Voci della notte/Notte bianca
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Notte bianca
Nella camera, tappezzata di un color grigio perla, il letto matrimoniale ampio, chiaro, di una ricchezza severa, non faceva macchia; appoggiato alla tappezzeria, si perdeva nella vaporosità della tinta perlacea, sulla quale una lampada, appesa in alto, diffondeva appena il roseo della fiamma passato attraverso la trasparenza del cristallo.
Da una parte e dall’altra del letto, due tappeti di Persia si stendevano fra un tavolino e una poltrona, sovrapponendo al pavimento di legno la flora esotica dei loro disegni orientali. Sulla poltrona di sinistra un mucchio di trine biancheggiava, frammezzato da piccoli nastri, da arricciature di batista; una calza di seta era buttata attraverso alla spalliera; un busto bianco, dalla vita sottile, dalle sporgenze ancora tese e tiepide per il corpo che avevano racchiuso, era caduto per terra accanto a due piccole pantofole di velluto. Sulla pettiniera lì accanto, delle forcine di tartaruga, dei braccialetti e un mazzolino di gaggie — mazzolino pesto, appassito rapidamente nella pressione del busto contro il seno, serbante ancora il profumo dei fiori freschi misto al profumo di una vitalità più calorosa ed intensa. Sul tavolino da notte un libro di versi.
Nessun rumore.
Le coperte del letto, rialzate a sinistra sopra una forma indecisa, non si agitavano al benchè minimo soffio. L’orologio a pendolo, stato fermato qualche minuto prima, segnava mezzanotte e mezzo.
L’uscio si aperse e un uomo entrò. Di media età, bello, abbastanza elegante; entrò salutando, ma, non udendo risposta, fermò l’uscio che cigolava, e mosse con precauzione verso il letto, chinandosi, chiamando a bassa voce.
— Dorme — disse poi, fra i denti. Nel rialzarsi vide il busto per terra; lo raccolse e lo posò delicatamente sulla poltrona, poi girò dall’altra parte del letto.
Un gran numero di oggetti uscì dalle sue tasche; chiavi, temperino, matita, moneta spicciola, occhialetto, portasigari; tutto ciò cadde con un certo rumore sul piano levigato del comodino. Egli fece un movimento di dispetto per la propria sbadataggine, e si pose a levarsi il vestito con tutte le precauzioni; vestito e panciotto, che andarono a finire sulla poltrona, facendo riscontro alle trine, ai nastri e alle calze di seta dell’altra poltrona.
Ebbe un momento di sosta, in camicia, stirando le braccia, provando l’ineffabile sollievo dell’uomo libero. Pensò: quel maledetto picche, stasera, mi ha rovinato tutto il giuoco. Sedette e si levò gli stivali.
A piedi scalzi, molto più piccolo e più brutto di quando era entrato, stese le braccia ad accomodare il guanciale. Sul guanciale gemello, quello di sinistra, una lunga ciocca di capelli serpeggiava a mo’ di bisciolina, nascondendo un pezzetto di guancia femminile, di cui l’altra parte scompariva sotto la rimboccatura del lenzuolo.
— Dorme, decisamente — ripetè, e saltò lesto sotto le coltri. Dopo pochi momenti russava.
Allora, nel silenzio della camera, un sospiro si alzò prolungato, doloroso; di sotto le coperte, a sinistra, il corpo indistinto si mosse: un braccio nudo, sollevatosi prima al di sopra della testa, ricadde inerte sul letto. Secondo sospiro, più lungo, più doloroso, e queste parole mormorate a guisa di un gemito: Mio Dio! Mio Dio!
S’ella avesse potuto dormire, almeno un’ora! Tanto da riposare quella povera testa che le scoppiava, tanto da dimenticare! Ma il sonno era lontano.
Invece del sonno, incombevano su di lei le memorie dolci, ardenti, voluttuose, o poi tristi, agitate, piene di dubbi, e finalmente l’ultimo convincimento disperato: egli non l’amava più!
Perchè non l’amava più? Aveva pure giurato di amarla eternamente. Quando cessa l’amore tra marito e moglie, rimane, se non altro, la casa, gli interessi comuni, il legame del mondo, la consuetudine; ma quando la morte colpisce queste relazioni occulte, è come fosse scoppiato il fuoco celeste che tutto distrugge.
Oh! lo vedeva bene, lo sentiva, nulla sarebbe rimasto di quei due anni d’amore. Egli l’avrebbe dimenticata in braccio di altre donne, confusa nella folla dei ricordi. Chi sa se volgendosi più tardi al suo passato, e scorgendo l’immagine di due manine sulle quali egli aveva stampati tanti e tanti baci, le avrebbe riconosciute per le sue!... Strana e ironica burla, se la memoria delle di lei carezze dovesse unirsi, nella ingombra mente di lui, col nome di un’altra donna!
Terribile cosa un amore che muore! Meglio la materia che ci dà il cadavere, poi la terra, poi i germi della vita rinnovantesi sotto altre forme. Ma questo soffio che è stato in noi, per il quale le nostre carni furono solcate, e l’anima nostra avvizzita, questo mostro, questo dio, quando fugge ci rapisce tutto!
Avrebbe voluto gridare, piangere forte, chiamare aiuto, e invece doveva frenare i singulti, fingere la calma, dormire a fianco del marito incosciente. Riposava, il marito, col volto sereno, nella beatitudine di un sonno profondo.
Ella girò gli occhi paurosamente e lo guardò. Dormiva il sonno del giusto — difatti egli era il giusto — lei la sposa colpevole, condannata alla menzogna. Egli poteva schiudere le palpebre, interrogarla, chiederle conto di quelle lacrime, farle confessare la sua vergogna, e cacciarla via come una ladra o ucciderla come una traditrice. Invece dormiva, sicuro.
Le venne in mente, con una malinconia acuta, il giorno del suo matrimonio. Era ingenua allora, piena di illusioni, di buoni propositi, di intendimenti alti e severi. Anche ella aveva detto di amare, aveva giurato di amare eternamente, e non aveva amato più! In qual modo era venuto il tracollo? Ma!
Si ricordava di aver letto molte pagine, qui, là, tutte piene di analisi finissime su questi tramutamenti della natura umana; pagine che le avevano fatto esclamare: Sì, davvero, succede proprio in questo modo! Ma le ragioni erano svanite, la logica sfumata; non restava che il fatto nudo e desolante: Ella non amava più suo marito.
Amava l’altro. Perchè? Nuovo mistero. E l’altro la tradiva a sua volta, l’abbandonava, non l’amava più.
Stette un poco sospesa, scacciando i pensieri, chiudendo forte gli occhi nella speranza che il sonno avrebbe vinto. Suonarono frattanto le due ad un orologio lontano.
Ma come soffriva!
Si voltò una, due volte, smaniando. Improvvisamente le si gelò il sangue nelle vene; suo marito aveva parlato. Si rizzò sul gomito, spaurita, ascoltando. Egli sognava; un sorriso dolce gli errava sulle labbra, dalle quali uscivano sillabe indistinte; tutte le linee del suo volto si stendevano nell’espressione massima del benessere del riposo, ed ella si sentì invasa da una tenerezza materna per quell’uomo che dormiva come un bambino, senza sospetti. Il rimorso la assalse di averlo ingannato, lui così buono, che fidava in lei; e le venne un desiderio cocente di togliersi di dosso quei due anni di colpa, di tornare la sposa immacolata, di poter dormire anche lei, così, serenamente, la mano nella mano, le teste avvicinate, nella affettuosità fredda del talamo. Una commozione fatta di pentimento e di tristezza l’attirava verso il marito; oh! Come avrebbe voluto amarlo! Tese le braccia, tese le labbra, ma al tiepido avvicinarsi dell’epidermide, quando stava per urtare il corpo di lui, una forza ignota la respinse. Altri, altri baci le bruciavano la bocca, l’avviluppavano qual veste di fuoco; baci, carezze ed amplessi di cui il solo ricordo la faceva fremere, la faceva singhiozzare colle membra rattratte, la faccia nascosta in mezzo ai guanciali, annientata.
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Non dormiva ancora, forse fu nel torpore della spossatezza ch’ella rivide un chiaro mattino di maggio. Era uscita per visitare i poveri, lesta, in abito succinto, con un velo sui capelli; e lo aveva incontrato, il dolce amore. Si incontravano sempre in quella viuzza che pareva di campagna, dove, al di sopra dei muri, spuntava il verde tenero delle acacie, e lungo i crepacci rameggiavano le pallide glicinie dai grappoli odorosi.
Che incantevole mattino!.... Soli, dimentichi dell’universo, tenendosi per mano, zitti, guardandosi negli occhi, tanto felici da sentirsi perfino innocenti, avevano benedetto Iddio nella soavità del creato; e con inconscia empietà vollero entrare in una chiesuola solitaria, come sposi novelli.
Tali li ritenne senza dubbio il buono e vecchio prete che attraversava allora la chiesa tenendo in mano due roselline, poichè li guardò, sorrise, e con atto gentile porse i fiori a lei.
La luce, l’aria, la mitezza del cielo, la navata bianca della chiesuola, il sorriso indulgente del prete, tutto, tutto rivedeva con lucidità meravigliosa — e il lieve imbarazzo, e l’onda di felicità che li riprese, e la fine, oh! la fine di quelle due rose!
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Una vibrazione la scosse. Era il cane di una pistola? Erano le risa schernitrici del mondo? Era il pianto del suo bambino? — o la morte, la morte liberatrice? No, erano le ore; solite, impassibili: una, due, tre.
Appena le tre.
E perchè non morrebbe? Lo scoppio di una vena è cosa che succede tutti i giorni. Dio che permette l’amore colpevole quando non si cerca, quando non si vuole, dovrebbe almeno mandare la morte nell’istante che si invoca. Ma non veniva la morte, non veniva neppure il sonno.
Immagini paurose la dominavano adesso. Se, un qualche momento, le sue lettere cadessero nelle mani del marito? Se uno scandalo clamoroso dovesse disonorarla per sempre? E cacciata dalla sua casa, raminga, lontana dalla famiglia, il suo nome trascinato per i tribunali, insultato, deriso, la sua memoria vituperata nell’avvenire del figlio... maledetta forse! Gettò indietro le coperte, con un movimento brusco che fece traballare il letto. Il marito, destato in sussulto, mormorò: Che hai? ma si riaddormentò prima di udire la risposta. Ella ricadde, pesantemente, cogli occhi sbarrati.
Quando credette di aver passato una eternità su quel letto di torture, suonarono le quattro.
Intanto aveva preso una decisione: distruggere tutte le lettere, condurre una vita ritirata, dedicarsi interamente al suo bambino, essere per il marito una buona compagna, se non aveva potuto conservarsi sposa fedele. Un po’ di pace scendeva su di lei, pensando che nessuno sospettava ancor nulla e che ella avrebbe dimenticato... Voleva dimenticare ad ogni costo: ebbrezze, ansie, delirii, lotte, ore d’inferno, ore di paradiso, tutta quella febbre d’amore doveva cessare da che egli non l’amava più. Sarebbe stato il suo castigo, giusto, meritato.
Grosse lacrime le scendevano silenziose lungo le guancie. Brancicando incontrò una mano del marito, e tenendovi sopra la sua balbettò, col cuore gonfio: Perdono! Perdono! Sentiva un benessere infinito, come una carezza invisibile, l’egoismo dolce e sereno di trovarsi ancor viva, nella sua camera, nel suo letto, nella dignità inattaccabile di moglie e di madre.
Albeggiava finalmente. Piccoli rumori, usci sbattuti, strofinamenti, voci, canto d’uccelli, annunciavano il giorno; la lampada notturna, chiusa nel suo globo di cristallo, impallidiva davanti ai primi raggi del sole. Tutta la camera si rischiarava.
Ella pensò che proprio in quell’ora partiva il treno, e parve le si staccasse qualche cosa dal petto. Muta, trattenendo il respiro, ascoltava il passo della cameriera nel corridoio. Forse era giunto un messaggio per lei, una lettera, l’annuncio che egli non partiva più...
Era scivolata giù dal letto. A passi d’ombra giunse all’uscio che metteva nel corridoio; lo aperse tanto appena da passarvi il capo, chiamò, ed alla cameriera che accorreva premurosa, chiese a bassa voce se non fosse giunto nulla. Nulla — Non una lettera? — Nulla — Nemmeno... nessuno? — Nulla e nessuno.
La voce della cameriera risuonò con un’eco di campana funebre nel corridoio deserto.
Ella aveva richiuso l’uscio e giaceva accasciata contro lo stipite, seminuda, piangendo.