Typee/XXXIII

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XXXIII

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XXXII

La fuga.

Erano trascorse quasi tre settimane dalla seconda visita di Marnoo, e circa quattro mesi dal mio arrivo nella vallata, quand’ecco che un pomeriggio mentre tutto era silenzio profondo, Mow-Mow, il capo guercio, apparve improvvisamente sull’uscio, e piegandosi verso di me, disse a bassa voce:

— Toby pemi ena (Toby è arrivato qui).

Dio mio! quale tumulto di emozioni s’agitò in me nell’udire la sorprendente notizia! Senza far caso al dolore che mi faceva la gamba malata, balzai in piedi e a gran voce chiamai Kory-Kory che mi riposava vicino. Gli isolani stupiti s’alzarono dalle loro stuoie; la notizia venne comunicata immediatamente, e poco dopo, portato da Kory-Kory, mi avviai al Ti, seguito dagli isolani in grande eccitazione.

Tutto quel che potei comprendere da particolari riferiti da Mow-Mow man mano che procedevamo, fu che il mio compagno era giunto in una barca poco prima entrata nella baia. Queste notizie mi resero naturalmente ansioso di essere portato subito alla spiaggia per evitare che qualche imprevedibile circostanza impedisse il nostro incontro; ma i selvaggi non vollero acconsentire, e continuarono a procedere verso la dimora reale. Mentre ci approssimavamo, Mehevi e varii capi apparirono sulla piazza e ci invitarono ad alta voce di raggiungerli.

Appena gli fui vicino cercai di spiegargli che volevo recarmi al mare per incontrare Toby. Ma il re si oppose e fece segno a Kory-Kory di portarmi nella casa. Era vano resistere; così poco dopo mi trovai nel Ti, circondato da un gruppo di indigeni che rumorosamente discutevano sulle notizie. Il nome di Toby veniva, spesso ripetuto, accompagnato con le più vive esclamazioni di stupore. Pareva che avessero ancora dei dubbi sul suo arrivo, e ad ogni nuova informazione che giungeva dalla spiaggia, la loro agitazione diventava sempre più viva.

Esasperato di essere tenuto in questo terribile stato di incertezza, con tutte le mie forze supplicai Mehevi di permettermi di continuare la mia strada. Fosse o no arrivato il mio amico, avevo tuttavia il presentimento che era la mia stessa sorte che stava ora per decidersi. Più e più volte rinnovai la mia supplica a Mehevi. Egli mi fissava con occhi severi e indagatori, ma infine, pur a malincuore, cedendo alle mie insistenze consentì a quanto gli chiedevo.

Accompagnato da una cinquantina di indigeni, proseguii rapidamente il mio viaggio cambiando ogni momento dalle spalle dell’uno a quelle dell’altro e spronando i miei portatori ad andare più in fretta che potevano. Mentre così avanzavo, non mi avvenne neanche per un attimo di dubitare della veridicità dell’informazione ricevuta. Una sola idea mi possedeva: quella che una probabilità di liberazione mi si offriva sol che avessi potuto sormontare la gelosa apposizione dei selvaggi.

Essendomi sempre stato proibito, da quando mi trovavo nella vallata Typee, di avvicinarmi al mare, io lo avevo sempre associato all’idea della fuga. Anche Toby – dato che egli mi avesse volontariamente abbandonato – doveva essere fuggito per via di mare, ed ora che io pure mi vi accostavo, sentivo nascere in me una nuova fiduciosa speranza. Era evidente che una barca doveva essere entrata nella rada, e non vedevo ragione per dubitare che essa recasse a bordo il mio compagno. Perciò, a misura che ci avvicinavamo, mi guardavo ansiosamente intorno nella speranza di vederlo.

Avevamo coperto circa cinque miglia del cammino, allorchè ci vennero incontro una ventina di isolani che si misero a discutere animatamente con quelli della mia scorta. Impaziente pel ritardo causato da questa conversazione, stavo supplicando il mio portatore di procedere oltre, allorchè Kory-Kory, avvicinandosi a me, mi informò, con tre fatali parole, che le notizie erano false, che Toby non era giunto.

— Toby owlee permi.

Non so davvero come, nello stato fisico e morale in cui mi trovavo, io abbia potuto sostenere l’angoscia che quella nuova mi recò. Non che essa fosse del tutto inaspettata, ma avevo sperato che il fatto non fosse reso noto fino al nostro arrivo sulla spiaggia. Invece ora prevedevo come si sarebbero regolati i selvaggi. Essi avevano ceduto alle mie preghiere solo perchè io potessi riabbracciare il mio perduto compagno; ma ora che si sapeva come ei non fosse arrivato, mi avrebbero subito obbligato a ritornare indietro.

Le mie previsioni si dimostrarono pur troppo giuste. Nonostante la resistenza da me opposta, mi trasportarono in una casa vicina e depostomi sulle stuoie, mi lasciarono quivi. Poco dopo, parecchi di coloro che mi avevano seguito dal Ti, staccandosi dagli altri, si avviarono in direzione del mare. Quelli che rimasero – tra i quali vi erano Marheyo, Mow-Mow, Kory-Kory e Tinor si adunarono intorno all’abitazione e parvero attenderne il ritorno.

Questo mi convinse che degli stranieri – forse miei compatrioti – dovevano per qualche ragione essere entrati nella baia. Ossessionato dall’idea della loro vicinanza e senza badare nè alla pena fisica che soffrivo, nè alle assicurazioni degli isolani che non vi erano barche sulla spiaggia, balzai in piedi e cercai di raggiungere la porta. Ma immediatamente il passaggio fu ostruito da varii indigeni che mi ordinarono di ritornare al mio posto. Gli sguardi feroci dei selvaggi irritati mi ammonirono che non otterrei nulla colla fuga, e che soltanto colle preghiere potevo sperare di raggiungere il mio intento.

Mosso da queste considerazioni mi rivolsi a Mow-Mow, il solo capo che fosse presente, e senza far trapelare il mio reale pensiero, cercai di fargli capire che io credevo tuttavia che Toby fosse arrivato sulla spiaggia e lo supplicai di lasciarmi andare a salutarlo. Nè mi arresi alle sue proteste che del mio compagno non v’era traccia, e perorai la mia causa con tali eloquenti gesti, che il capo monocolo parve alfine persuaso. In verità, egli sembrava considerarmi come un ragazzo testardo e capriccioso, ai cui desideri egli non si sentiva di opporsi colla forza. Disse alcune parole agli isolani, che si ritrassero subito dalla porta, ed immediatamente io potei uscire dalla casa.

Cercai ora Kory-Kory, ma indarno; il mio fido servitore non si vedeva da nessuna parte. Allora, non volendo perdere uno solo di quei momenti preziosi, feci cenno a un individuo nerboruto di prendermi sulle spalle; con mia sorpresa egli rifiutò sdegnosamente. Mi volsi a un altro e a un altro ancora collo stesso risultato. Compresi allora perchè Mow-Mow aveva acconsentito alla mia preghiera e perchè gli indigeni avevano agito in modo così strano. Era evidente che il Capo mi aveva concesso di proseguire verso il mare soltanto perchè supponeva ch’io non sarei stato in grado di raggiungerlo.

Convintomi così della loro determinazione di trattenermi prigioniero, mi parve d’impazzire; e quasi insensibile al male prodottomi dalla gamba malata, afferrai una lancia che trovai a portata di mano e appoggiandomi a quella, ripresi il cammino. Fui ora stupito che mi si lasciasse proseguire da solo, mentre gli isolani fermi dinanzi alla casa discutevano animatamente; e fu con indicibile gioia che mi avvidi che doveva essere sorta tra loro qualche divergenza di pareri; che, in breve, si erano formati due partiti tra i quali era possibile che l’uno propendesse per la mia liberazione.

Non avevo ancor fatto un centinaio di metri, che di nuovo mi vidi attorniato dai selvaggi tuttora disputanti e quasi sul punto di venire alle mani. In questo momento Marheyo mi si accostò, e non dimenticherò mai la benevola espressione del suo viso. Egli mi posò una mano sulla spalla, e con enfasi pronunciò una dolce parola inglese che gli avevo insegnato: «Tua casa». Compresi subito ciò che voleva esprimere e con tutta l’anima lo ringraziai. Fayaway e Kory-Kory gli erano vicini e entrambi piangevano dirottamente; ma fu soltanto quando il vecchio gli ebbe ripetuto l’ordine, che il figlio acconsentì a riprendermi sulle spalle. Il Capo monocolo cercò opporsi, ma fu sopraffatto, e, a quanto mi parve, da qualcuno del suo stesso partito.

Procedemmo innanzi, e mai dimenticherò il senso di felicità provato nel riudire lo scroscio della risacca che s’infrangeva sulla spiaggia. Dopo non molto potei pure intravedere le onde spumeggianti tra le fronde degli alberi! Oh! vista grandiosa, oh! maestoso fragore dell’Oceano! con quale rapimento vi salutai, o amici cari! Ora mi giungevano distintamente anche le esclamazioni e le grida della folla riunita sulla spiaggia e nella confusione dei suoni quasi mi pareva di udire le voci dei miei stessi compagni.

Quando giungemmo alla radura stendentesi tra le boscaglie e il mare, il primo oggetto che mi si parò dinanzi fu una baleniera inglese, colla prua volta al largo, e appena a poche braccia dalla spiaggia. Era manovrata da cinque isolani, vestiti di corte tuniche di cotonina. La mia prima impressione fu che stavano per remare verso il largo, e che nonostante i miei sforzi, ero giunto troppo tardi. Sentii mancarmi il cuore; ma un secondo sguardo mi convinse che la baleniera manovrava per tenersi fuori della risacca; e ad un tratto udii chiamarmi per nome da una voce che partiva dalla folla.

Guardando in quella direzione, scorsi con indescrivibile gioia, l’alta figura di Karakoee, un Kannaka Oahu, che sovente era salito a bordo della «Dolly» mentre stava all’ancora a Nukuheva. Egli indossava la giacca verde con bottoni dorati, che gli era stata donata da un ufficiale della «Reine Bianche» – la nave ammiraglia francese – e che gli avevo sempre veduto indossare. Mi rammentavo ora che il Kannaka mi aveva detto sovente come la sua persona fosse «taboo» in tutte le vallate dell’isola, e il vederlo in tale momento mi riempì il cuore di gioia.

Karakoee stava vicino alla sponda; aveva un grosso rotolo di cotonina sopra una spalla; in una mano teneva due o tre sacchetti di polvere da sparo, e nell’altra un moschetto che egli pareva in atto di offrire a qualcuno dei capi attorno a lui. Ma essi respingevano con disdegno le sue offerte, e anzi sembravano irritati della sua presenza, poichè accennavano con violenti segni che egli ritornasse alla sua barca e se ne partisse.

Il Kannaka, però, non si muoveva, e io compresi che cercava di riscattare la mia libertà. Animato da quest’idea, gli gridai ad alta voce di venire da me; ma egli rispose nel suo inglese incerto, che gli isolani avevano minacciato di passarlo da parte a parte colle loro lancie se muoveva un passo verso di me. Intanto io continuavo ad avanzare, circondato da una fitta schiera di indigeni, alcuni dei quali mi minacciavano coi giavellotti. Pure mi accorgevo benissimo che anche molti dei meno ben disposti verso di me, erano indecisi ed ansiosi.

Mi trovavo a una trentina di metri da Karakoee, quando gli indigeni mi impedirono di proseguire e mi obbligarono a sedermi per terra. Il frastuono e il tumulto si fecero assordanti, e mi avvidi che varii sacerdoti si trovavano sul posto, ed evidentemente ingiungevano a Mow-Mow e agli altri capi di impedire ch’io partissi; mentre l’odiosa parola: «Roone-Roone!» che avevo udito ripetere migliaia di volte in quel giorno, risuonava da ogni lato. Ciò nonostante osservai che il Kannaka continuava a fare ogni sforzo in mio favore – egli discuteva coraggiosamente coi selvaggi e cercava di ammansirli offrendo la cotonina e la polvere e facendo scattare il grilletto del fucile. Ma tutto quanto diceva o faceva, serviva soltanto ad aumentare i clamori dei selvaggi che sembravano volerlo gettare in mare.

Nel ricordare lo stravagante valore attribuito dagli indigeni agli oggetti che venivan loro offerti in cambio della mia liberazione, vidi ora nel fatto che essi sdegnosamente li rifiutavano, una nuova prova della stessa incrollabile determinazione che li animava nei miei riguardi, sicchè, in preda alla disperazione e senza pensare alle conseguenze del mio atto, feci appello a tutta la mia forza, e liberatomi con uno strattone da coloro che mi trattenevano, balzai in piedi e mi slanciai verso Karakoee.

Fu forse questo audace tentativo a segnar la mia sorte; poichè temendo ch’io potessi fuggire, parecchi isolani urlando ad una voce si lanciarono su Karakoee, minacciandolo con gesti furibondi e forzandolo a retrocedere nell’acqua. Intimorito dalla loro violenza, il poveretto, che era già a metà vita nell’acqua, cercava tuttavia di pacificarli; sinchè infine, nel timore di aver la peggio, fece segna ai suoi compagni di remare alla sua volta per prenderlo.

Fu proprio in questo momento, in cui credevo che tutto fosse finito per me, che una nuova contestazione si accese tra i due partiti che mi avevano accompagnato alla spiaggia; volarono colpi, si infersero ferite e il sangue colò. Nella confusione tutti mi avevano lasciato solo, all’infuori di Marheyo, di Kory-Kory, e della povera cara Fayaway che si era avvinta a me singhiozzando disperatamente. Compresi che quello, o mai più, era il momento. A mani giunte mi rivolsi implorando a Marheyo e quindi mi avviai verso la spiaggia quasi deserta. Negli occhi del vecchio luccicavano le lacrime, ma nè lui nè Kory-Kory tentarono di trattenermi, e in un momento io potei raggiungere il Kannaka, che ansiosamente aveva osservato i miei movimenti; i rematori s’accostarono per quanto poterono fino all’orlo della risacca; diedi un ultimo abbraccio a Fayaway, che pareva impietrita dal dolore, e mi trovai in un baleno al sicuro nella barca vicino a Karakoee, il quale diede l’ordine ai rematori di largare immediatamente. Marheyo e Kory-Kory, e gran numero di donne mi seguirono nell’acqua, e quale unico e solo pegno della mia riconoscenza mi decisi di dar loro gli oggetti che erano stati portati colà pel mio riscatto. Stesi il moschetto a Kory-Kory, buttai il rotolo di cotonina al vecchio Marheyo, accennando alla povera Fayaway che sedeva sconsolata sulla spiaggia, e distribuii i sacchetti di polvere tra le fanciulle più vicine che furon molto liete di averli. Questa distribuzione non occupò che dieci minuti, e prima che finisse, la barca aveva già preso il largo, mentre il Kannaka continuava a protestare per quello ch’egli considerava un inutile sciupio di roba di valore.

Sebbene i miei movimenti dovessero certo essere stati notati dagli indigeni, questi non avevano però smesso di azzuffarsi, e fu soltanto quando la barca si trovava già a una cinquantina di metri da terra, che Mow-Mow e cinque o sei altri guerrieri si precipitarono in mare e ci lanciarono i loro giavellotti. Alcune di queste armi ci sfiorarono da vicino, ma nessuno rimase ferito e gli uomini continuarono a remare con lena. Ma per quanto ormai fuori di tiro, la nostra avanzata era assai lenta; sulla spiaggia tirava vento e noi eravamo contro corrente. Osservai allora che Karakoee, il quale era al timone, gettava continuamente uno sguardo inquieto verso un promontorio sotto il quale dovevamo passare.

Per qualche momento, dopo la nostra partenza, i selvaggi erano rimasti tranquilli e silenziosi. Ma a un tratto il Capo, furibondo dimostrò coi suoi gesti ciò che aveva deciso di fare. Chiamando ad alta voce i compagni e indicando col suo tomahawk il promontorio, si precipitò di corsa in quella direzione, seguito da una trentina di indigeni, tra i quali parecchi sacerdoti. Tutti urlavano «Roone! Roone!». Evidentemente la loro intenzione era di buttarsi a mare dal promontorio e di nuotare verso di noi per arrestare la nostra corsa. Il vento intanto si faceva sempre più forte, le onde più brevi, e il vogare diveniva sempre più difficile. C’erano tuttavia ancora parecchie probabilità in nostro favore, senonchè quando giungemmo a circa cento metri dalla punta, gli arditi selvaggi già stavano lanciandosi in acqua minacciando in pochi minuti di circuire la nostra imbarcazione. Se così avveniva la nostra sorte sarebbe stata segnata, poichè tali selvaggi, diversamente dai deboli nuotatori delle contrade civili, sono forse avversari più temibili in acqua che sulla terra ferma. Era una gara di forza; i rematori vogavano fino a quasi rompere i remi, e la folla dei nuotatori fendeva l’acqua agitata con spaventosa rapidità.

Quando l’imbarcazione giunse al promontorio, i selvaggi erano sparsi lungo la nostra rotta. I nostri rematori sfoderarono i loro coltelli e li tennero pronti tra i denti. Io afferrai il gancio della barca. Sapevamo tutti benissimo che se fossero riusciti a intercettarci il cammino, avrebbero usato anche con noi quella loro tattica già fatale a tanti disgraziati equipaggi. Si sarebbero aggrappati ai remi, e afferrando la batteria avrebbero rovesciata la barca e allora ci avrebbero completamente avuti in loro possesso.

Dopo alcuni momenti di ansia indicibile, vidi Mow-Mow. L’atletico isolano, con il suo tomahawk tra i denti, fendeva l’acqua che era tutta in ebullizione intorno a lui. Tra tutti ci era il più vicino, e un minuto dopo avrebbe afferrato un remo. Anche ora, mentre ne scrivo, sento tutto l’orrore dell’atto che stavo per compiere; ma non era momento quello per la pietà e il rimorso, e usando di tutta la mia sforza a colpo sicuro gli lanciai il graffio: esso lo colpì alla gola e lo sospinse sott’acqua. Non ebbi tempo per ripetere il colpo, ma lo vidi sorgere alla superficie nella scia della barca, e mai non potrò dimenticare la feroce espressione di quel volto.

Dopo di lui soltanto un altro selvaggio raggiunse la barca. Afferrò la batteria, ma i coltelli dei nostri rematori tanto malmenarono i suoi polsi, da obbligarlo a lasciar la presa, e poco dopo eravamo al sicuro, lontani da loro. La forte tensione di nervi che mi aveva sostenuto fin là improvvisamente mi lasciò, e io caddi svenuto tra le braccia di Karakoee.

* * *


Le circostanze che si connettono colla mia improvvisa fuga possono riassumersi molto brevemente. Il capitano di una nave australiana trovandosi a corto di uomini in quei mari remoti, aveva buttato l’ancora a Nukuheva allo scopo di cercarvi delle reclute per riformare il suo equipaggio. Ma non gli era riuscito di trovare neppure un uomo, e la nave stava per salpar l’ancora, allorchè essa era stata abbordata da Karakoee, che aveva informato il deluso capitano come un marinaio americano si trovasse prigioniero dei selvaggi nella vicina baia di Typee; ed aveva offerto, se però fornito di opportuni articoli di scambio, di tentare la sua liberazione. Il Kannaka aveva avuto le mie notizie da Marnoo, al quale, dopo tutto, dovevo la mia fuga. La proposta era stata accettata dal capitano inglese; e Karakoee, prendendo con sè cinque indigeni «taboo» di Nukuheva, era salito a bordo della barca, che dopo poche ore ammainava la sua vela maestra proprio all’entrata della baia di Typee. La baleniera, armata della ciurma taboo, aveva vogato verso l’insenatura, mentre la nave stava in attesa del suo ritorno a non grande distanza.

Gli eventi che seguirono sono già stati narrati. Quando giungemmo sotto bordo della «Giulia» io fui sollevato sul ponte, e il mio strano aspetto, insieme con la mia ancor più strana avventura, furono oggetto di grande interessamento. Fui circondato d’ogni sorta di cure e di attenzioni; ma ero ridotto in tale stato, che dovettero trascorrere tre mesi prima che riacquistassi la mia primiera salute.

Il mistero che incombe sulla sorte del mio amico Toby, non si è mai chiarito, ed ancora ignoro se sia riuscito a fuggire dalla valle, o se invece sia perito per mano di quegli isolani.



SEGUITO DELLA STORIA DI TOBY

Nota. – L’autore di «Typee» restò, dopo la sua fuga dalla vallata, per oltre due anni nei Mari del Sud. Qualche tempo dopo il suo ritorno in patria egli pubblicò quel racconto, senza pensare tuttavia che sarebbe stato il mezzo di rivelare l’esistenza di Toby da lungo tempo considerato come perduto. Ma avvenne proprio così. La narrazione della sua fuga fornisce quindi il seguito naturale dell’avventura, e perciò l’aggiungiamo al volume. Essa fu raccontata all’autore dallo stesso Toby.

Il mattino in cui il mio compagno m’aveva lasciato, s’erano con lui accompagnati parecchi indigeni, i quali, essendosi sparsa la voce che alcune barche erano giunte nella baia, avevano preso con sè frutta e maiali selvatici allo scopo di barattarli sulla spiaggia.

Mentre poi avanzarono attraverso la parte abitata della vallata, numerosi altri isolani, si erano uniti alla carovana, discorrendo, e gesticolando animatamente. E tanto erano ansiosi di raggiungere la spiaggia, che a stento Toby era riuscito a tener loro dietro.

Dopo un poco giunsero a un punto dove il sentiero attraversava una curva del torrente principale della vallata. Quivi si udì uno strano suono proveniente dai boschi e gli isolani si fermarono. Era Mow-Mow, il Capo guercio, che era partito prima degli altri e che batteva colla sua grossa lancia contro il tronco vuoto di un albero.

Era un segnale d’allarme, e ora non si sentì che il grido di «Happar Happar!». I guerrieri brandivano e agitavano le loro lancie, mentre le donne e i fanciulli schiamazzavano e raccoglievano sassi nel letto del torrente. In un momento Mow-Mow e due o tre altri capi si fecero largo nella boscaglia e il chiasso ancora si accrebbe.

Prevedendo uno scontro, forse sanguinoso, Toby, che era disarmato, chiese a uno dei giovani domiciliati nella casa di Marheyo, di imprestargli la sua lancia. Ma quegli rifiutò, dicendogli con aria furba che l’arma era buona per un Typee, ma che un uomo bianco poteva battersi assai meglio coi propri pugni.

L’allegro umore di quel giovane pareva essere condiviso anche dagli altri, poichè, ad onta delle loro grida guerresche, tutti ridevano e saltavano, come se fosse la cosa più divertente del mondo il probabile lancio di una ventina di giavellotti da parte degli Happars.

Mentre il mio compagno invano si scervellava per comprendere il significato dello strano contegno degli indigeni, un certo numero di essi si divise dal rimanente e si lanciò nella boscaglia, mentre gli altri se ne stettero cheti come ad attendere il risultato. Dopo un poco però, Mow-Mow fece cenno a costoro di avanzare con precauzione, il che essi fecero, senza quasi smuovere una foglia. Strisciarono così per dieci e quindici minuti, fermandosi di tanto in tanto in ascolto.

A Toby non piaceva affatto questo sistema di appiattarsi ed attendere; se doveva esservi battaglia, avrebbe desiderato si iniziasse subito. Ma ecco che a un tratto mentre si trovavano nel più fitto del bosco, da ogni lato si elevarono urla spaventose e nugoli di freccie e di sassi volarono attraverso il sentiero. Non si scorgeva un nemico, e ciò che era ancora più strano, non un uomo era colpito, sebbene i sassi cadessero come gragnuola.

Vi fu un istante di tregua, poi i Typees, con grida selvaggie, si slanciarono nella boscaglia brandendo le lancie. Nè Toby rimase indietro: animato da un vecchio rancore verso gli Happars e dopo aver corso il rischio che quasi gli spaccassero il cranio con uno dei loro sassi, egli fu tra i primi a slanciarsi all’attacco. Mentre cercava di farsi una via tra il ceduo e tentava in pari tempo di strappare una lancia ad un giovane capo, le grida di guerra a un tratto cessarono e nel bosco vi fu un silenzio di morte. Un momento dopo gli indigeni che si erano staccati così misteriosamente dal resto della brigata, sbucarono da ogni cespuglio e da ogni pianta, e unitisi agli altri, proruppero tutti assieme in una sonora risata.

Non era stata che una burla e Toby, che era rimasto, senza fiato per l’eccitazione, fu assai sdegnato di quella beffa fatta alle sue spalle.

Seppe poi che la faccenda era stata concertata per suo speciale beneficio, con quale scopo però, era un po’ difficile indovinare. Il mio camerata rimase tanto più irritato, inquantochè gli aveva fatto perdere del tempo di cui ogni attimo poteva essere prezioso. Era probabile però che almeno in parte questo ne fosse lo scopo, e Toby ne fu quasi sicuro quando si avvide che gli isolani non parevano più avere la fretta di prima. Infine, dopo aver percorso una certa distanza, incontrarono due indigeni che li fecero fermare impegnando una clamorosa discussione durante la quale Toby udì soventi ripetere il proprio nome. Tutto ciò non fece che renderlo più impaziente di sapere ciò che avveniva alla spiaggia, ma invano cercava ora di andare avanti, chè i selvaggi lo trattenevano.

Finalmente la discussione ebbe termine e parecchi indigeni si diressero verso il mare, mentre gli altri, circondando Toby, lo consigliavano di «moee», ossia di sedersi e riposare. Ad indurvelo, gli posero vicino varie calebasse piene di cibo e accesero pure le pipe. Per un poco Toby ebbe pazienza ma alla fine balzò in piedi e si lanciò avanti. Ma questa volta gli indigeni, pur raggiungendolo e accompagnandolo, non gli impedirono più di proseguire verso la spiaggia.

Giunsero così in un vasto spiazzo verdeggiante tra il bosco e il mare a ridosso delle montagne Happar, dove si scorgeva un sentiero serpeggiante che si perdeva in una gola.

Non v’era tuttavia nessuna traccia di barche; ma soltanto una tumultuosa folla di uomini e donne, tra cui uno che sembrava arringarli. Come il mio compagno si avanzava, questa persona gli si fece incontro, e Toby vide subito che non gli era sconosciuta. Era un vecchio marinaio dai capelli grigi, che Toby ed io avevamo veduto di frequente a Nukuheva, dove col nome di Jimmy conduceva una vita facile e spregiudicata, nella casa del re Mowanna. Egli era suo favorito e la sua parola aveva un certo peso nelle decisioni del suo Signore. Portava un cappello di paglia manilla e una veste di tappa, mezza aperta sì da lasciar scorgere le strofe di via canzone tatuata sul suo petto, e uno svariato campionario di altri tatuaggi dovuti ad artisti indigeni sul resto del corpo. Aveva in mano una lenza, e attaccata al collo con una cordicella portava una vecchia pipa fuligginosa.

Questo vecchio vagabondo, ritiratosi dalla vita pubblica, dimorava da un certo tempo a Nukuheva, ne conosceva il linguaggio, e per tal ragione i francesi lo usavano sovente quale interprete. Era anche un famoso pettegolo; soleva abbordare le navi colla sua canoa e ammaniva agli equipaggi gli scandali di corte, oppure narrava incredibili storie delle Isole Marchesi. Ricordo che una volta raccontò all’equipaggio della «Dolly» una storia mirabolante che risultò poi completamente inventata, di due straordinari fenomeni che egli asseriva abitassero nell’Isola. L’uomo era un vecchio eremita, avente meravigliosa riputazione di santità e di stregoneria, che viveva in un antro remoto in mezzo alla montagna, nascondendo al mondo un paia di corna che gli crescevano sulla fronte. Nonostante la sua fama di santità, l’orribile individuo era il terrore dell’Isola, e si diceva che quando calavano le ombre della notte egli uscisse dal suo antro e si desse alla caccia all’uomo. Un tale ignoto Paolo Pry, scendendo dalla montagna aveva potuto dare uno sguardo nel suo covo e lo aveva trovato pieno di ossami. Si trattava insomma di un mostro orrendo.

L’altro fenomeno di cui ci raccontò Jimmy, era il figlio minore di un capo, il quale, sebbene avesse appena compiuti dieci anni, aveva preso gli ordini sacri perchè i suoi superstiziosi compaesani lo avevano ritenuto specialmente destinato al sacerdozio pel fatto che aveva una cresta sul capo, come un gallo. Ma questo non era tutto: poichè, meraviglioso a dirsi, il ragazzo si sentiva fiero di quella strana cresta, ed era dotato di una voce simile a quella del gallo, che lo induceva a cantare sovente nel modo stesso di quel bipede.

Ma ritorniamo a Toby. Non appena ebbe veduto il vecchio vagabondo sulla spiaggia, gli corse incontro cogli indigeni, che lo seguirono e formarono circolo intorno a loro.

Dopo avergli dato il benvenuto, Jimmy gli disse che sapeva benissimo come noi fossimo fuggiti dalla nave e ci trovassimo presso i Typees; anzi il re Mowanna gli aveva fatto premura di scendere nella vallata, e dopo avervi visitati i suoi amici, di ricondurci da lui, perchè il suo real padrone era assai desideroso di dividere con lui la ricompensa offerta per la nostra cattura. Egli, però, ne aveva sdegnosamente rifiutato l’offerta, così almeno assicurò a Toby.

Tutto questo non poco stupì il mio compagno, perchè nè lui nè io avevamo mai avuto la benchè minima idea che dei bianchi visitassero amichevolmente i Typees. Ma Jimmy lo assicurò che era proprio così, per quanto raramente egli venisse nella baia, e difficilmente si allontanasse dalla spiaggia. Uno dei sacerdoti della vallata, amico di un vecchio prete tatuato di Nukuheva, era pure suo amico, e a mezzo suo egli era stato dichiarato «taboo».

Egli disse inoltre che talvolta lo incaricavano di venire nella baia ad acquistare delle frutta pei bastimenti ancorati a Nukuheva. Anzi, era proprio per questo motivo che si trovava qui, avendo attraversato le montagne per la via di Happar. Il giorno dopo pel pomeriggio sperava di avere la frutta ammucchiata sulla spiaggia pronta per essere caricata.

Jimmy a questo punto chiese a Toby se desiderava lasciare l’Isola, perchè in questo caso, vi era una nave ancorata nell’altro porto, che aveva bisogno di uomini ed egli sarebbe stato lieto di condurlo e farlo imbarcare quel giorno stesso.

— No, – rispose Toby, – non posso abbandonare l’Isola senza il mio compagno. L’ho lasciato nella vallata perchè non gli hanno permesso di venire con me. Andiamo a prenderlo.

— Ma come potrebbe attraversare la montagna con noi, – replicò Jimmy, – anche se riusciamo a farlo venire alla spiaggia? Sarebbe meglio lasciarlo dov’è fino a domani ed io lo condurrò meco a Nukuheva colle barche.

— Niente affatto – insistette Toby, – andiamo piuttosto adesso e conduciamolo qui ad ogni costo. – E cedendo al suo impulso, si mosse per ritornare nella vallata. Ma si era appena voltato che una dozzina di mani lo afferrarono.

Invano egli lottò per liberarsi; egli non doveva muoversi dalla spiaggia. Angosciato per questue inaspettata ripulsa, Toby scongiurò allora il vecchio marinaio di recarsi da me almeno lui. Ma Jimmy rispose che i Typees, pur non facendogli alcun male, non glielo avrebbero certo permesso.

Non sapeva allora Toby, come ebbe ragione di sospettare in seguito, che Jimmy era un ribaldo senza cuore, il quale colle sue arti aveva indotto gli indigeni a trattenerlo mentre si avviava per venire da me. Ben sapeva inoltre il vecchio marinaio che gli indigeni non avrebbero mai consentito che partissimo assieme; e perciò intendeva di condurre via soltanto Toby e questo per uno scopo che si seppe più tardi.

Toby stava ancora lottando coi selvaggi, allorchè Jimmy gli si accostò e lo consigliò di non irritarli, dicendo che non avrebbe fatto che peggiorare la situazione di entrambi. A questo punto fece sedere Toby sopra una canoa abbandonata, vicino a un mucchio di sassi su cui posava un piccolo altare rovinato, sorretto da quattro pagaie e parzialmente nascosto da una rete da pesca. I pescatori di ritorno dalle loro spedizioni peschereccie, si incontravano qui, a porre le proprie offerte dinanzi a un simulacro sopra una pietra nera e levigata. Questo luogo, a quanto disse Jimmy, era severamente «taboo», e nessuno gli sarebbe venuto vicino nè lo avrebbe molestato fino a che vi fosse rimasto. Il vecchio marinaio ora lo lasciò, ed accostatosi a Mow-Mow e ad altri capi, cominciò a parlare animatamente con loro, mentre gli altri facevano circolo intorno al posto taboo, fissando Toby e chiacchierando senza posa.

Ora, ad onta di quello che gli aveva detto Jimmy, una vecchia si accostò al mio compagno e si sedette vicino a lui sulla canoa.

— Typee Mortarkee? – domandò.

— Mortarkec muee – rispose Toby.

Essa allora gli chiese se andava a Nukuheva; egli fece cenno di sì. Allora la donna con un gemito di compianto e gli occhi pieni di lagrime si alzò e lo lasciò.

Il vecchio marinaio gli disse poi che quella vecchia era la moglie del re di una piccola vallata interna comunicante a mezzo di un passaggio profondo colla contrada dei Typees. Gli abitanti delle due vallate erano consanguinei e chiamati collo stesso appellativo. La vecchia era scesa nella valle dei Typees il giorno prima, e si recava ora con tre capi, che erano suoi figli, a visitare un parente.

Non appena costei se ne fu andata, Jimmy tornò da Toby e lo informò che aveva discusso la faccenda cogli indigeni, e che per lui v’era solo una via da seguire. Essi non gli avrebbero permesso di tornare nella valle, e certo non poteva venire che del danno sia a lui che a me se egli fosse rimasto ancora sulla spiaggia.

— Perciò – proseguì Jimmy – è meglio che voi ed io ritorniamo a Nukuheva per via di terra, e domani io condurrò Tommo, come lo chiamano, per via di mare; essi hanno promesso di condurmelo sulla spiaggia domattina per tempo, così non vi saranno ritardi.

— No, no – insistette Toby disperatamente – non voglio lasciarlo così; dobbiamo fuggire assieme.

— Ebbene, allora è finita per voi gridò il marinaio – poichè se vi lascio qui sulla spiaggia, non appena io sia partito, essi vi ricondurranno nella vallata, e allora state certo che nè voi nè lui rivedrete mai più il mare.

E con infiniti giuramenti dichiarò che se Toby consentiva a seguirlo a Nukuheva, il giorno dopo mi avrebbe immancabilmente condotto da lui,

— Ma come sapete che lo condurranno alla spiaggia domani quando non vogliono farlo oggi? – chiese Toby.

Ma il marinaio aveva pronte molte buone ragioni e tutte così ingarbugliate coi riti degli isolani, che Toby non seppe più cosa dire. Tutto questo era aggravato dal dubbio che non era impossibile che quel birbante d’un marinaio lo ingannasse. Il pensiero che io, nel mio stato di salute, rimanessi solo tra i selvaggi, non gli dava pace. Chi sa che, dopo tutto, seguendo Jimmy, egli non potesse salvarmi? Ma se poi i selvaggi nella sua assenza mi nascondessero in qualche remota parte della valle? Eppure, anche se fosse rimasto, non poteva essere sicuro che gli avrebbero permesso di tornare da me.

In tanta perplessità, il mio povero compagno non sapeva che cosa decidere, nè il suo animo coraggioso gli era di verun aiuto in tale contingenza. Eccolo lì, tutto solo su quella canoa, cogli indigeni che non lontani lo guardavano sempre più fissamente.

— Si fa tardi – disse Jimmy. – Nukuheva è lontana, ed io non posso attraversare il paese degli Happars di notte. Le cose stanno così: se voi venite con me tutto va bene; se non venite, vi assicuro che nessuno di voi due potrà più fuggire.

— Non c’è che fare – rispose Toby – devo fidarmi di voi. – Uscì dall’ombra del piccolo altare e avvolse d’un lungo sguardo la vallata che non avrebbe visto mai più.

— Ed ora state ben vicino a me – ingiunse il marinaio – e andiamo avanti a passo svelto.

A questo punto apparve Tinor con Fayaway; la buona vecchia abbracciava le ginocchia di Toby, piangendo dirottamente; mentre Fayaway, anch’essa molto commossa, disse alcune parole inglesi che aveva imparato, alzando tre dita a significare che in altrettanti giorni egli sarebbe certo ritornato.

Infine Jimmy riuscì a tirar Toby fuori dalla folla, e dopo aver chiamato un giovane Typee che aveva tra le braccia un porchetto di latte, si misero tutte tre in cammino pei monti.

— Ho detto a costoro che sareste ritornato – disse il vecchio, ridendo, mentre cominciavano a salire – ma dovranno attendere un bel po’.

Toby si voltò e vide che tutti i selvaggi erano in moto: le fanciulle sventolavano le loro sciarpe di tappa in segno d’addio e gli uomini brandivano le lancie. Quando l’ultima figurina entrò nella boscaglia col braccio rialzato e le tre dita stese, egli si sentì invadere da una grande tristezza.

II fatto che gli indigeni avevano acconsentito alla sua partenza, poteva anche provare che, almeno alcuni di loro, contavano veramente sul suo pronto ritorno; e questo forse perchè egli li aveva informati che il solo suo scopo nel lasciarli era di andare a prendere i medicinali che mi abbisognavano, ed essi ritenevano garante me del ritorno del mio inseparabile amico. Tuttavia questa è solo una mia supposizione, poichè tutto quanto riguarda la strana condotta degli indigeni è tuttora un mistero.

— Avete visto come sono «taboo» – diceva il marinaio dopo qualche istante di silenziosa ascesa. – Mow-Mow mi ha regalato questo porcellino, e l’uomo che lo porta verrà con noi attraverso l’Happar, sino a Nukuheva. Fintanto che rimane con me è salvo, e così voi, e domani Tommo. Su, state di buon animo, fidatevi di me e lo rivedrete domattina.

L’ascesa della montagna non era gran che ripida, il sentiero era agevole, e dopo non lungo tempo, i tre viaggiatori si trovavano sulla vetta, da cui si vedevano le due vallate. Le spumeggianti cascate che scendevano dalle verdeggianti balze nella valle dei Typees, colpirono subito lo sguardo di Toby e non gli fu difficile localizzare la casa di Marheyo.

Egli, a misura che si avanzavano sul crinale. osservò pure che la vallata degli Happars non si estendeva nell’interno quanto quella dei Typees. E ciò spiegava l’errore da noi fatto entrando nella valle di costoro.

Preso un sentiero che scendeva dalla montagna, la comitiva si trovò ben presto nella valle degli Happars.

— Ed ora vi dirò una cosa – disse Jimmy. – Noi altri uomini taboo abbiamo delle mogli in tutte le baie, e ora vi farò vedere le due che ho qui.

Ma, allorchè giunsero alla casa ove queste risiedevano, ai piedi della montagna in un angolo ombreggiato tra i boschi, le due donne non c’erano. Non tardarono tuttavia a ritornare, e a dire il vero accolsero Jimmy con tutta la cordialità possibile, estendendo il benvenuto anche a Toby, di cui si informarono con curiosità. Ora però giunsero degli altri Happars, e il mio amico si avvide che la presenza di un uomo bianco tra loro, non era poi un evento così straordinario come nella valle limitrofa.

Il vecchio marinaio intanto chiese alle sue mogli di preparare qualche cosa da mangiare, perchè desiderava trovarsi a Nukuheva prima di notte. Un pasto di pesce, frutti del pane e di banane venne subito servito sulle stuoie, e consumano in mezzo a numerosa compagnia.

Gli Happars fecero molte domande a Jimmv sul conto di Toby; e Toby stesso si guardava intorno con aria indagatrice per tentare di rintracciare colui che gli aveva inflitto la ferita di cui ancora soffriva. Ma si vedeva che quell’audace indigeno, così abile nel maneggiare la lancia; era restio ora a farsi vedere. Alcuni buontemponi Happars pregarono poi Toby di fermarsi alcuni giorni tra loro dovendo esservi una festa, ma egli naturalmente rifiutò.

Durante tutto questo tempo il giovane Typee non abbandonò mai Jimmy, e per quanto a casa sua fosse un giovanotto assai ardito, qui era mite come un agnello e non apriva la bocca che per mangiare. E sebbene qualcuno degli Happars lo invitasse a visitare la vallata, non fu possibile indurvelo. Forse sapeva benissimo fino a qual limite lo potesse proteggere il taboo di Jimmy.

Colla promessa di una pezzuola di cotonina rossa e di qualcos’altro che tenne segreto, il povero ragazzo s’era indotto a intraprendere un viaggio piuttosto pericoloso, sebbene, da quanto potè sapere Toby, fosse questa una cosa mai successa prima d’allora.

Alla fine del pranzo, venne servito il punch dell’Isola – l’arva – che fu passato ai convitati in una calebassa.

Il mio compagno però, mentre era in casa di questi Happars, cominciò a sentirsi più che mai turbato al pensiero di lasciarmi nella vallata, e propose a Jimmy di scortarlo fino alla montagna, chè poi avrebbe pensato lui a raggiungermi. Ma il marinaio non ne volle sapere, e per distrarlo dai suoi tristi pensieri, lo incitò a bere l’arva. E poichè Toby, che ne conosceva le proprietà narcotizzanti, si rifiutava, vi mescolò un qualche cosa assicurando Toby che in tal modo la bevanda sarebbe stata innocua e gli avrebbe dato forza pel resto del viaggio. Così Toby si decise ed effettivamente appena bevuto, tutti i suoi tristi pensieri svanirono ed egli si sentì alerte e rinvigorito.

Il vecchio vagabondo ora cominciò a rivelare il suo vero carattere, sebbene Toby non ne avesse ancora alcun sospetto.

— Se vi faccio imbarcare sopra una nave – diceva – regalerete certo qualche cosa a colui che vi ha salvato la vita.

In breve, prima che si rimettessero in cammino, il vecchio aveva fatto promettere a Toby che questi gli avrebbe dato cinque dollari spagnuoli, non appena fosse riuscito ad avere un anticipo sul suo salario dalla nave sulla quale si sarebbe imbarcato; di più Toby s’impegnava a compensarlo ancor più generosamente quando la mia liberazione fosse stata un fatto compiuto.

Dopo qualche tempo, i tre viandanti ripresero il cammino, accompagnati da numerosi indigeni, e seguendo per un tratto la vallata, s’inoltrarono in un ripido sentiero che conduceva a Nukuheva. Qui gli Happars si fermarono e stettero ad osservarli mentre salivano. Un gruppo di bravacci brandiva le lance e guardava con aria truce il povero Typee, il cui cuore fu certo più leggero quando, giunto sulla vetta, potè guardarli dall’alto.

La strada correva ora attraverso creste e crinali coperti da enormi felci arborescenti. Infine penetrarono in un bosco dove incontrarono una compagnia di abitanti di Nukuheva, bene armati e portanti fasci di lunghi pali. Jimmy pareva li conoscesse tutti benissimo, e si fermò alquanto con loro a discorrere dei «wee-wee»1 nome con cui a Nukuheva erano chiamati i francesi. Questi uomini appartenevano al Re Mowanna, ed appunto per suo ordine erano stati a raccogliere dei tronchi nei boschi, ad uso dei suoi alleati francesi.

Il sole era già basso ad occidente quando Toby e i suoi compagni si rimisero in cammino e giunsero nelle vallate di Nukuheva, là ove le montagne degradano fino al mare. Le navi da guerra erano sempre ancorate nel porto, e mirandole, Toby si domandò se tutto quel ch’era successo non fosse stato che un sogno.

Giunsero alla casa di Jimmy prima che fosse completamente notte. Qui costui ricevette un altro benvenuto dalle sue mogli di Nukuheva, e dopo essersi rifocillati alquanto con latte di cocco e poee-poee, Toby e Jimmy entrarono in una canoa, e aiutandosi colle pagaie, vogarono verso una nave baleniera ancorata vicino alla spiaggia. Era questa la nave che aveva bisogno d’uomini. Il capitano si dimostrò molto contento di vedere Toby, ma osservando che era così malandato e stanco, disse che temeva egli non fosse abbastanza adatto al lavoro. Tuttavia accettò di imbarcarlo egualmente insieme al suo compagno non appena egli giungesse.

Toby, nonostante le promesse di Jimmy, pregò e supplicò che gli si concedesse un battello armato col quale portarsi a Typee per salvarmi. Ma il capitano non ne volle neppure sentir parlare, e lo invitò ad aver pazienza perchè certamente il vecchio marinaio avrebbe mantenuto la sua parola. Pure quando gli chiese i cinque dollari d’argento per Jimmy, il capitano si mostrò restio a darglieli. Ma Toby, pensando che Jimmy fosse un essere mercenario che, se non ben pagato, certo non avrebbe mantenuto la sua promessa, insistette sinchè li ebbe; li diede quindi a Jimmy, assicurandolo che gliene avrebbe dati degli altri se mi conduceva a bordo.

All’alba del giorno dopo, Jimmy e il Typee partirono con due battelli armati di indigeni taboo. Toby naturalmente era ansioso di far parte dell’equipaggio, ma Jimmy gli disse che così facendo avrebbe rovinato senza rimedio il successo dell’impresa.

Verso il tramonto, stando in vedetta, scorse i battelli che giravano la punta ed entravano nella baia. Aguzzò lo sguardo e credette vedermi; ma io non v’ero. Fuori di sè, scese dall’albero e non appena Jimmy ebbe posto piede sul ponte, lo apostrofò con voce terribile:

— Dov’è Tommo?

Il vecchio allibì, ma poi rinfrancandosi, fece di tutto per calmarlo, dicendogli come fosse stato impossibile di farmi venire quella mattina. Mise innanzi mille ragioni, più o meno plausibili, e concluse dicendo che il giorno dopo sarebbe ripartito con un battello francese e se non mi avesse trovato sulla spiaggia, sarebbe andato ad ogni costo a prendermi nella vallata. Ma anche questa volta non volle che Toby lo accompagnasse.

A Toby, che nella posizione in cui si trovava non aveva altra alternativa, non rimase che il conforto di sperare re che si avverasse quanto il vecchio marinaio gli aveva promesso.

Epperò il mattino dopo ebbe la soddisfazione di constatare che la barca francese partiva realmente con Jimmy a bordo. — Stasera dunque, lo vedrò, – pensava Toby; – ma molti furono i giorni che passarono prima che egli rivedesse Tommo... La barca francese s’era appena allontanata, quando il capitano ordinò che si salpasse l’ancora; egli doveva partire.

Furono vane le proteste di Toby e le sue preghiere: quando ritornò in sè, le vele erano stese, e la nave stava lasciando rapidamente il porto.

* * *


— Oh! – mi disse quando ci incontrammo, – Che notti insonni passai! Soventi balzavo dalla branda credendo di vederti dinanzi a me e di sentire la tua voce che mi rimproverava di averti abbandonato nell’Isola.

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Ben poco vi è più da raccontare. Toby scese da quella nave nella Nuova Zelanda, e dopo nuove avventure, giunse in patria circa due anni dopo aver salpato dalle Marchesi. Egli sempre pensò ch’io fossi morto, ed io pure avevo tutte le ragioni di credere che anche lui non fosse più vivo. Ma la sorte aveva in serbo per noi uno strano incontro, incontro che tolse un grosso peso dal cuore di Toby.

  1. Oui-Oui.