Viaggio di un povero letterato/Prefazione

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Prefazione

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I

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PREFAZIONE.

Questo libro nàcque senza l’intenzione di diventare un libro. In orìgine èrano note, o segnalazioni, le quali — in questo mio viàggio nel lùglio del 1913 — battèvano con tanta insistenza nell’apparècchio del cervello, che fui costretto a trovare un lapis e un taccuino.

E come i quìndici giorni del viàggio finìrono, mi distraevo a Bellària nello sviluppare quei segni ed appunti.

Capitava allora, assai spesso, su la bicicletta, nel gran sole del mezzodì, l’alta figura bianca di Renato Serra; e ricordo che gli lessi quel capìtolo che comìncia: Pisa, Battistero, Chiesa e Cimitero e poi il campanile che suona o suonava una volta.

Ricordo che poi volle lèggere lui, e lesse, e segnava le pose con quella sua voce pacata e pura, che era sua singolare maniera di lèggere, quasi attendesse [p. xiv modifica]un’eco di risposta interiore. Disse che vi trovava alcun nòbile ritmo.

E così l’anno seguente, che fu il 1914, mandai il manoscritto all’amico Giovanni Cena, che dirigeva — morto anche lui! — la Nuova Antologia.

Cena mi consigliò molti tagli o mutilazioni per quelle ragioni di scrùpolo, che, dal più al meno, si impòngono ai direttori delle Riviste, in generale; poi, in particolare, mi consigliò di smèttere con le impressioni dei miei vagabondaggi.

Così, in proporzioni ridotte, il libro uscì nei nùmeri del gennaio e del febbraio 1915 della Nuova Antologia.

Ma un po’ per la Guerra, un po’ per quelle parole di Cena, io non pensavo più a questo mio lavoro, quando nel 1916 mi sorprese un «artìcolo»1 di Giovanni Papini —, che allora non conoscevo di persona —, dove mostrava di essersi accorto di questo mio Viàggio, anzi diceva al pùblico: «Come? non vi siete accorti?». Confesso che le parole di Papini fècero sussultare le ùltime corde del pianoforte della vanità: che non è mai fracassato abbastanza sì che non mandi [p. xv modifica]alcun guizzo. E infatti rileggendo poi me stesso come se altro io fossi stato, mi parve che in questo libro, scritto prima della Guerra, si contenesse qualcosa che presentiva la Guerra, e qualcosa anche che meritava di vivere anche dopo la Guerra. «Ma perchè stamparlo se gli ànimi e i corpi dovranno cadere sotto il tetro materialismo germànico?» Io vissi questi anni in questo ìncubo; e tutt’al più pensavo a questo libro come a una tomba per seppellirvi con onore certe gentilezze che la vittòria germànica avrebbe raso al suolo, come fece nel suo passàggio di tutte le cose belle.

Ora lo spaventoso ìncubo va dileguando e la vita sembra aver ragione su quella tetra morte germànica. Perciò il libro vede la luce.

Certo è che dopo questa Guerra, se veramente desideriamo che la Germània non vinca, anche se vinta, è necessària un’altra vittòria: quella su noi stessi.

Ma per ciò che riguarda questo libro, voglio ora sperare che Giovanni Papini, il quale fu principale cagione della stampa, non se ne debba pentire.

Roma, ottobre 1918.


  1. Resto del Carlino, 6 gennaio 1916.