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Versi - Paralipomeni della Batracomiomachia/II. Paralipomeni della Batracomiomachia/Canto VII

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Canto VII

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II. Paralipomeni della Batracomiomachia - Canto VI II. Paralipomeni della Batracomiomachia - Canto VIII
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CANTO SETTIMO

1
     D’aggiunger mi scordai nell’altro canto
che il topo ancor l’incognito richiese
del nome e dello stato, e come tanto
fosse ad un topo pellegrin cortese,
e da che libri ovver per quale incanto
le soricine voci avesse apprese.
Parte l’altro gli disse, e il rimanente
voler dir piú con agio il dí seguente.
2
     Dedalo egli ebbe nome, e fu per l’arte
simile a quel che fece il laberinto.
Che il medesimo fosse, antiche carte
mostran la fama aver narrato o finto.
Se la ragion de’ tempi in due li parte,
non vo’ d’anacronismo esser convinto.
Gli anni non so di Creta o di Minosse;
il Niebuhr li diria, se vivo fosse.
3
     Antichissima, come è manifesto
fu del nostro l’etá. Però dichiaro,
lettori e leggitrici, anzi protesto,
che il Dedalo per fama oggi sí chiaro,
forse e probabilmente non fu questo
del quale a ragionarvi io mi preparo,
ma piú moderno io non saprei dir quanto;
ed in via senza piú torna il mio canto.

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4
     Quel Dedalo che al topo albergo diede
fu di ricca e gentil condizione,
da quel che il generar lasciato erede;
e noiato, non so per qual ragione,
degli uomini, che pur, chi dritto vede,
in general son ottime persone,
ridotto s’era solitario in villa
a condur vita libera e tranquilla.
5
     Questi adunque, poiché piú di quattr’ore
alto il sole ebbe visto, al pellegrino
che dall’alba dormía con gran sapore,
recò che molto innanzi era il mattino
e levato il condusse ove in colore
vario splendea tra l’oro il marrocchino;
nello studio cioè, che intorno intorno
era di libri preziosi adorno.
6
     Ivi gli fe’ veder molti volumi
d’autori topi antichi e di recenti:
I deliri del gran Fiutaprofumi,
La trappola, tragedia in atti venti;
Topaia innanzi l’uso de’ salumi,
gli Atti dell’accademia de’ Dormienti,
L’amico de’ famelici, ed un cantico
per nascita reale in foglio atlantico.
7
     La grammatica inoltre e il dizionario
mostrògli della topica favella,
e piú d’un altro libro necessario
a drittamente esercitarsi in quella,
che con l’uso de’ verbi alquanto vario,
alle lingue schiavone era sorella.
Indi, fattol sedere, anch’ei s’assise,
ed in un lungo ragionar si mise.

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8
     E disse com’ancor presso al confine
di pubertá quel nido avendo eletto,
di fisiche e meccaniche dottrine
preso aveva in quegli ozi un gran diletto,
tal che diverse cose e peregrine
avea per mezzo lor poste ad effetto,
e correndo di poi molti paesi,
molti novi trovati aveva appresi.
9
     E sommamente divenuto esperto
della storia che detta è naturale,
ben giá fin dal principio essendo certo
dello stato civil d’ogni animale,
gl’idiomi di molti avea scoperto,
quale ascoltando intentamente, e quale
per volumi trovati: ond’esso a quante
bestie per caso gli venian davante,
10
     come a simili suoi, come a consorti
sempre in ciò che poteva era cortese.
Ma dopo aver cosí di molte sorti
e cittá d’animai le lingue apprese,
e quinci de’ piú frali e de’ piú forti
le piú riposte qualitadi intese,
un desiderio in cor gli era spuntato
che l’avea per molti anni esercitato.
11
     Un desiderio di dovere, andando
per tutto l’orbe, a qualche segno esterno,
come il nostro scoprîro altri cercando,
degli animali ritrovar l’inferno,
cioè quel loco ove al morir passando
vivesse l’io degli animali eterno,
il qual ch’eterno fosse al par del nostro
dal comun senso gli parea dimóstro.

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12
     — Perché — dicea — chiunque gli occhi al sole
chiudere, o rinnegar la coscienza,
ed a se stesso in sé mentir non vuole,
certo esser dee che dalla intelligenza
de’ bruti a quella dell’umana prole
è qual da meno a piú la differenza,
non di genere tal, che se rigetta
la materia un di lor, l’altro l’ammetta.
13
     Che certo, s’estimar materia frale
dalla retta ragion mi si consente
l’io del topo, del can, d’altro mortale,
che senta e pensi manifestamente,
perché non possa il nostro esser cotale
non veggo: e se non pensa inver né sente
il topo o il can, di dubitar concesso
m’è del sentire e del pensar mio stesso. —
14
     Cosí dicea. Ma che l’uman cervello
ciò che d’aver per fermo ha stabilito
creda talmente che dal creder quello
nol rimuova ragion, forza o partito,
due cose, parmi, che accoppiare è bello,
mostran quant’altra mai quasi scolpito:
l’una, che poi che senza dubbio alcuno
di Copernico il dogma approva ognuno,
15
     non però fermi e persuasi manco
sono i popoli tutti e son le scole,
che l’uomo, insomma, senza uguali al fíanco
segga signor della creata mole,
né con modo men lepido o men franco
si ripetono ancor le antiche fole,
che fan dell’esser nostro e de’ costumi
per nostro amor partecipare i numi;

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16
     l’altra, che quei che dell’umana mente
l’arcana essenza a ricercar procede,
la question delle bestie interamente
lasciar da banda per lo piú si vede,
quasi aliena alla sua, con impudente
dissimulazione e mala fede,
e conchiuder la sua per modo tale
ch’all’altra assurdo sia, nulla gli cale.
17
     Ma lasciam gli altri a cui per dritto senso
i topi anche moderni io pongo avanti.
A Dedalo torniamo ed all’intenso
desio che il mosse a ricercar per quanti
climi ha la terra e l’oceáno immenso,
come fêr poscia i cavalieri erranti
delle amate lor donne, in qual dimora
le bestie morte fosser vive ancora.
18
     Trovollo alfin veracemente, e molte
vide con gli occhi propri alme di bruti
ignude, io dico da quei corpi sciolte
che quassú per velami aveano avuti,
se bene in quelli ancor pareano involte;
come, non saprei dir, ma chi veduti
spiriti ed alme ignude ha di presenza,
sa che sempre di corpi hanno apparenza.
19
     Dunque menarlo all’immortal soggiorno
de’ topi estinti offerse al peregrino
Dedalo, acciò che consultarli intorno
a Topaia potesse ed al destino:
perché sappiam che, chiusi gli occhi al giorno,
diventa ogni mortal quasi indovino,
e, qual che fosse pria, dotto e prudente
si rende sí che avanza ogni vivente.

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20
     Strana questa in principio e fera impresa
al conte e piena di terror parea.
Non avean fatta simile discesa
Orfeo, Teseo, la Psiche, Ercole, Enea,
che vantâr poscia, e forse l’arte appresa
da topi o talpe alcun di loro avea.
Dedalo l’ammoní che dênno i forti
poco temere i vivi e nulla i morti.
21
     E inanimito ed all’impresa indotto
avendol facilmente, e confortato
d’alcun de’ cibi di che il topo è ghiotto
d’alucce armògli l’uno e l’altro lato.
Piú non so dir, l’istoria non fa motto
di quello onde l’ordigno era formato,
non degl’ingegni e non dell’artifizio
per la virtú del qual facea l’uffizio.
22
     Palesemente dimostrò l’effetto
che queste d’ali inusitate some
di quell’altre non ebbero il difetto
ond’Icaro volando al mar die’ nome;
di quelle, sia per incidenza detto,
che venner men dal caldo io non so come
poiché nell’alta region del cielo
non suole il caldo soverchiar, ma il gelo.
23
     Dedalo, io dico il nostro, ale si pose
accomodate alla statura umana:
dubitar non convien di queste cose
comeché sien di specie alquanto strana.
Udiam fra molte che l’etá nascose
la macchina vantar, del padre Rana;
e il globo aereostatico ottien fede,
non per udir, ma perocché si vede.

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24
     Cosí, d’ali ambedue vestito il dosso,
su pe’ terrazzi del romito ostello,
il novo carco in pria tentato e scosso,
preser le vie che proprie ebbe l’uccello.
Parea Dedalo appunto un uccel grosso,
l’altro al suo lato appunto un pipistrello:
volâr per tratto immenso, ed infiniti
vider gioghi dall’alto e mari e liti.
25
     Vider cittá di cui non pur l’aspetto
ma la memoria ancor copron le zolle,
e vider campo o fitta selva o letto
d’acque palustri limaccioso e molle,
ove ad altre cittá fu luogo eletto
di poi, ch’anco fiorîro, anco atterolle
il tempo, ed or del loro stato avanza
peritura del par la rinomanza.
26
     Non era Troia allor, non eran quelle
ch’al terren l’adeguâro Argo e Micene,
non le rivali due, d’onor sorelle,
di fortuna non giá, Sparta e Messene;
né quell’altra era ancor che poi le stelle
dovea stancar con la sua fama, Atene;
vòto era il porto e dove or peregrina
la gente al tronco Partenón s’inchina.
27
     Presso al Gange ed all’Indo eccelse mura
e popoli appariano a mano a mano.
Pagodi nella Cina, ed alla pura
luce del sol da presso e da lontano
canali rifulgean sopra misura
vari di corso per lo verde piano,
che di cittá lietissimo e di gente,
di commerci e di danze era frequente.

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28
     La torre di Babel di sterminata
ombra stampava la deserta landa;
e la terra premean dall’acque nata
le piramidi in questa e in quella banda.
Poco Italia a quel tempo era abitata,
Italia che al finir dell’ammiranda
antichitá per anni ultima viene,
e primi per virtú gli onori ottiene.
29
     Sparsa era tutta di vulcani ardenti,
e incenerita in questo lato e in quello.
Fumavan gli Appennini allor frequenti
come or fuman Vesuvio e Mongibello;
e di liquide pietre ignei torrenti
al mar tosco ed all’Adria eran flagello;
fumavan l’Alpi, e la nevosa schiena
solcavan fiamme ed infocata arena.
30
     Non era ai due volanti peregrini
possibile drizzar tant’alto i vanni,
che non ceneri pur ma sassolini
non percotesser lor le membra e i panni;
tali in sembianza di smodati pini
sorgean diluvi invêr gli eterni scanni
da eccelsissimi gioghi, alto d’intorno
a terra e mare intenebrando il giorno.
31
     Tonare i monti e rintronar s’udiva
or l’illirica spiaggia ed or la sarda;
né giá, come al presente, era festiva
la veneta pianura e la lombarda;
né tanti laghi allor, né con sua riva
il Lario l’abbellia né quel di Garda:
nuda era e senza amenitá nessuna,
e per lave indurate orrida e bruna.

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32
     Sovra i colli ove Roma oggi dimora
solitario pascea qualche destriero,
errando al sol tersissimo, che indora
quel loco al mondo sopra tutti altèro.
Non conduceva ancor l’ardita prora
per le fauci scillee smorto nocchiero,
che di Calabria per terrestre via
nel suol trinacrio il passegger venía.
33
     Dall’altra parte aggiunto al gaditano
era il lido ove poi Cartago nacque;
e giá si discoprian di mano in mano
fenicii legni qua e lá per l’acque.
Anche apparia di fuor sull’oceáno
quella che poi sommersa entro vi giacque,
Atlantide chiamata, immensa terra,
di cui leggera fama or parla ed erra.
34
     Per lei piú facil varco aveasi allora
ai lidi lá di quell’altro emisfero
che per l’artiche nevi e per l’aurora
polar che avvampa in ciel maligno e nero,
né di perigli pien cosí com’ora,
dritto fendendo l’oceáno intero.
Di lei fra gli altri ragionò Platone,
e il viaggio del topo è testimone.
35
     Per ogni dove andar bestie giganti
o posar si vedean sulla verdura,
maggiori assai degl’indici elefanti
e di qual bestia enorme è di statura.
Parean dall’alto collinette erranti
o sorgenti di mezzo alla pianura.
Di sí fatti animai son le semente,
come sapete, da gran tempo spente.

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36
     Reliquie lor, le scòle ed i musei
soglion l’ossa serbar dissotterate.
Riconosciuta ancor da’ nostri augei
l’umile roccia fu che la cittate
copria de’ topi, e quattro volte e sei
l’esule volator pien di pietate
la rimirò dall’alto, e sospirando
si volse indietro e si lagnò del bando.
37
     Alfin dopo volare e veder tanto
che con lingua seguir non si potria,
scoprí la coppia della quale io canto
un mar che senza termini apparia.
Forse fu quel cui della pace il vanto
alcun che poi solcollo attribuia,
detto da molti ancor meridiano,
sopra tutti latissimo oceáno.
38
     Nel mezzo della lucida pianura
videro un segno d’una macchia bruna,
qual pare a riguardar, ma meno oscura,
questa o quell’ombra in sull’argentea luna.
E lá drizzando il vol nell’aria pura
che percotea del mar l’ampia laguna,
videro immota, e come dir confitta
una nebbia stagnar putrida e fitta.
39
     Qual di passeri un gruppo o di pernici
che s’atterri a beccar su qualche villa
pare al pastor, che su per le pendici
pasce le capre al sol quando piú brilla,
cotal dall’alto ai due volanti amici
parve quella ch’eterna ivi distilla
nebbia, anzi notte, nella quale involta
un’isola, o piuttosto era sepolta.

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40
     Altissima in sul mar da tutti i lati
quest’isola sorgea con tali sponde,
e scogli intorno a lor sí dirupati
e voragini tante e sí profonde,
ove con tal furor, con tai latrati
davano e sparse rimbalzavan l’onde,
che di pure appressarsi a quella stanza
mai notator né legno ebbe speranza.
41
     Sola potea la region del vento
dare al sordido lido alcuna via.
Ma gli augelli scacciava uno spavento
ed un fetor che dalla nebbia uscia.
Pure ai nostri non fûr d’impedimento
queste cose, il cui volo ivi finia;
ché quel funereo padiglione eterno
copria de’ bruti il generale inferno.
42
     Colá rompendo la selvaggia notte
gli stanchi volatori abbassâr l’ale,
e quella terra calpestâr che inghiotte
puro e semplice l’io d’ogni animale;
e posersi a seder su le dirotte
ripe ove il piè non pose altro mortale,
levando gli occhi alla feral montagna
che il mezzo empiea dell’arida campagna.
43
     D’un metallo immortal, massiccio e grave
quel monte il dorso nuvoloso ergea:
nero assai piú che per versate lave
non par da presso la montagna etnea;
tornito e liscio, e fra quell’ombre cave
un monumento sepolcral parea:
tali alcun sogno a noi per avventura
spettacoli creò fuor di natura.

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44
     Girava il monte piú di cento miglia,
e per tutto il suo giro, alle radici,
eran bocche diverse a maraviglia
di grandezza tra lor, ma non d’uffici.
Degli estinti animali ogni famiglia,
dalle balene ai piccioli lombrici,
alle pulci, agl’insetti, onde ogni umore
han pieno altri animai dentro e di fuore,
45
     microscopici o in tutto anche nascosti
all’occhio uman quanto si voglia armato,
ha quivi la sua bocca. E son disposti
quei fori sí, che dei maggiori allato
i minori per ordine son posti.
Della maggior balena e smisurato
è il primo, e digradando a mano a mano,
l’occhio s’aguzza in sugli estremi invano.
46
     Porte son questi d’altrettanti inferni,
che ad altrettanti generi di bruti
son ricetti durabili ed eterni
dell’anime che i corpi hanno perduti.
Quivi però da tutti i lidi esterni
venian radendo l’aria intenti e muti
spirti d’ogni maniera, e quella bocca
prendea ciascun ch’alla sua specie tocca.
47
     Cervi, bufali, scimmie, orsi e cavalli,
ostriche, seppie, muggini ed ombrine,
oche, struzzi, pavoni e pappagalli,
vipere e bacherozzi e chioccioline,
forme affollate per gli aerei calli
empiean del tetro loco ogni confine,
volando, perché il volo anche è virtude
propria dell’alme di lor membra ignude.

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48
     Ben quivi discernean Dedalo e il conte
queste forme che al sol non avean viste,
bench’alle spalle, ai fianchi ed alla fronte
sempre al lor volo assai ne fûr commiste,
che d’ogni valle, o poggio, o selva, o fonte,
van per l’alto ad ogni ora anime triste,
verso quel loco che l’eterna sorte
lor seggio destinò dopo la morte.
49
     Ma come solamente all’aure oscure
del suo fuoco la lucciola si tinge,
e spariscono al sol quelle figure
che la lanterna magica dipinge,
cosí le menti assottigliate e pure
di quel vel che vivendo le costringe
sparir naturalmente al troppo lume,
né parer che nell’ombra han per costume.
50
     E di qui forse avvien che le sepolte
genti di notte comparir son use,
e che dal giorno, fuor che rade volte,
soglion le visioni essere escluse.
Vuole alcun che le umane alme disciolte
in un di questi inferni anco sian chiuse,
posto lá come gli altri in quella sede
che la grandezza in ordine richiede.
51
     E che Virgilio e tutti quei che diêro
all’uman seme un erebo in disparte
favoleggiasser seguitando Omero
e lo stil proprio de’ poeti e l’arte,
essendo del mortal genere in vero
piú feconda che l’uom la maggior parte.
Io di questo per me non mi frammetto:
però l’istoria a seguitar m’affretto.