là mi sarebbe stato facile arrivare a Nukuheva per via d’acqua; e animato dalla prospettiva di questo progetto, lo manifestai con brevi parole allo straniero. Il cuore mi mancò quando, nel suo imperfetto inglese, mi rispose che non si sarebbe mai potuto effettuare.

— Kannaka no te lasciare andare – disse – tu taboo. Perchè tu no piacere stare qui? Abbondanza moee-moee (dormire), abbondanza ki-ki (mangiare), abbondanza whihenee (ragazze). Oh! bel posto, Typee! Se non amare questa baia, perchè tu venire? Non sapere Typee? Tutti bianchi paura Typee, niente bianchi venire.

Queste parole mi preoccuparono al di là di ogni dire; e quando gli raccontai nuovamente le circostanze riferentesi alla mia discesa nella vallata e cercai di guadagnarmi la sua simpatia parlandogli delle sofferenze prodottemi dalla mia infermità alla gamba, mi ascoltò con impazienza; esclamando poi violentemente:

— Io non ascoltare più te; Kannaka, presto uccidere te e me pure. Non vedere tu lui non volere parlare me? ah! tu non importare: tu star bene, lui ti ammazzare, mangiare te e lassù tua testa Kannaka Happar. Ora tu ascoltare ma non parlare. Presto io andare via, tu vedere strada. Oh! allora una notte Kannaka tutti moeie-moee, (dormire), tu scappare venire Pueearka. Io parlare Kannaka di Pueearka, lui non far male te; allora io portare te mia canoa Nukuheva e te no scappare mai più bastimenti.

Con queste parole, accompagnate da una indescrivibile veemenza di gesti, Marnoo s’allontanò da me e immediatamente si pose a conversare con alcuni capi entrati allora in casa.

Non cercai di riprendere la conversazione terminata così perentoriamente da Marnoo che, evidentemente, non era troppo propenso ad arrischiare la propria pelle per tentare di salvare la mia. Ad ogni modo il progetto da lui suggerito mi pareva presentare qualche probabilità di riuscita, sicchè decisi di effettuarlo il più presto possibile.

Pertanto, quando si alzò per partire, lo accompagnai cogli indigeni fuori di casa, coll’intento di osservare attentamente la strada che egli avrebbe preso nel lasciare la vallata. Al momento di uscire dal phi-phi, egli mi strinse la mano e guardandomi con aria d’intesa esclamò:

— Ora vedi, te fare come io detto te, ah! allora fare bene; se non fare così ah! allora te morire.

Un momento dopo egli brandiva la sua lancia in atto di saluto agli isolani, e seguendo la strada che conduce a una gola nelle montagne opposte alle terre degli Happars, tosto scomparve alla mia vista.

Avevo ora di fronte una probabilità di fuga, ma in qual modo avrei potuto valermene? Ero continuamente attorniato da selvaggi; non, potevo recarmi da una casa all’altra senza essere accompagnato; e perfino nelle ore destinate al sonno, pareva che ogni più piccolo movimento che facevo, attirasse l’attenzione di quanti dividevano le stuoie con me. Tuttavia, malgrado questi ostacoli, mi decisi subito di fare il tentativo. Per intraprenderlo con qualche probabilità di successo, era necessario che io avessi almeno due ore di vantaggio prima che gli isolani scoprissero la mia fuga; poichè l’allarme si spargeva con tanta facilità nella vallata, e gli abitanti erano naturalmente così famigliari con tutti gli intricati passaggi delle selve e delle boscaglie, che non potevo sperare, debole e zoppo com’ero, di assicurarmi la fuga a meno io non avessi questo vantaggio. Inoltre era soltanto di notte che potevo effettuare il mio tentativo, ed anche allora usando della massima precauzione.

L’entrata alla casa di Marheyo era attraverso una stretta e bassa apertura nella facciata di vimini intrecciati. Questo passaggio, non so per quale ragione, veniva sempre chiuso dopo che la famiglia si era ritirata a riposare, mediante una pesante travatura posta di traverso e composta di una dozzina di pezzi di legno, ingegnosamente uniti assieme con impugnature di raffia. Quando qualcuno voleva uscire, il rumore cagionato dalla rimozione di questo pesante ordigno destava tutti, ed io avevo osservato che in tali occasioni gli isolani si dimostravano non meno irritabili degli individui di paesi più civilizzati.

Decisi di sormontare questa difficoltà nel modo seguente. Mi sarei alzato coraggiosamente durante la notte, e tolta la travatura sarei uscito di casa facendo finta di voler bere un po’ d’acqua dalla calebassa che si trovava sempre fuori dalla abitazione all’angolo del phi-phi. Nel rientrare avrei omesso di chiudere il passaggio, e fidando sull’indolenza dei selvaggi che non si sarebbero alzati per riparare alla mia negligenza, mi sarei di nuovo steso sulla mia stuoia in attesa che tutti si fossero riaddormentati, e quindi scivolar fuori e incamminarmi verso Pueearka.

La medesima notte che seguì la partenza di Marnoo, mi accinsi ad effettuare il mio progetto. Verso la mezzanotte, chè tale pensai fosse l’ora, mi alzai e tolsi la travatura. Gli indigeni, proprio come me l’ero immaginato, si destarono, mentre alcuni mi domandarono:

— Arware poo awa, Tommo? (dove vai, Tommo?).

— Wai (acqua) – risposi laconicamente afferrando la calebassa.

A questa mia risposta si stesero di bel nuovo, e dopo qualche minuto ritornai alla mia stuoia dove attesi il risultato del mio tentativo.

L’uno dopo l’altro i selvaggi parvero riaddormentarsi, e rallegrandomi del silenzio che regnava ovunque stavo per alzarmi di bel nuovo, allorchè udii un lieve fruscio, una forma nera si proiettò tra me e il passaggio, sentii il rumore del trave che ritornava a posto, e l’individuo, chiunque fosse, ritornò alla sua stuoia. Era questa una spiacevole delusione, ma siccome avrei certamente destati i sospetti degli isolani se avessi tentato nuovamente il colpo in quella stessa notte, decisi di attendere la notte ventura. Parecchie volte ripetei la stessa manovra, ma sempre col medesimo insuccesso, e poichè il pretesto di cui mi servivo per uscire era quello di spegnere la mia sete, Kory-Kory sia che sospettasse il mio progetto o sia che desiderasse farmi piacere, fatto sta che poneva regolarmente ogni sera una calebassa piena d’acqua vicino al mio giaciglio.

Tuttavia, malgrado queste poco favorevoli circostanze, rinnovai parecchie volte il mio tentativo; ma ogni volta il mio servitore si alzava sempre anche lui come se non volesse perdermi d’occhio. Perciò, almeno per qualche tempo, fui obbligato a rinunciare ai miei tentativi, pur consolandomi col pensiero che o un giorno o l’altro avrei potuto conseguire il mio intento.

Poco tempo dopo la visita di Marnoo, la mia gamba peggiorò talmente che camminavo con estrema difficoltà e che Kory-Kory quando volevo andare al fiume, doveva di nuovo caricarmi sulle proprie spalle.

Nel, periodo più caldo della giornata giacevo per ore ed ore sulla mia stuoia, e mentre coloro che mi circondavano se la dormivano saporitamente, io rimanevo desto, riflettendo tristemente al mio destino cui ormai parevami vana cosa resistere. Quando pensavo ai cari amici che risiedevano a migliaia e migliaia di miglia di distanza da questa Isola selvaggia in cui ero prigioniero, quando riflettevo che la mia sorte terribile rimarrebbe a loro sempre ignota anche dopo la mia morte, non potevo reprimere un brivido di angoscia.

Ogni più minuto particolare di quanto accadeva in quei lunghi giorni di attesa dolorosa, è ancora impresso vividamente nella mia mente.

Per mio desiderio le mie stuoie erano sempre stese di fronte alla porta, da cui a poca distanza, scorgevo il capanno di rami che il vecchio Marheyo stava costruendo.

Ogni qualvolta la gentile Fayaway e Kory-Kory si stendevano al mio fianco per riposare, io seguivo con grande interessamento ogni più piccolo movimento dell’eccentrico vecchio guerriero. Nel silenzio del meriggio tropicale, solo solo, egli proseguiva nel suo lavoro. Seduto all’ombra, intrecciava i virgulti dei rami del cocco, oppure rotolava sulle ginocchia le fibre di corteccia per formarne le cordicelle colle quali legava assieme la copertura della sua minuscola casa. Sovente osservando il mio sguardo melanconico fisso su di lui, sospendeva il proprio lavoro e alzando la mano in atto di profonda commiserazione, s’avanzava lentamente verso di me, entrava sulla punta dei piedi per timore di destare i dormenti, e prendendomi di mano il ventaglio di foglie mi si sedeva vicino e mi ventolava blandamente, guardandomi con occhi seri e compassionevoli.

Appena oltre il phi-phi, disposti a triangolo dinanzi all’entrata della casa, v’erano tre magnifici alberi del pane. Anche ora rivedo nella mia mente i loro rami lunghi e snelli, e le varie ineguaglianze della loro corteccia, su cui quotidianamente il mio sguardo soleva a lungo indugiare, durante le mie solitarie meditazioni. È strano come nel ricordo gli oggetti inanimati sian legati al nostro stato d’animo, e in ispecial modo nell’ora del dolore! Anche adesso, in mezzo al trambusto e al baccano della grande e affaccendata città in cui io vivo, l’imagine di quei tre maestosi alberi si riproduce così nitida nella mia mente come se li avessi davanti agli occhi, e tuttora provo quel dolce senso di pace che provavo allora nell’osservare per ore gli altissimi rami che la brezza lievemente agitava.