Alcuni discorsi sulla botanica/II/La botanica appo gli antichi/I Greci

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I Greci

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II.


I Greci.


Come cogli Ebrei chiudesi comunemente la Storia delle Scienze naturali appo i popoli dell’Asia, così la Storia di dette scienze appo le genti europee suolsi cominciare dai Greci, che a noi dall’Asia le hanno recate. Vero è che oggimai parrebbe quasi dimostrato dagli ultimi progressi della linguistica universale e comparata, e dalla felice interpretazione di antichissimi monumenti, essere stata l’Europa in tempi antistorici di una civiltà tutta propria e particolare; vero, che oggigiorno nei monumenti d’ogni maniera, quali di fresco scoperti, quali da un pezzo noti, ma solo ai dì nostri debitamente studiati e compresi, troppi vestigi ci chiarirono della antichissima sapienza dei Siculi, degli Etruschi, degli Iberi, perchè si possa così alla leggera impugnare codesta coltura anteriore alla greca e alla romana, e però da queste indipendente. Senonchè le memorie di essa sono sì confuse, sì rapidamente le due colture l’indigena e la venuta più tardi d’oriente si mescolarono, si fusero insieme, che oggidì sarebbe impossibile distinguere nella meno antica civiltà, che di quelle formossi, gli elementi indigeni e primitivi, da quei che si importarono dal di fuori. Il perchè non [p. 33 modifica]volendo entrare in questioni, che non si fanno a nostra materia, crediamo di dover rinunziare alle indagini di que’ tempi troppo rimoti, e contentarci di risalire a quel popolo greco, che posto a cavaliere tra l’Asia e l’Europa in sè raccolse e ricevè tutti per avventura i tesori di quella doppia civiltà dell’Asia e dell’Europa.

Esculapio, Orfeo, Chirone, Podalirio, tali sono i primi sapienti, dei quali si trovi ricordo nei poemi della Grecia più antichi, e di tutti costoro è lodata la molta cognizione, che ebbero delle virtù delle erbe e delle piante. Massimamente di Orfeo lo accerta Plinio nel libro XXV della Istoria naturale con queste parole: Primus autem omnium, quos memoria novit, Orpheus de herbis curiosius aliqua prodidit. Post eum Musaeus et Hesiodus. Ai tempi poi di Omero, cioè giusta i calcoli più probabili, nove secoli avanti l’êra volgare, le cognizioni dei corpi naturali erano già così diffuse tra i Greci, che il cantore di Ulisse poteva darne rispetto a molti di essi descrizioni, nelle quali non sapresti se più sia da ammirare l’esattezza delle nozioni, o l’evidenza e la leggiadria delle immagini. E per restringerci alle piante tu trovi in Omero, che a suoi tempi si coltivavano in Grecia fave e piselli, che dal papiro si traeva materia a far corde, che di frumento, farro, e trifoglio vi si pascevano i cavalli. Apprendi pure da lui, che negli orti di Alcinoo crescevano rigogliosi la vite, il pero, il melo, [p. 34 modifica]che Licaone figlio di Priamo usava potare di sua mano il fico nei giardini del padre, che i compagni di Ulisse erano divenuti sì ghiotti dei frutti del loto, che per essi dimenticavano perfino la patria. Altrove il poeta ti narra, che Giove aveva abbellita la terra del fiore odoroso della spodarella e del zafferano, che i prati di Callipso erano smaltati di viole, que’ presso al sasso di Leucade gremiti d’asfodeli, che Elena aveva avuto in dono da Polidamnia fra l’altre erbe quella nobilissima Nepente, la quale ha virtù di cacciare ogni memoria di tristezza, che Mercurio presentò ad Ulisse l’erba Moly a preservarlo dalla ubbriachezza nel banchetto, che gli avrebbe dato Circe, che questa terribile fattucchiera cibava i compagni del figliuol di Laerte col pasto dei porci, le cornie. E da suoi poemi vieni pure a conoscere, che il sepolcro di Ettione era contornato di olmi, che il letto nuziale del Re d’Itaca era fabbricato col legno di ulivo, che a far lance i greci adoperavano il frassino, a costruire navigli il larice, pei gioghi il bosso, per le stanghe e le travi l’abete, che il pioppo è albero amico dell’acqua, che nera è l’interna materia dell’elce, che sacra a Giove è la quercia, che il Cipresso tramanda forte odore, che il pino ha tal tempra da durare sotterra lungamente incorrotto. Esiodo, che è di poco posteriore ad Omero, nel suo poema didattico dei lavori e dei giorni di molte [p. 35 modifica]importanti cose discorre intorno alle qualità delle erbe. Plinio ne adduce l’autorità parlando dell’erba polio, della vite, dell’ulivo, del rovere, dell’asfodelo; e curioso è quel che gli fa dire delle virtù dello scolimo. Quest’erba, scrive Plinio, «risveglia la lussuria secondo Esiodo ed Alceo, i quali affermano, che quando lo scolimo fiorisce, gli uomini sono pigrissimi al coito, dove all’incontro le donne ne sono desiderosissime, come se la natura avesse provveduto questo per ottimo ajuto.»

Nei cinque secoli, che corsero da Esiodo ad Ippocrate, non ebbero a quanto pare altri cultori le piante fuori che i rizotomi o farmacopoli, i georgici o geoponici. Era ufficio dei primi andare in cerca delle erbe nei luoghi natii per fornirle ai medici. Rozzi la più parte e idioti, trattavano l’arte loro con pratiche superstiziose, e con modi empirici e cerretaneschi, a segno che uno di essi, certo Aristofilo di Platea, osò menar vanto pubblicamente di potere per virtù d’erbe crescere, scemare, ed anche spegnere affatto nell’uomo la facoltà generativa. Tuttavolta non si vuol negare, che pur tra costoro ci avea più d’uno, che molto addentratosi nella cognizione delle virtù mediche delle piante, studiandosi continuamente per ragion di lucro di trovare nuove stirpi, giovò non poco ad allargare l’ambito di nostra scienza. Nè di questo si potrebbe dubitare, quando sappiamo, che il grande Aristotile fu egli pure nei primi suoi anni rizotomo e farmacopolo. [p. 36 modifica]

Dentro limiti per avventura più angusti la botanica s’avvantaggiò altresì delle ricerche dei geoponici, intesi principalmente a ricavare dalle piante quel più copioso e miglior prodotto, che il sito consentiva. Il perchè Aristotile, Teofrasto, Varrone, Columella, Plinio il vecchio ricordano non senza lode i nomi e gli scritti dei geoponici, quali un Androzione, un Apollodoro, Cerone da Siracusa, Epicardio di Megara, un Filomatore ed altri non pochi.

Nè le scuole filosofiche, che più vennero in fiore di que’ tempi, la jonica, la pitagorica, la socratica si rimasero al tutto estranee ai progressi della botanica. Di mezzo ai vaneggiamenti ed ai vaniloquj di avventate o false ipotesi sulla origine e la natura delle cose, sulle trasformazioni di un’unica materia prima, taluno di que’ saggi giunse a cogliere il vero, a vederlo più o meno in nube perfino in quelle scienze, per le quali a voler progredire è più bisogno di osservazioni e di esperienze, che non sia di filosofiche speculazioni «Concatenando nella mente, dice Humboldt, le investigazioni anteriori si ingenera nei grandi genii la facoltà previsiva, la quale s’innalza, come per virtù di forza ispiratrice ad una specie di divinazione nella scienza vera. Quante opinioni non vennero annunziate dai filosofi sugli accidenti naturali senza prove in sulle prime, e commiste a supposizioni infondate, che poi furono avvalorate da esperienze, e accertate scientificamente!» E [p. 37 modifica]valga il vero nei filosofi di quell’epoca troviamo molte importantissime notizie e opinioni assai ingegnose anche rispetto ai fatti principali di nostra scienza. Giovi ricordarne alcuni in particolare seguendo per quanto è possibile un ordine cronologico. Però innanzi ad ogni altro dobbiamo qui far parola di quel sì lodato fondatore della scuola italica, il divino Pitagora da Samo, il quale fu certamente uno dei maggiori ingegni, che abbia mai prodotto il genere umano. Ei visse al di là dai 500 anni avanti la nascita di Cristo, e levò gran nome di sè non solo nelle scienze morali e nelle matematiche, ma sì ancora nelle fisiche e nella medicina. Degli studii botanici ei molto si dilettò, e vogliono, abbia lasciato dei trattati speciali sulla virtù delle erbe magiche, sui bulbi, sul cavolo, delle quali opere nessuna però giunse fino a noi. Pitagora fu pure, come è noto, l’inventore del vitto vegetabile o pitagorico, il quale consisteva nell’uso per cibo di radiche e foglie, di fiori e frutti. Se è vero quello che ne riferisce Plinio in più luoghi della sua Istoria naturale, il filosofo di Samo molto commendò per tale rispetto l’uso della brassica, dell’anice, della senape, sconsigliando invece quello della fava e dell’atriplice. Voleva altresì s’anteponessero le vesti fatte di materia vegetabile alle prese degli animali, e rigorosamente proibiva di guastare od offendere alcuna pianta, pel gran utile che danno, e perchè le credeva fornite di anima. [p. 38 modifica]A Pitagora segue in ordine di tempo Empedocle d’Agrigento, nato nella 80ª olimpiade, e forse scolaro di lui. Poeta, oratore, medico, filosofo, e mago ancora nel giudizio del volgo, Empedocle lasciò scritta un’opera celebratissima di fisica in 3 libri composta di 5 mila esametri, dei quali però non restano che pochi e sparsi frammenti, in tutto poco più di un 400 versi. Troppo audace, ma pur grande nelle sue ipotesi cercò l’origine delle cose nel vario combinarsi di quelle, ch’ei chiama le quattro radici prime Giove, Giunone, Plutone e Nefti, in altri termini acqua, fuoco, aria, terra, che dette poi i quattro elementi servirono fin quasi alla metà del secolo passato ai fisici di facile e comodo mezzo per dare spiegazione di quasi tutti i fenomeni naturali. Come causa al moto degli elementi Empedocle pel primo immaginò l’azione di due forze opposte inerenti alla materia, l’una delle quali con poetico linguaggio disse amore, amicizia, concordia, l’altra a questa contraria odio, inimicizia, lite. In virtù dell’amore, le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi a formare le masse, laddove l’inimicizia opera a disunire le particelle congiunte scomponendo gli aggregati. E di tal maniera fondava la teorica della ripulsione e della attrazione. Originò medesimamente da Empedocle la famosa dottrina delle periodiche rivoluzioni del globo e della estinzione degli esseri, che d’epoca in epoca lo hanno abitato, la quale dottrina ebbe [p. 39 modifica]così luminosa conferma nei trovati della moderna geologia. Da lui deriviamo altresì i primi concetti della Fisiologia vegetale, e parecchie di quelle splendide scoperte intorno la vita delle piante, che più comunemente vengono ascritte a merito di Aristotile e di Teofrasto. Ricorderò qui le opinioni fitologiche dell’agrigentino, quali le troviamo registrate nelle opere dei due or ora nominati, nei libri de Plantis di Nicolò damasceno, e nei Placita Philosophorum del supposto Plutarco. Al dire di questi autori era opinione di Empedocle, che le piante abbellissero già la superficie della terra, quando questa non era per anco compiuta in ogni sua parte, nè ancora le girava intorno il sole, nè il giorno ancora era diviso dalla notte. Empedocle insegnò pure, le piante non essere venute bell’e formate d’un tratto, sì bene a membra sparse dapprima, e come a dire a pezzi staccati, poi mano mano con intervalli di tempo assai distanti tra loro essersi accozzati insieme, e riuniti a formare quel tutto che oggidì ammiriamo. Voleva ancora, che le piante si avessero a considerare come parti della terra ingenerate dal relativo calore di questa, nel medesimo modo che è parte della madre il feto svoltosi nell’utero materno. Ammise la presenza dei sessi nei vegetali, ma mescolati e confusi. Disse ovipari gli alberi. Intravidde la grande analogia, che corre tra le funzioni vitali degli animali e delle piante, la quale analogia egli non circoscrisse ai soli [p. 40 modifica]fenomeni della vita vegetativa, voglio dire al modo di crescere, di nutrirsi, di riprodursi, di ammalare, ma estese altresì alle funzioni di un’ordine superiore concedendo alle piante moto, sensibilità, appetito, e perfino intelligenza, di guisa che a udir lui, tu trovi fiori che si rattristano, erbe che si adirano, piante che si rallegrano e piangono. Nello spiegare i fenomeni della nutrizione fece gran caso dei pori, che egli distinse in esalanti ed assorbenti, dando speciale importanza alle differenze che ci corrono rispetto alla grandezza, e al modo onde sono distribuiti e ordinati. E appunto nei pori si avvisò d’aver trovata la ragion vera della caduta permanenza delle foglie, opinando, che quando i pori sono grandi nella radice e piccoli nelle altre parti la pianta assorbisca più di quanto perde, e perciò stesso conservi a lungo verde la fronda, laddove per contrarie circostanze la foglia facilmente dissecchi e cada. E basti di Empedocle, di questo grande Siciliano, che a ragione può dirsi Padre e Creatore come della Fisica e della Chimica, così ancora della Anatomia e della Fisiologia vegetale. Compaesano e coetaneo di lui fu Acrone fondatore dell’empirismo medico, che voglion abbia dettate regole sul vitto, e ragionato dell’uso di molte piante. Ma i suoi libri sono perduti, nè ci resta traccia delle sue speciali opinioni. Di cose medico-botaniche scrissero pure altri due Siculi menzionali da Plinio, e da Galeno, voglio dire Filistione da Catania [p. 41 modifica]autore del libro de Diaeta, e Menecrate di Siracusa. Che poi fino da que’ remotissimi tempi grande fosse in quegli isolani l’amore per le piante dobbiamo argomentarlo dal vederne non poche mirabilmente effigiate al vero sulle loro stoviglie, e medaglie.

Che se dalla Sicilia, come ragion vuole, ritorniamo in Grecia, eccovi quell’Anassagora, cui deve Atene la prima scuola di filosofia, quivi sorta nel 450 av. C., professare nel fatto delle piante le medesime opinioni a un dipresso di Empedocle, fare cioè anch’esso i vegetali suscettivi di allegrezza, di tristezza, di voluttà, di desiderio, e forniti di anima. Ma fu per fermo opinione al tutto sua, che i germi delle piante vagassero sparsi per ogni dove nell’aria, d’onde poi trasportati dalle pioggie sulla terra vi abbarbicassero e crescessero. Sappiamo di Democrito, quell’acuto filosofo, che tante e così ingegnose cose immaginò sul conto degli atomi, essersi dilettato assai dello studio delle erbe, e più opere aver scritto intorno le medesime. Plinio ne accenna una sulle piante magiche. In altra vogliono esaminasse le cagioni dei semi e dei frutti, come sembra indicare il titolo riportato da Laerzio: ma neppure i suoi libri sono arrivati fino a noi. Solo ricaviamo da Teofrasto, che lo combatte, come egli derivasse le tante differenze negli odori e nei sapori dalla diversa figura e disposizione degli atomi. E Nicolò damasceno registra quest’altra opinione di Democrito, osservarsi cioè, che crescono [p. 42 modifica]rapidamente, ma anche presto muojono le piante, le quali hanno le vene diritte, per ciò che l’acqua e gli umori scorrono troppo rapidamente attraverso i loro canali. Ad Ippone poi dobbiamo d’avere per il primo insegnato, che come la coltura fa domestici gli alberi selvatici, così se questa si abbandoni si trascuri, essi inselvatichiscono di nuovo. Ma certamente i maggiori meriti per l’avanzamento delle cognizioni botaniche sono dovute ai medici. E quantunque abbia il tempo distrutte tutte quante le opere anteriori ad Ippocrate, bastano ciò nullameno quelle del medico di Coo per attestare, quanto estese fossero fino d’allora le cognizioni dei greci in fatto di piante utili alla medicina. Non può essere mio intendimento di qui noverare ad una ad una le stirpi, delle quali si fa parola negli scritti d’Ippocrate, tanto più che essi non sono già, come altri potrebbe credere, fattura di un uomo solo, sì bene il frutto degli studii e delle osservazioni di sette generazioni di medici di una medesima famiglia, che pel corso di due secoli e mezzo esercitarono l’arte salutare nella Grecia. Delle 230 specie di piante menzionate nelle opere ippocratiche addurrò qui, perchè più conosciute in grazia dell’uso che se ne fa anche oggidì in medicina, il Cardamomo, il gengevo, il pepe, la robbia, il galbano, l’opoponace, il jusquiamo, la mandragora, il verbasco, la cicuta, il sambuco, la squilla, la ruta, il ranuncolo, la salvia, la menta, la senape, il guado, la malva, il [p. 43 modifica]cartamo, l’artemisia, il piretro, la camomilla ed altre sì fatte. Nè si vuol tacere, affinchè sempre più chiaro apparisca quanto di quei tempi si coltivassero questi studii, come per testimonianza di Plinio alcuni medici solevano dipingere le erbe, e sottovi scriverne gli effetti. Non pertanto le notizie più curiose e in uno più esatte di Fisiologia vegetale ne porge un libro supposto d’Ippocrate, ma veramente di ignoto autore, che corre col titolo de natura pueri. Duolmi che la brevità di cui devo studiarmi in questa scrittura non mi permetta di riportarne alcuni brani, massimamente quello splendidissimo, che riguarda lo sviluppo comparativo del feto e del seme. In esso l’autore fa prova d’ingegno così sottile, e tale è la giustezza dei paragoni, che se ne togli alcuni deviamenti, e qualche bizzarra opinione, diresti il suo piuttosto lavoro dei nostri giorni, che di que’ tempi antichissimi. Parlando dell’accrescimento in larghezza del tronco ti mette innanzi una teoria, che in molti particolari mirabilmente concorda con quella proposta dal Du-Petit-Thouars, ed ancora recentemente propugnata dal Gaudichaud.

Ma io devo rimettere chi ne volesse più sapere alla lettura del libro, che già troppo mi tarda di arrivare finalmente al sommo dei filosofi e naturalisti greci ad Aristotile, il maestro, come l’ebbe a dire il poeta, di color che sanno. Questo grand’uomo, il cui nome è stampato a caratteri indelebili [p. 44 modifica]nella Storia di tutte le scienze vuoi speculative vuoi d’osservazione nacque, come è noto, a Stagira nella nonantesima nona Olimpiade, ossia 381 anni prima dell’era volgare. Appunto intorno a que’ tempi le cognizioni sulle cose naturali andavano ogni dì più crescendo tra i Greci. Già prima della nascita di Aristotile buon numero di prodotti dell’Asia e dell’Egitto erano venuti a comune notizia dei popoli d’occidente per la via dei traffici, e per ciò, che ne avevano insegnato alcuni dei loro medici e sapienti vissuti alle corti dei Monarchi persiani e babilonesi. Ma fu veramente nel bel mezzo della operosa vita scientifica dello Stagirita, che le ardite e felici imprese di Alessandro dischiusero que’ tanti tesori naturali delle Indie e delle terre tropicali, allo studio dei quali i Greci si rivolsero con tutto l’ardore e l’alacrità che era propria di quella gente fervida e immaginosa. Le relazioni dei dotti, che seguirono l’Eroe macedone nelle rapide sue conquiste attraverso l’immenso tratto di paese, che dal tempio di Ammone si stende alle sponde del Jassarte, sono piene di preziose notizie, di vivaci dipinture degli oggetti naturali. La contemplazione delle grandiose e svariate forme di animali e di piante, che per la prima volta si offrono all’attonito e curioso loro sguardo, mentre li riempie di meraviglia, e li accende di nobile entusiasmo, fornisce loro altresì le immagini, e i colori convenienti a descriverli con mirabile esattezza. Aridi scrittori, [p. 45 modifica]grettamente didascalici, si sollevano a poetici voli, quando ti parlano delle magnifiche palme a ventaglio e dei leggiadri cespuglj di sempre verdi bannani, o ti fanno sostare meravigliato dinnanzi agli alberi giganteschi, alle cui cime non è dardo che arrivi, alle cui foglie non è scudo, che si agguagli, e dinnanzi al Bambù che sì leggero di foglie e di stelo, pur d’altezza contende cogli alberi, e sì gran tratto prende da un nodo all’altro, che puoi farne una barca a più remi, o tratteggiano il fico d’India dall’enorme tronco, al cui diametro appena bastano 28 piedi, che rimettendo radice dalla estremità dei rami così è configurato, che a ragione il chiamano una tenda di foglie sorretta da molte colonne. Mercè dunque l’opera di questi dotti i Greci in quell’epoca sempre mai memoranda pei progressi dell’umano incivilimento vennero a conoscere tra molte altre nuove cose le risaje irrigate, l’arbusto del cotone, i fini tessuti e la carta, che se ne preparano, l’oppio, il vino di riso, di palma, lo zuccaro di canna, la lana dei grandi alberi di bambagia, i drappi di seta, l’olio di Sesamo bianco, quello di rose, la lacca, e varie sorta di aromi e di profumi, che divennero ben presto oggetti importantissimi del traffico universale. In tanto e così rapido crescere di cognizioni intorno ai corpi naturali fu dunque grande ventura per la scienza che a que’ dì vivesse quel sottilissimo ingegno di Aristotile, il quale collo scandaglio della [p. 46 modifica]analisi seppe dare alle ricerche empiriche de’ suoi contemporanei e scolari un’indirizzo al tutto scientifico creando altresì un linguaggio adatto ad esprimere in modo chiaro ed esatto tutte le gradazioni del pensiero, e le innumerevoli differenze dei multiformi nuovi trovati. E sia ragione al vero lo Stagirita così ti porge bellamente raccolti e subordinati ad un disegno generale que’ tanti e sì diversi materiali, che tu ne hai non una farragine di confuse notizie, sì bene un vero corpo di scienza condotto a sistema, e divisato per forma da poterti essere ottima guida a scoperte affatto nuove. Che se noi vogliamo indagare più da vicino i meriti speciali, che può avere Aristotile rispetto alla Botanica, anzitutto dobbiamo lamentare che l’opera sua principale intorno le piante Theoria vegetabilium sia andata perduta, essendo oggimai chiariti apocrifi i libri di cose botaniche, che da alcuni gli vennero attribuiti. Raggranellando però nelle altre opere di lui quanto può avere speciale attinenza alle piante non possiamo dubitare, che alla sintetica e vasta sua mente non fosse riuscito di recar ordine e luce anche in questo campo. Fautore caldissimo lo Stagirita del grandioso concetto di una serie continua di esseri naturali, per cui dai semplici a gradi a gradi si sale ai perfetti, il suo occhio scrutatore e acuto penetrando nell’intimo della organizzazione e della vita si sforza di trovare e mettere in chiaro le molteplici relazioni, che [p. 47 modifica]collegano fra loro gli esseri creati. La natura, dice egli passa senza sbalzi dalle cose inanimate alle animate per mezzo di esseri forniti bensì di vita, che ciò nullameno non sono animali, di guisachè non ravvisi che minime differenze tra quegli esseri, che si trovano collocati molto vicini nella serie naturale. Procedendo ai particolari di tali raffronti Aristotile in un luogo chiama le piante ostracodermi terrestri, e piante marittime gli ostracodermi, altrove a lui pare di scorgere una grande analogia tra gli insetti e le piante da ciò, che quelli e queste sono abili a moltiplicarsi per divisione di parti. Di così fatti paragoni o ravvicinamenti talvolta acutissimi, tal’altra bizzarri e strani, ma pur sempre ingegnosi ridondano i suoi scritti. Anche le differenze che corrono tra gli esseri dei varii ordini sa Aristotile cogliere con meravigliosa perspicacia, diresti quasi, con sovrumana intuizione. Epperò molti dei caratteri differenziati da esso stabiliti tra i minerali e le piante, tra queste e gli animali, dopo venti secoli di progressi nelle scienze hanno conservato il pieno loro valore. Per ciò che concerne le facoltà vitali delle piante lo Stagirita dipartendosi in tutto dalle opinioni di Empedocle, di Democrito, di Platone e d’altri filosofi, che volevano gli alberi forniti di sensibilità, di intelligenza, e capaci di appetiti non meno degli animali, esso non concede loro altra manifestazione della vita della vegetativa infuori. Quanto alla facoltà nutritiva, nella quale comprende [p. 48 modifica]ancora la riproduttiva, avverte, che le piante non si nutrono solo di acqua, ma che si appropriano eziandio le materie contenute nel terreno col mezzo delle radici. Per lui le radici sono alla pianta quel che la bocca e la testa agli animali. Supremo fine della vita nutritiva nel vegetale opina il gran filosofo essere la produzione del frutto e del seme, di modo che quanto più imperfetto l’animale, tanto più accostarsi per tale rispetto alla natura del vegetale. Seme nella pianta, e feto negli animali avere molte analogie tra loro, essere non pertanto diversi per origine e per scopo. Rispetto all’atto generativo nelle piante le opinioni di Aristotile non sono nè così chiare, ne così bene definite quanto quelle sulla nutrizione. Che anzi sembra, fosse da lui ignorata l’esistenza dei sessi, presa in quel senso in cui è accettata dai moderni Fitologi. Anche del fiore, e della importanza delle parti, che lo compongono, non ebbe lo Stagirita concetto esatto. Le sue opinioni intorno la riproduzione si possono riassumere nelle seguenti tesi tolte al libro de generatione animalium. Tutti gli animali dotati di locomozione, che è quanto dire perfetti, hanno, dice egli, il maschio separato dalla femina. In una medesima specie un’individuo è maschio, femìna l’altro, precisamente come l’uomo e la donna. Nelle piante per converso le due forze sono riunite non essendovi in loro differenze da maschio a femina. Le piante si riproducono da se senza una materia generatrice, ma per una cotal maniera [p. 49 modifica]di germe, che dicesi seme. Epperò essere giusta l’opinione di Empedocle, che anche le piante depongono uova, avvegnachè l’uovo non sia altro, che un germe, del quale una parte svolgendosi da l’animale, mentre l’altra gli fornisce l’alimento, ciò che appunto succede anche nel seme, di cui parte divien pianta, il resto serve a nudrirla. In quegli animali poi nei quali il maschio è disgiunto dalla femina osservarsi, che entrambi si congiungono quasi a formare un essere solo per l’atto della copula, di guisa che gli animali sono a dirsi quasi piante sì fatte, nelle quali quel, che in ognuna di esse avvi di maschio, sia stato separato da ciò, che pur avvi di femineo. Dal che si rileva, che l’ipotesi di Empedocle della fusione dei sessi nelle piante, in cui taluno dei moderni ha creduto riconoscere in nube la teoria dell’ermafrodismo vegetale è ammessa a modo di assioma da Aristotile. Se non che il filosofo di Stagira crede altresì ad una generazione primitiva o spontanea per semplice miscela e fermentazione di materia organica rispetto sì agli animali, e sì alle piante di semplicissima organizzazione. — Non mi dilungherò più oltre intorno le dottrine fitologiche di Aristotile. Il fin qui detto può bastare a far conoscere da quale alto punto di veduta egli considerasse i fenomeni della vita nel vegetale, e con quanto acume d’intelletto sapesse subordinare i fatti della scienza pratica ai principj di una razionale filosofia.

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Ad Aristotile segue immediatamente Teofrasto nato ad Eresia nell’isola di Lesbo, scolare da prima di Platone, poi dello Stagirita. Teofrasto scrisse sulla botanica di molti libri, dei quali quelli giunti fino a noi compendiano a così dire tutto il sapere fitologico degli antichi. Principalissima fra le opere di botanica del nostro filosofo si è l'Istoria delle piante, la quale componesi di 9 libri, ed è modellata sulla storia degli animali di Aristotile. Ma facciasi luogo al vero, sebbene il discepolo si studii di camminare sulle orme del maestro, non sempre gli riesce. L’altra, che si contiene in sei libri, discorre delle Cagioni delle piante, come dice il titolo. Tale e tanta è l'importanza di queste opere, che stimiamo porti il pregio nell’interesse della scienza di scendere per esse ad alcuni particolari. Al che tanto più volontieri ci accingiamo, in quanto che ben sono sulla bocca di tutti i botanici, ma pochi le hanno lette, pochissimi meditate come si vorrebbe; d’altra parte compiuti volgarizzamenti di esse, che io sappia, non abbiamo in nostra lingua, e i sunti che ne diedero l'Haller, lo Sprengel, il Cuvier, e recentemente il Mayer non sono tali da soddisfarci appieno.

Nel primo libro adunque delle Istorie si parla delle parti della pianta, nel secondo della semina, e generazione di esse, nel terzo e quarto degli alberi, discorre il quinto degli usi e delle bellezze loro, il sesto dei suffrutici, il settimo degli erbaggi, [p. 51 modifica]nell’ottavo si tratta dei cereali, nel nono dei sughi, delle gomme, delle resine, per ultimo nei frammenti, che ci restano del libro decimo, si ragiona delle radici officinali. A tutti senza dubbio passa innanzi per importanza il primo libro, che ne porge ne’ suoi più minuti particolari l’organamento delle piante, che è quanto dire, per usare il linguaggio del giorno, un breve trattato di Notomia vegetale. Qui ti sono poste le basi di quell’ordinamento o classificazione, come noi diciamo, che l’autore viene seguitando nel corso dell’opera. Eccone per sommi capi la sostanza. Nel vegetale Teofrasto distingue anzitutto gli organi interni dagli esterni. Fra questi ultimi colloca la radice, il caule, i rami, le gemme, la foglia, il fiore, il pedunculo, i viticci. Tali parti, che però non si trovano riunite tutte in tutti i vegetali, non sono omogenee, ma risultano di altre più semplici la scorza, il legno, il midollo, le quali alla lor volta sono composte dagli organi interni il parenchima, i nervi, le fibre, le vene. Non è sì facile conghietturare quale siasi propriamente il significato speciale, in che vuole intesi codesti vocaboli di fibre, di vene, di nervi, tanto confuse e contradditorie le applicazioni, che suol farne descrivendo le varie parti del vegetale, avvegnachè indichi con un medesimo nome promiscuamente i fascetti fibro-vascolari del legno, i vasi spirali, i vasi proprj, i condotti resiniferi, le fibre corticali. Ne di questo si vuol far le meraviglie, dappoichè [p. 52 modifica]allora non erano ancor note quelle sottili distinzioni, che l’uso del microscopio e le indagini di tanti dotti vi hanno di poi introdotte. Giusto al tutto è però il concetto, che l’autore si fa del parenchima, che distingue d’infra gli altri tessuti dalla agevolezza con cui le sue parti si possono separare, e scomporre, non che dal fatto, che diffuso in tutto l’organismo vegetale prende posto tra le fibre, le vene, i nervi. Quanto all’umore, che è nelle piante, osserva, che non gli fu dato alcun nome generale, ma che però in alcuni casi chiamasi lattice, e lagrime quando indurato produca granelli di resina e di gomma. I nomi di fibre e di vene insegna essere stati tolti da analoghe parti degli animali. L’assorbimento del sugo nutritivo, e la nutrizione della pianta pretende si operino per mezzo delle fibre. Chiama vene le fibre maggiori, e ne adduce in esempio quelle dei pini.

Nella distribuzione metodica degli esseri vegetali, che si legge in questo medesimo libro, Teofrasto si appiglia quasi esclusivamente agli incerti e malsicuri rapporti di grandezza, di consistenza, come pure agli usi loro, onde poi è condotto a stabilire spartizioni poco naturali, quale si è, a suo dire, quella principalissima di piante formate di fibre legnose, sode, e viventi la più parte al di là di un secolo (Alberi), ed in piante di tessitura molle, di consistenza poco soda, alle quali non basta la vita che due anni, od anche solo mesi o [p. 53 modifica]giorni. Se nonchè l’autore stesso ci vuole avvertiti, non doversi pigliar la cosa a rigor di termini, troppe essendo per tal rispetto le eccezioni e le anomalìe. Gli alberi poi spartisce in domestici e selvatici, sterili e fruttiferi, con foglie persistenti e caduche. I vegetali erbacei divide in erbaggi propriamente detti, ed in piante cereali, succolente, ed oleaginose. Quanto alla struttura del tronco legnoso ce ne divisa le molte differenze di consistenza, di altezza, di ramificazione, distingue i tronchi sodi e duri dai molli e sughosi, i forniti di spine da quei che ne mancano, i tigliosi facili a sfendersi e a lavorarsi da quelli, che tali non sono. La corteccia ti fa composta di due membrane, l’una superiore od epidermica, l’altra inferiore, interna o principale. Quella insegna poter cadere senza danno dell’albero, ed essere surrogata da una seconda congenere, che sotto le cresce, non così la corteccia principale, se ne eccettui lo sughero. Non gli sfugge ancora, che la scorza liscia e sottile del giovane sughero coll’andar del tempo divien grossa e bugnosa. Negli strati del legno la compattezza va decrescendo quanto più sono presso alla scorza, gli interni essere i più puri e tenaci; e poichè sul legno si regge la pianta vuole questo si paragoni alle ossa degli animali. Nel midollo ravvisa niente meno che il cervello della pianta, il germe delle nuove produzioni, la sede dell’umore fondamentale, del calore innato. Non ignora, che il midollo [p. 54 modifica]sta chiuso nel cuore del legno, che esso si compone tutto di schietto parenchima, che va struggendosi a mano a mano coll’invecchiare del tronco e dei rami, e che anche senza midollo può in talun caso vivere molti anni vegeta e rigogliosa la pianta. Rispetto alle radici avverte avercene di composte, come quelle delle gramigne, e di semplici o fitonose, le une e le altre variare di grossezza, durezza, numero di rami e di barbe, taluna affondarsi più, tal altra meno nel terreno, questa scendere verticale in giù, quella correre obliquamente. Distingue il rizoma serpeggiante di alcune culmifere dalle vere radici, e sa che le piante bulbose hanno due radici, il bulbo propriamente detto, e le barboline. Che più? Nè anche il bulbo a suo giudizio chiamerai radice, tuttochè vegeti sotterra, che non è il luogo, sì bene sua special natura, che assegna l’ufficio di ciascun organo. Non lascia di notare come i sughi della radice siano e più abbondanti, e più odorosi, e più energici di quelli di qualsivoglia altra parte. Ricorda eziandio delle radici aeree, che spiccandosi dalle estremità dei rami vengono giù diritte a modo di grosse corde a toccare il terreno, dove si ficcano colle barbe, e svolgonsi a nuove piante. Dice le foglie essere composte di vene, di fibre, di parenchima. Differenzia le foglie della radice, che per lo più hanno figura rotonda, da quelle del fusto diversamente conformate; con che ci sembra abbia voluto accennare [p. 55 modifica]alle foglie cotiledonari. Le foglie, aggiunge poi, variano all’infinito di grandezza, figura, posizione, consistenza, e più d’umore assorbiscono per di sotto, che non dalla superficie superiore. Passando a discorrere dei fiori ti insegna, altri di essi avere apparenza di foglie, altri di esilissimi filuzzi, quando essere di un sol pezzo con certe leggeri tacche e prominenze alla parte libera, quando di più pezzi, talvolta di un sol colore, tal altra di due o più. Semplicissima essere la struttura dei fiori negli alberi, l’invoglio fiorale o rimanere sulla pianta, o crescere insieme col frutto, o cader prima che questo maturi: dal che si ritrae aver egli conosciuto il divario che ci corre tra i fiori superi, e gli inferi. Ch’egli poi fosse in sul punto di cogliere la vera significazione dell’ovario è manifesto per nostro credere da quanto asserisce di certi fiori, che allora soltanto danno frutto, quando abbiano nel mezzo un cotal bitorzolo carnoso, dove per contrario, se questo manchi, ovvero tu l’abbi levato a bello studio, rimansi sterile il fiore. Supremo fine della vegetazione essere la produzione del seme. Questo trovarsi dentro di una carne sugosa (polpa), o di un guscio secco, quando spicciolato, quando in copia. Talvolta mostrarsi il seme nudo affatto o vogliam dire senza integumento. Oltre il seme avere i vegetali altri modi assai di riproduzione. I venti, le acque, gli animali favorire la comparsa di certe piante in siti dove non erano state vedute per lo [p. 56 modifica]innanzi. Essere nei vegetali di poderosa virtù il clima, e il suolo, che quella pianta, che qui ti cresce rigogliosa e produttiva, là intristisce, e si fa sterile, e n’ha gli esempii nelle palme, nel granato, che presso a Babilonia fanno bene a meraviglia, trasportati in Grecia frutti non danno o cattivi. Venendo a dire del sito e della qualità dei luoghi più confacevoli ai vegetali ci fa sapere, che tra le piante quali si dilettano dei luoghi secchi, aperti, a solatio, quali degli umidi ombrosi, quali amare il monte, quali il piano. I legni degli alberi cresciuti in luoghi elevati aver tempra più soda, più resistente, durare più a lungo. La quale influenza nei vegetali non giunge tuttavia fino a mutarne natura, e però vuole, che si rimandi tra le favole l’asserzione di taluni, che virtù di terreno valga a far sì, che da orzo nasca frumento, da frumento orzo. Ne tiene abbastanza comprovato, che togliendo agli alberi certe parti diventino al pari degli animali inabili a produr seme. Nei libri che seguono, oltre le cose che a noi parve per tener dietro al logico andamento delle idee dovere congiungere ed unire con quelle, che nel primo si discorrono, troviamo ricordate e descritte di molte piante note a que’ tempi. Dal libro secondo al quarto l’autore tratta specialmente degli alberi ed arbusti. Di alberi forestieri alla Grecia ti nomina il fico de’ Bramini, ed un cotal albero d’Egitto, che ha foglie sensibili. Nel capo 2.° del libro 4 trovi la più antica descrizione, [p. 57 modifica]che la storia ci ricordi del limone. Molte pur sono le notizie, che ne porge intorno la durata, le malattie degli alberi, le qualità differenti dei loro legni, il modo di valersi di questi e di lavorarli, nè scarseggia certo nei particolari circa alla propagazione delle piante, vuoi per opera di natura, vuoi per arte. Nel sesto libro discorre degli arbusti massimamente di quelli coltivati per ornamento, e dice cose mirabili di quel Silfio della Libia tanto celebrato presso gli antichi, dal quale si cava un sugo, che di poco si differenzia dall'assa fetida. Distingue le piante coronarie, che hanno fiori odorosi, da quelle che gli hanno inodori, nonchè da quelle, cui raccomanda principalmente l’uso, che suol farsi delle foglie loro. Ragiona a lungo della rosa, e dell’olio che se ne ottiene. Nel libro ottavo e nel nono tratta degli erbaggi coltivati, e delle piante selvatiche, che a questi si assomigliano, come pure di altre piante campagnole senza punto badare all’uso, che altri può farne. A proposito di una cotal pianta, che egli nomina Antemone, precorrendo ad una delle più importanti scoperte morfologiche di questi ultimi tempi fa notare, come essa spieghi i suoi fiori non già dal basso all’alto a modo delle altre piante, sì bene a rovescio, cioè dall’alto al basso. Di cotesta importante distinzione, che fa Teofrasto tra le infiorescenze centripede e le centrifughe, nessun botanico fino a Link, e a Roberto Brown mostrò di fare quel conto, che si doveva. L’ot[p. 58 modifica]tavo libro è dedicato ai cereali, che ei divide in tre gruppi, delle genuine culmifere, delle bacelline, ed un terzo, che comprende piante differenti da queste e da quelle. Le notizie e osservazioni, che l’autore ci porge in quel libro medesimo intorno la germinazione e lo svolgimento dell’embrione nei cereali e nelle leguminose, e per la copia e per l'esattezza loro ti faranno maravigliare se guardi ai tempi. Basti dire che appunto da queste idee di Teofrasto fu condotto il Cesalpino a stabilire quel suo tanto rinomato sistema, il primo, che al rifiorire delle scienze in Italia vedesse la luce. Nel libro nono, che versa sui sughi proprii, sulle virtù medicate delle piante, sui veleni, sugli aromi, sulle gomme è fatta speciale menzione della mirra, dall’incenso, della gomma, della trementina ed altre cotali; e solo duole, che un tanto ingegno accetti sì alla leggiera quelle favolose relazioni di rizotomi intorno le pretese virtù di alcune piante forestiere. Ma se della credulità soverchia lo scusano in parte i tempi, dai tempi gli ridonda sempre maggiore la lode dei nuovi veri, che a lui pel primo venne fatto di scoprire, o il men che sia, divinare. Perocchè s’ingannerebbe chi si desse a credere, che il suo merito tutto si riduca alle notizie preziose, che ci porge; osservatore e filosofo acutissimo, sempre che gliene venga il destro, tu lo vedi affrontare le questioni più gravi, più astruse, e spargervi sopra a volta a volta maravigliosi lampi di luce; qui di[p. 59 modifica]scorrerla sottilmente sulla forza assorbente delle radici, o sulla natura del seme, là sul fenomeno misterioso della caprificazione, ovvero sulla fecondazione artifiziale del Dattilo; quando intorno alle analogie tra i vegetali e gli animali, che egli ravvisa frequenti e spiccate, come nei rispettivi caratteri generali, così nella organizzazione, nel modo di crescere, di nutrirsi, di riprodursi sì degli uni che degli altri. Se nonchè per spiegare i fenomeni della vita vegetativa, ligio alle teoriche del maestro, ricorre troppo spesso alla supposta simmetria e proporzione tra l’umido fondamentale, e il calor proprio di ciascun essere.

L’altra opera di Teofrasto intitolata delle Cagioni delle piante non è, come taluno si potrebbe forse immaginare un trattato di Fisiologia vegetale, ma piuttosto un manuale d’Agricoltura. Consta come dissi di sei libri. Anche di questi giovi ricordare le cose principali. Nel primo libro l’autore torna sull’argomento, già discusso nella sua Istoria, della moltiplicazione de’ vegetali, la quale si fa per semi, per generazione spontanea, per separazione di parti, o per bulbilli ascellari, che egli chiama lagrime. Or eccovi a che riesce a mio giudizio l’importanza delle sue opinioni. Sonovi dunque a suo dire vegetali che si propagano in più modi, e vegetali per contrario ai quali non è concesso che un modo solo di propagarsi. Il seme, così egli, ti dà imagine dell’uovo, dappoichè e l’uno e l’altro somministrano [p. 60 modifica]l’alimento al germe, che si svolge da loro. Le piante domestiche riprodotte per semi di nuovo inselvatichiscono. Non è probabile che anche gli alberi nascano per generazione spontanea, come è il caso di alcuni vegetali più semplici, tuttochè siasi ciò potuto credere dell’olmo e del salice in grazia della picciolezza dei loro semi. Gli alberi resinosi non si rinnovano in altra maniera che per semi. Circa l’innesto, e l'inocchiamento avverte, che il domestico vuolsi innestare sul selvatico, non al contrario, ed il soggetto essere al nesto o calmo quello, che al seme è il terreno. Parlando dello sbocciare che fanno le foglie e i fiori dalla gemma avverte, che il fenomeno va lento nei sempreverdi, perchè secchi di natura. Reputa oltremodo malagevole lo spiegare il fatto degli agrumi, che mettono continuamente foglie e fiori. Non ignora darsi certi alberi di paesi caldi, che conservano le foglie durante il verno, ma se tu le trapianti sotto più duro clima se ne spogliano. Rispetto alla maturazione del frutto insegna come questa succeda, come di aspri i frutti si facciano dolci, quali cure si hanno ad usare se li vuoi avere belli e saporiti. La scorza o pericarpio, e il seme di rado maturano a un tempo, perciò che quella serve unicamente a nostro comodo e utile, questo ha da adempiere un fine speciale nella economia della pianta, che lo produce. Nel secondo libro scende a discorrere delle cause naturali, che agiscono sulla pianta. E qui nota come il cielo, il suolo, l’alimento [p. 61 modifica]diversi affrettino, o indugino il comparire, il maturare de’ frutti, tornino utili o nocivi alla qualità loro. Se avvenga che gli alberi crescano molto fitti, sicchè non possano essere investiti per ogni banda dalla luce e dall’aria, i medesimi si allungano troppo sottili e smilzi, perdono anzi tempo i frutti, rimangono al tutto sterili. Gli inverni nei quali abbonda la neve, o cadono frequenti le pioggie favoriscono la vegetazione. Suolo troppo pingue o salmastro conviene a poche piante, nuoce al maggior numero di esse. I venti freddi se non soffiano di primavera sono benefici. Si agita di poi la questione se una specie possa tramutarsi in un’altra, e d’onde avvenga, che ad alcune piante approdi l’essere vicine, ad altre ne incolga danno. Il terzo libro discorre del potere dell’arte sulle piante, ed è a così dire un codice di insegnamenti agricoli. Vi si dice quali piante s’abbiano a coltivare di preferenza, e si fa notare che l’autunno e il cominciar della primavera sono le epoche più convenienti per le piantagioni, e le semine. Entrando di poi a parlare della coltivazione degli alberi in generale tocca della scelta del terreno, del modo con che vuolsi lavorare, come e quando si piantino gli alberi, a quali distanze l’uno dall’altro si hanno a tenere, non che del loro governo sul luogo di dimora. Insegna doversi letaminare parcamente, inaffiare al bisogno, sarchiare e tener sgombro loro d’intorno il terreno dalle erbe d’ogni [p. 62 modifica]sorta. Potagione e diligenze nel farla. Dalle osservazioni ed avvertenze generali passando ai casi particolari si parla della coltura di alcune piante speciali quali sono la vite, la palma, il mandorlo, poi delle erbe coronarie, degli erbaggi, dei cereali o biade, e delle speciali cure, che richiede la coltivazione di quest’ultime, e dei danni o malattie cui vanno soggette, nominatamente della ruggine, del frumento, e dell’orzo. Libro quarto. Sebbene non picciola parte delle cose, che si discorrono in questo libro, servano come di complemento a quelle, che già si dissero nei precedenti, pure anche in questo materia nuova non manca. Così p. e. vi troverai trattato alla distesa delle sementi; quale il tempo di affidarle al terreno, quale il modo; in quali casi meglio giovi il vecchio seme, in quali il nuovo; quanto duri la facoltà germinativa ne’ semi; come si conservino; confronto tra i semi delle bacelline e delle culmifere rispetto all’epoca della semina, al tempo che devono stare sotterra, e a quello, di che abbisognano per maturare; quali tra loro siano di più facile coltura, quali si digeriscano meglio, quali più difficilmente ammalino. Tratta il libro quinto delle turbazioni, alterazioni, anomalie, che possono incontrare alle piante per cause naturali o per opera dell’uomo. Adduce l’autore siccome esempj della prima categoria la comparsa dei frutti fuori di tempo, o in sito anormale, la produzione dei frutti di diversa qualità su di un medesimo albero, il crescere di una pianta [p. 63 modifica]sull’altra, e simiglianti. Per opera poi dell’uomo si può fare, che gli acini dell’uva non contengano noccioli, che un medesimo gambo di vite porti uva nera e bianca, e va dicendo. Chiude il libro con alcune notizie intorno alle malattie delle piante, tra le quali la scabie del fico, la melata, la tuberosità, la gangrena; nè lascia di avvertire come le piante urbane e domestiche più facilmente ammalino delle selvatiche. Dei quali malori ricercando le cause crede di trovarle nell’eccesso del freddo e del caldo, nell’azione dei venti, delle pioggie, delle brine, nelle esalazioni malefiche del suolo, nella cattiva qualità dell’alimento. Discorre per ultimo della morte delle piante, sia di quella che avviene per vecchiaja, così portando la ineluttabile legge di natura, sia della accidentale, che sogliono loro cagionare estrinseche circostanze. Ne qui gli sfugge il fatto notabilissimo, che quelle piante hanno più breve la vita, che più largamente fruttificano. Il sesto libro incomincia con una filosofica discussione su ciò che sia odore e sapore. Combatte l’opinione di Democrito, che voleva derivare le differenti qualità degli odori e dei sapori dalla diversa figura e disposizione degli atomi, e tiene per contrario doversene cercar la causa nelle relazioni diverse del secco e dell’umido, dei freddo e del caldo. Vuole che ciascuna pianta abbia un suo particolare sapore, più manifesto nei frutti acerbi, meno nei maturi, scarso o mancante al tutto nelle parti umide e disseccate. Avverte il fatto verissimo, che [p. 64 modifica]le piante di sapor dolce non hanno odor manifesto, mentre le acri e caustiche tramandano odore fortissimo, nè ignora, che col variare delle ore del giorno suol crescere o scemare l’intensità degli odori.

Queste poche cose, che sono venuto più quà più là cogliendo come alla ventura di mezzo alle moltissime ed importantissime, onde vanno ricche le opere di Teofrasto denno bastare, voglio credere, a far persuaso ognuno dei tesori inestimabili di pratiche cognizioni, di preziose notizie, che in que’ libri si contengono, e come per essi ci è dato tale un corpo di dottrine intorno la nostra scienza, che può dirsi completo pei tempi. Che se poi ci faremo a considerarne parte a parte i pregi, troveremo essere tanti da superare ogni qualunque elogio se ne volesse fare. E primieramente non si potrebbe abbastanza commendare l’ordinata disposizione dei materiali, la copia e diligenza delle osservazioni, l’eleganza del dettato, e sovra ogni altra cosa la profonda conoscenza, che l’autore mostra possedere delle leggi, onde si governa la vita del vegetale. Che ove si guardi all’indole dei tempi in cui l’occhio non aveva ancora rinvenuto nei vetri quel possente ajuto, che vi ha trovato di poi; nè si sapeva conservare col calore artifiziale le piante dei tropici nelle serre, parrà cosa quasi superiore alla umana intelligenza, che il filosofo di Eresia abbia potuto accumulare un numero sì grande di fatti [p. 65 modifica]peregrini, di osservazioni esattissime, e dare spiegazioni così sagaci e ingegnose dei problemi più difficili di Notomia, e Fisiologia vegetale. Scrittore felicissimo, eloquentissimo Teofrasto ci ha lasciato altresì di assai belle descrizioni di alcuni vegetali quasi ad esemplare di terso, schietto, elegantissimo stile nel fatto di materie scientifiche. Addurrò a modo di esempio quelle del riso, del Sago, dell’Albero del Paradiso, del Banano, della Palma, del Nelumbio, del Cappero di padule, del Loto, della Castagna d’acqua. Laonde a buon diritto Teofrasto è salutato dal voto concorde dei botanici di ogni età Padre e Fondatore di nostra scienza; nè certo alcuno sapresti trovare vuoi tra i Greci vuoi tra i Romani, che più distesamente e sapientemente di lui abbia favellato di cose botaniche sì generali e sì particolari. Che se non può negarsi, che invano cercheremmo ne’ suoi scritti quel fare ardito, quella altezza di concepimenti, quella potenza sintetica, che rapiti maravigliamo nel maestro d’Alessandro, certo è pure che di tal difetto ci compensa generosamente colla vastità della dottrina, colla giustezza nei ragionamenti e nelle deduzioni, colla esattezza dei particolari, massimamente poi colla mirabile precisione, e leggiadria del linguaggio scientifico.

Molte piante sono pure menzionate negli impareggiabili idilii del più gentile bucolico greco, Teocrito di Siracusa, vissuto poco dopo Teofrasto, cioè un tre secoli avanti Cristo. A dir vero il poeta non [p. 66 modifica]ne descrive alcuna per minuto, ma le distingue con sì acconci epiteti, che senza difficoltà le possiamo riconoscere. A scansamento tuttavia di inutili ripetizioni stimo bene di passarle in silenzio, dappoichè ricorrendo quelle piante medesime nei divini carmi di Virgilio, mi porgeranno questi occasione di tutte quasi nominarle quando si toccherà degli studii nostri appo i Romani.


Dopo la morte di Teofrasto scienze e lettere in poco d’ora vennero così al basso in quel continuo tralignare dell’ellenica schiatta, che vuoi nella Grecia propriamente detta, vuoi ad Alessandria di Egitto, in quel grande asilo aperto alla greca coltura dalla sapiente munificenza dei Lagidi, non troveresti per avventura più un dotto naturalista, che si possa dire successore non indegno a quei poderosi ingegni degli Aristotili e dei Teofrasti, dopo i quali, quasi esitiamo a ricordare i nomi sì poco eloquenti di un Attalo Re di Pergamo, di un Archelao, di Mitridate, Nicandro, e talun altro menzionati da Varrone, da Columella, da Plinio, tanta più, che se dritto stimi, piuttosto medici e agronomi li chiamerai, che botanici nel vero e generico senso della parola. Ben presto pur quel poco riflesso della splendida civiltà greca doveva venir meno in Egitto per rifolgorare più possente in Roma, dove il traevano i fatti del mondo. E colà pure ci affrettiamo a seguirlo, che troppa vergogna [p. 67 modifica]sarebbe a chi ne rammentò le vicende in sì remote contrade, non si curar poi delle sorti, che ebbe a correre nostra scienza in questa Italia presso quel gloriosissimo dei popoli, che fu la gente latina.