Alle porte d'Italia/La Ginevra italiana

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
La Ginevra italiana

../Il forte di Fenestrelle ../Le Termopili valdesi IncludiIntestazione 7 dicembre 2014 100% romanzi

Il forte di Fenestrelle Le Termopili valdesi


[p. 153 modifica]

LA GINEVRA ITALIANA





La prima gita a Torre Pellice me la fecero fare i carabinieri. Un giorno, passeggiando per Pinerolo, vidi un lungo cartellone variopinto del teatro delle marionette, con su scritto a caratteri cubitali: — Questa sera si rappresenta: Le gesta e avventure del famoso bandito Delpero da Canale arrestato dal vice brigadiere dei carabinieri Luigi Gamalero, attualmente in riposo a Torre Pellice. — Come! dissi fra me: il Gamalero è ancora vivo? Mi pareva che gli attori di quel dramma terribile, di cui fu protagonista il Delpero, e che terminò con sei impiccamenti solenni nella piazza maggiore della città di Bra, dovessero tutti esser morti e inceneriti da un pezzo. Sbagliavo, perchè non eran passati più di venticinque anni; ma gli avvenimenti che ci colpirono quand’eravamo ragazzi ci paiono quasi sempre più lontani del vero, forse per effetto di quella grande ebbrezza della prima gioventù che vi stese sopra i suoi fumi. Quel cartellone delle marionette mi richiamava alla memoria una delle commozioni più vive dei miei primi anni. Rividi la sala da desinare di casa mia, la famiglia a tavola, la [p. 154 modifica]cuoca che porgeva a mio padre la Gazzetta del popolo, arrivata allora, e poi tutta la scena: mio padre dà una scorsa al foglio, e grida: — Ah! l’hanno agguantato finalmente! — e noi tutti prorompiamo in una esclamazione di maraviglia e di gioia. Poi tutti zitti, immobili, a sentir la lettura d’una corrispondenza da Vigone, nella quale era raccontato l’arresto dell’assassino famoso, che da molti mesi atterriva e inorridiva il Piemonte; l’apparizione inaspettata dei carabinieri nell’osteria dove egli stava desinando con uno dei suoi, la lotta accanita, la resistenza furiosa del mostro, forte come un toro e svelto come una tigre, le varie vicende di quella mischia disperata che noi seguitammo con l’animo sollevato, quasi ansando, come se l’esito fosse ancora incerto; e finalmente il largo e profondo respiro dato da tutti all’intender quelle benedette parole: Si arrese. Dei carabinieri, non so come, m’era rimasto impresso il solo nome del Gamalero; e me lo ripetevo sovente, a voce alta, con gratitudine. Perchè era un pezzo, per dio Bacco, che noi ragazzi, facendo delle scappate in campagna, tremavamo di veder sbucare da una siepe o da un fosso lo spaventevole bandito, e scappavamo come il vento alla vista d’ogni faccia barbuta. Nessun altro masnadiero ci aveva mai ispirato tanto terrore e tanto ribrezzo. Era perchè il Delpero non aveva mai mostrato mai neppur uno di quei rari e istantanei sentimenti di mansuetudine che passan per l’animo anche ai malfattori più tristi, una di quelle qualità, per esempio, che avevan reso quasi simpatico, [p. 155 modifica]pur troppo, il famoso bersagliere Mottino: egli era un assassino tutto di un pezzo, una belva crudele e stupida, che uccideva inutilmente, e torturava prima di uccidere, e infieriva contro i cadaveri; uno sgozzatore di ragazzi, acceso di libidini orrende, perverso e feroce fin nel midollo delle ossa. L’avevano agguantato, dunque! Mentre noi leggevamo la notizia della sua cattura a Vigone, egli era già arrivato a Pinerolo, legato come un salame, in mezzo a uno squadrone di cavalleria. Tornavamo a respirare, potevamo rifare le nostre scampagnate col cuore tranquillo.... Di tutto questo mi ricordai lucidamente leggendo quel cartellone dei burattini. — Ah! è ancora vivo, e sta a due passi di qua, il Gamalero! Ebbene, lo andrò a trovare; e gli farò raccontare le sue gesta in mezzo a due bottiglie di Barolo vecchio.



Tre giorni dopo, infatti, una bella mattina dorata di settembre, mi trovavo sul treno di Torre Pellice, con due buoni amici pinerolesi (due editori, tanto per non perder l’abitudine); tutto contento di rivolare un’altra volta a traverso a quella vasta campagna così verde e così buona, coperta da una rete infinita di canali, di rigagnoli, di strade, di siepi, di file di alberi, e chiusa all’orizzonte da quelle grandi montagne di color celeste, così placidamente superbe. Ma non era passata una mezz’ora dalla partenza, che lo scopo della mia gita era [p. 156 modifica]mutato. C’erano dei viaggiatori, nel mio vagone, degli uomini maturi e dei vecchi, d’apparenza così tra il ceto signorile e il ceto medio, che avevano qualche cosa di singolare nel viso, nel vestire e nel contegno. Parlavan francese, e si capiva che non eran francesi, benchè si capisse pure che quella era la loro lingua abituale; erano italiani, e trovavo in loro non so che di diverso da tutti gli altri italiani, nelle linee del viso, nell’espressione degli occhi e della bocca, che so io? nella compostezza degli atteggiamenti, nell’intonazione tranquilla e quasi grave dei discorsi. Erano sbarbati la più parte, d’aspetto pensieroso, vestiti d’abiti oscuri; avevano le capigliature lunghe, dei cappelli bassi, di larga tesa, le cravatte nere; tutti puliti, austeri e semplici. M’ispirarono subito una viva curiosità. Io non avevo mai visto alcuno del loro popolo; poichè era evidente che appartenevano tutti ad una sola grande famiglia. N’avevo inteso molto parlare, peraltro, da varii mesi, perchè il loro nome si pronunzia assai sovente a Pinerolo, e con un sentimento di simpatia e di rispetto, anche dal popolo minuto; nella mente del quale esso risveglia un’idea confusa di grandi dolori e di grandi glorie passate. Avevo visto anche nella biblioteca di Pinerolo, sui margini di certi libri di storia, nei quali essi eran giudicati dall’autor cattolico con parole appassionate e ingiuriose, delle risposte sdegnose, scritte in furia a matita, delle sclamazioni ironiche e dei rimproveri amari, che rivelavano l’anima calda di lettori giovanetti, offesi nella loro fede; e m’era [p. 157 modifica]nato il desiderio di conoscerli e d’interrogarli. Ma confesso che sapevo assai poca cosa dei fatti loro. Per molti anni, da ragazzo, il loro nome non mi aveva chiamato alla mente altre immagini che lo strano emblema della loro fede: una candela che arde in mezzo a una corona di stelle, col motto Lux lucet in tenebris; e il ricordo d’un bel quadro d’artista piemontese, il quale rappresentava un gruppo d’uomini e di donne, sfuggiti alle persecuzioni dei savoiardi, e raccolti sulla cima rocciosa d’una montagna, pallidi di sfinimento e di terrore, sotto il raggio rosato dell’aurora. Poco tempo dopo, negli anni della nostra rivoluzione, la storia delle loro lotte gloriose contro il despotismo teocratico m’aveva acceso d’un entusiasmo pieno d’affetto. Poi avevo dimenticato. Ed ora mi ritrovavo, quasi all’impensata, in mezzo a loro e stavo per entrare nel loro paese, e, cosa che non prevedevo ancora, nella loro storia, nella quale il mio spirito e il mio cuore dovevano poi rimanere per molti mesi, come imprigionati dall’ammirazione. Al nascere di questi pensieri, naturalmente, il vice brigadiere Gamalero si ritirò in seconda linea. Non desiderai più di arrivare a Torre Pellice che per veder la capitale di quel popolo così singolare e ammirevole. E intanto avrei voluto attaccar conversazione con qualcuno dei presenti. Ma il loro contegno non era punto incoraggiante. Due parevano assorti nei proprii pensieri, altri discorrevano a voce bassa d’una Scuola latina, che è nel villaggio di Pomaretto, posto all’imboccatura della valle di San [p. 158 modifica]Martino. Uno, che pareva un ecclesiastico, leggeva un piccolissimo giornale religioso, che si stampa a Pinerolo, intitolato Le Témoin. La sola persona a cui avrei potuto rivolger la parola era una signora sui quarant’anni, seduta davanti a me, vestita di nero, pallidissima, con un bimbo sulle ginocchia; una bella donna che pareva afflitta da una sventura recente, e guardava le montagne; ma con un aspetto che rivelava un animo così profondamente addolorato, e così forte, nello stesso tempo, contro il dolore presente, e così coraggiosamente risoluto ad affrontare i dolori avvenire, che la riverenza mi ricacciava indietro tutte le interrogazioni, anche le più gentili, che mi venivano alle labbra. Stavo non di meno per rivolgerle una domanda sul suo bambino, con quella timidezza con cui si dirige la parola a uno straniero in un paese straniero, quando il fischio della macchina a vapore annunciò che eravamo arrivati a Bricherasio....



È un bel modellino di piccola città campagnuola, che fa i conti delle sue rendite, beatamente, ai piedi d’una collinetta da giardino, coronata d’una chiesetta candida, in mezzo a una benedizione di frutteti e di vigneti, tutti bianchi d’ombrellifere, che metton fame e sete a guardarli. — Gran bella cosa la proprietà agricola! — avrebbe esclamato il Prudhomme, affacciandosi al finestrino.... — migliore forse [p. 159 modifica]della proprietà letteraria. — Tutto spira un’aria d’abbondanza là attorno, e di vita grassa e contenta; l’aria d’un paese in cui non ora soltanto, ma da tempo immemorabile regni una pace da Bengodi, non stata mai turbata fuorchè dalle schioppettate dei cacciatori di quaglie.... Ma è un puro inganno di quel bel verde impostore, che dà l’aspetto innocente a ogni luogo. Dov’è ora la chiesetta bianca, ci fu per secoli un castellaccio; intorno alla cittadina graziosa girava una rude cintura di bastioni; e dal tempo che vi apriva la testa a mazzate la soldataglia dei feudatarii fino al giorno in cui il marchese di Parella vi vendicò il carnaio di Cavour, macellando il presidio francese venuto da Pinerolo, anche qui corse sangue sopra sangue, e s’ammontarono ossa su ossa. La strada ferrata passa appunto a sinistra dell’altura dove piantò il suo quartier generale Carlo Emanuele I, nel 1594, quando strinse d’assedio Bricherasio, difeso dai francesi, con quel suo poderoso e strano esercito composto di piemontesi e di svizzeri, di borgognoni e di spagnuoli, di milizie di Pinerolo e di Barge, e di milanesi, accampati tutt’intorno, lungo le rive del Chiamona e del Pellice. L’accampamento del duca occupava lo spazio coperto ora da un ricco vigneto: era come un piccolo castello di tela e di legno, formato da alti padiglioni conici, congiunti fra loro, con una piazzetta nel mezzo; e gli s’alzavano accanto da una parte le tende del Conte di Marino e di don Amedeo di Savoia, e dall’altra, altre innumerevoli tende e padiglioni bianchi, [p. 160 modifica]gialli e scarlatti, e baracche imbandierate, una città guerresca improvvisata, dove stavan la corte, la nobiltà, un visibilio d’alti uffiziali di Piemonte e di Spagna; e alla estremità opposta, Pietro di Padilla, generale dell’esercito di Filippo II. Lo spettacolo doveva esser vivo e splendido, se si pensa chi era il direttore di scena. Ora, nel luogo in cui s’alzavano i padiglioni ducali, su quello stesso tratto di terreno dove passeggiava a passi concitati, nelle notti insonni, quel grandioso capitan di ventura, stendendo col pensiero i tentacoli smisurati della sua ambizione dalla Macedonia alla Provenza, dal trono del Papa al trono di Boemia, dalla corona di Spagna alla corona di Francia, e meditando le vaste cabale e le giravolte astute e i colpi d’audacia che meravigliavan l’Europa; in quel breve spazio quadrato dove egli intratteneva con la conversazione rapida e scintillante i pomposi generali dei due eserciti, e divisava acquisti di quadri del Vasari e del Veronese, e poetava forse, e sognava la gloria immortale, impotente quasi a contenere nel piccolo corpo difettoso la piena tumultuante delle passioni; in quello stesso punto il vignaiuolo avido e astuto quanto il principe savoiardo, ma più cauto, stilla pacatamente la maniera di fare al padrone ciò che il principe avrebbe voluto fare all’Europa, e conta sulle dita i miriagrammi d’uva e le brente di vino che potrà buffare onestamente, ignaro affatto delle glorie storiche della sua vigna, e fin del nome di Carlo Emanuele. Così, con l’ignoranza, il contadino si vendica dei gloriosi devastatori della [p. 161 modifica]campagna. Poichè gliel’avevan conciata bene, tra assediati ed assedianti, a giudicarne da un disegno di quel tempo, fatto sul luogo dal Caracca, e inciso dal Fornaseri, a Turino. È un curioso quadro che rappresenta mirabilmente il castello, i bastioni di Bricherasio e tutta la campagna circostante, nel trentasettesimo giorno dell’assedio, e nel momento dell’ultimo assalto. Gli assediati son sulle mura; grandi masse di cavalleria spagnuola e piemontese ondeggiano tutt’intorno, lungo gli accampamenti e le trincee; tutte le batterie, dai lunghi cannoni, lampeggiano; le baracche dei vivandieri, una piccola città, posta sulla riva del Chiamona, fumano per apparecchiare il pasto della vittoria; in ogni parte del campo caracollano e galoppano uffiziali e carabinieri; tutto s’agita, freme, ribolle, s’avanza; già due colonne di spagnuoli e una di piemontesi e di borgognoni hanno assalito la cinta in tre punti, hanno superato il fosso, hanno invase le breccie; una è già dentro le mura; i difensori resistono ancora, ma vacillano; le grida di Viva el Rey e Viva il duca arrivano all’orecchio dei cittadini tremanti nelle loro case; altri pochi minuti e i tre torrenti umani, infranta l’ultima resistenza, irromperanno nelle strade strepitando e urlando: — La ciudad es nuestra! I souma sì! Abajo las armas! Viva Bricheras! Döerve le porte! e convergeranno tumultuariamente verso la piazza.... Nella quale troveranno la bella statua del generale Brignone, il bravo soldato di Palestro, che è ritto là in mezzo al suo caro paese nativo, in [p. 162 modifica]quell’atteggiamento austero e quasi doloroso in cui lo vidi sulla via di Villafranca, il giorno della battaglia di Custoza, durante la ritirata lenta e muta dei suoi granatieri.



Passato Bricherasio, s’apre con maestà graziosa la bella valle del Pellice, dai due lati della quale s’alzano il Vandalino, superbo e triste, e la Gran Guglia, e i monti di Angrogna, e il Frioland, una varietà maravigliosa di cime cinerine che sorgono dietro alle alture verdi, di cime azzurre che si drizzano sopra le cinerine, di punte bianche che fan capolino sopra le azzurre, fino al confine di Francia; e tutt’intorno, dalle rive del torrente affollate di pioppi, su per le falde coperte di gelsi e d’alberi fruttiferi, vigneti sopra vigneti, e campi biondi su campi biondi, divisi da macchie di castagni, e boschi di pini e di faggi più alti, e ville, fattorie, chiesuole, capanne a tutte le altezze, come nelle vicinanze d’una città grande; e su tutta questa bellezza una gran pace. Sulla cima d’un bel poggio, da una parte della via ferrata, s’alza in mezzo ai castagni il castello severo di Bibiana; dall’altra luccicano al sole i tetti di San Giovanni; in faccia, salta fuori dai boschetti del Pellice il campanile bianco di Luserna. Intanto il treno corre in mezzo a palazzine eleganti, a giardini fioriti, a grandi mucchi e a lunghissime file di lastre di gneiss, cavate dai monti vicini, tra un martellare sonoro di operai, che si spande pei campi come un coro [p. 163 modifica]di voci argentine; e la valle si restringe, i monti si innalzano, la campagna.... Un momento.... Non si passa mica di là come si passa per qualunque altra stretta di montagne. Mette conto di arrestare per un momento il pensiero, in quel passo. Noi stiamo per entrare, siamo già entrati anzi, in una regione famosa e gloriosa, in una piccola Svizzera italiana, che ha là vicino, in Torre Pellice, la sua Ginevra, in mezzo a un popolo singolare, che forma come una nazione a parte nel seno della nostra nazione, raccolto quasi tutto e accampato in una vasta fortezza quadrilatera di montagne dirupate e boscose, compresa tra l’alta valle del Po, la frontiera del Delfinato e la valle di Susa. Questo popolo ha una storia propria, la cui origine si perde nell’oscurità del medio evo, una fede sua, una sua letteratura, un suo dialetto, un particolare organamento religioso democratico, che appartiene a lui solo, un’assemblea libera che tratta e decide dei suoi interessi più delicati, delle istituzioni speciali, fondate in parte e sostenute dalla liberalità di gente d’ogni nazione. Non occupa, e scarsamente, che tre valli, di cui una piccolissima, e otto valloni; e ha corrispondenze e stazioni in tutte le parti d’Italia, e colonie in Germania e in America, e vanta amicizie di popoli e di principi, ospita visitatori riverenti e devoti di tutti i paesi, manda soldati e divulgatori della sua fede in tutti i continenti. Fra abitanti del piano e montanari non furon mai più, o molto di più di ventimila, divisi in quindici parrocchie: eppure ebbero le vicende e la forza d’un [p. 164 modifica]grande popolo; ebbero i loro eserciti, i loro generali, i loro eroi, i loro martiri; trattarono molte volte da pari a pari con lo Stato cento volte più grande a cui appartenevano: sostennero trenta guerre, quali contro il Piemonte, quali contro la Francia, più d’una contro i due Stati riuniti; tennero testa per quasi un anno alla potenza di Luigi XIV. Come il popolo musulmano, sostennero urti di crociate fanatiche; furono strappati tutti insieme dalle loro terre come il popolo ebreo; si riconquistarono la patria come il popolo iberico. Dispersi, uccisi, distrutti quasi tutti come una razza infetta di cui si volesse purgare la terra, ripullularono più numerosi e più ostinati. Infine stancarono con la costanza invitta gli oppressori, si fecero invocare da loro nei pericoli, combatterono valorosamente per la causa comune, strapparono ai secolari nemici l’ammirazione e la gratitudine, li costrinsero a dar loro la libertà per cui lottavano da secoli, a vergognarsi del passato, e a festeggiare quella concessione come un bene e una gloria di tutti. E nonostante le mille persecuzioni, e le guerre spietate, e i lunghi esilii, che avrebbero dovuto spezzare intorno a loro ogni legame, e soffocare nel loro animo ogni altro affetto fuor che l’amore dei propri monti e l’orgoglio della propria storia, essi si mantennero sempre italiani nel cuore, e come furono del vecchio Piemonte, sono ancora una delle provincie più nobilmente patriottiche della nuova Italia. Onore ai valdesi, dunque! Eccoci a Ginevra... Voglio dire a Torre Pellice. Vediamo un po’ questo illustre minuzzolo di capitale.


[p. 165 modifica]


Scendiamo alla stazione, usciamo nella piazza.... Dove diamine siamo? In Italia, o in una città di passo della Svizzera e del Reno? C’era pieno di gente. I due amici mi spiegarono: era la stagione in cui vengono a passar le vacanze dai loro parenti i molti valdesi che esercitano l’insegnamento in quasi tutte le parti d’Europa, e specialmente in Olanda e in Inghilterra. Erano anche i giorni nei quali si raduna a Torre Pellice il sinodo annuale, a cui intervengono, in segno di simpatia per “il popolo dei martiri„, rappresentanti di tutte le chiese evangeliche del mondo: una specie di piccolo concilio ecumenico, di parlamento ecclesiastico, composto però di ecclesiastici e di laici in parti quasi eguali, il quale tratta tutte le questioni relative alle leggi e ai regolamenti che reggon la chiesa valdese, e i suoi istituti di beneficenza e d’istruzione. Molta gente arrivava, molta aspettava. Era un rimescolìo di maestri, d’istitutrici, di istitutori, di famiglie, un ricambiarsi di strette di mano e d’abbracci, un mormorio di saluti in francese, in inglese e in tedesco; poichè non son pochi anche i tedeschi e gl’inglesi che soggiornano là durante l’estate. C’erano anche dei valdesi venuti dalle stazioni delle varie provincie d’Italia, da Venezia, da Roma, da Napoli; parecchi personaggi del Sinodo, pastori, evangelisti laici, professori, ministri emeriti, e anziani e diaconi di tutte le valli, quasi tutti con [p. 166 modifica]quell’aspetto particolare d’austerità benevola, vestiti di abiti neri, coi capelli lunghi e ravviati, coi visi lisci e placidi, composti senza affettazione, e come serenamente pensierosi. Apparivano pure, qua e là, degli ecclesiastici stranieri, delle canizie biondeggianti, dei visi ascetici, d’una carnagione di altri paesi: ministri protestanti degli Stati Uniti forse, o d’Australia; un pastore di Livonia, si diceva che ci fosse, e dei membri della chiesa riformata del Capo di Buona Speranza. Era uno spettacolo curioso a vedersi, in quella borgata nascosta fra i monti, tutta quella gente così diversa d’aspetto, di modi, di linguaggio da quella che si vede in tutti i paesi vicini. Pareva di ritrovarsi in mezzo a una di quelle grandi carovane di viaggiatori, messe insieme dagli impresari di viaggi internazionali, la quale non fosse discesa a Torre Pellice che per far colezione, e dovesse ripartire fra pochi minuti per ripassare le Alpi e risparpagliarsi per l’Europa. Tutti s’avviavano verso il paese, a passo lento, discorrendo pacatamente; e in mezzo alle tube lucide e ai grandi cappelli patriarcali di feltro nero, si vedevano spuntare delle cuffiette bianche di contadine valdesi, delle lunghe penne di soldati delle compagnie alpine, dei veli azzurri di signore e di signori, armati di alti bastoni, raccolti a brigatelle, che s’apostrofavano in piemontese e in italiano; poichè a Torre Pellice è il quartier generale degli alpinisti della sezione dell’Alpi Cozie; e il bel quadro aveva da una parte, sull’orlo d’un prato, le macchiette indispensabili di due carabinieri, immobili, che [p. 167 modifica]parevano venuti là per tenere nei giusti limiti la libertà di coscienza. Un bel quadro, una mescolanza bizzarra di gravità e di gaiezza, di accademico e di campestre, di nostrano e d’esotico, in mezzo a quelle alte montagne, sui confini d’Italia, dentro al verde immenso e quieto d’una delle più gentili valli delle Alpi.



Infilammo la via principale, passando davanti a una fontana pubblica che fece erigere il re Carlo Alberto, in segno di gratitudine per l’accoglienza affettuosa che gli fecero i valdesi nel 1844. Il paese stretto e lunghissimo, è tutto pulito e lindo, che par fabbricato da pochi anni. Somiglia a un villaggio svizzero. Le casette colorite di fresco, i salici piangenti che sporgon fuori dai muri bassi dei giardini, le torrette bianche delle chiese evangeliche che spiccano sulla vegetazione bruna dei monti, e le viti fronzute che formano delle tende verdi sulle facciate delle case turchine e rosee, gli danno una grazia singolare; guastata un poco dai grandi casoni nudi e grigi dei molti opifici, fabbriche di tessuti la maggior parte, che empion la valle d’un brontolio cupo e affannoso. Non ci sono che quattromila abitanti, metà dei quali, a un di presso, cattolici, e quasi tutti operai. Ma il carattere generale della piccola città è vistosamente valdese. C’è quella nitidezza, quell’aria di semplicità quasi ingenua che si ritrova nei sermoni dei pastori delle [p. 168 modifica]valli. Quelle iscrizioni insolite nei nostri villaggi, come Circolo Letterario, Sala di Conferenze, Scuola normale, Pensionnat, che inalzano gli abitanti nella stima del visitatore, pare che nobilitino, in certo modo, anche l’aspetto materiale del paese, e gli aggiungano all’occhio qualche cosa d’originale. I vetri delle finestre tersissimi, le botteguccie anche più misere, ordinate e lucide, e non so che apparenza d’assestatezza in tutte le cose, mi ricordarono certi villaggi della Frisia e di Groninga. Le piccole strade erano animate; giravano molte cuffiette bianche; passavan dei signori, con delle palandrane scure, dei visi di professori, che leggevano le loro piccole gazzette locali, Le Témoin o l'Avvisatore alpino, m’immagino; delle frotte di bimbi, coi libri sotto il braccio, uscivan dalle scuole, allegri ma senza far chiasso, vestiti da povera gente, ma senza cenci. Non osservai nulla di diverso, nell’aspetto della gente del popolo e dei campagnuoli, dal tipo comune piemontese; ma so che dei naturalisti stanno studiando se non esistano nella famiglia valdese certi particolari caratteri fisici, per effetto del numero grandissimo di matrimonii fra consanguinei che vi seguon da secoli: essi ci diranno qualche cosa. Noi, in un breve giro, incontrammo parecchi ragazzi bellissimi, punto somiglianti a quelli che credeva di trovare tra gli eretici il duca Carlo II, con un occhio in mezzo alla fronte, e sei file di denti pelosi. Incontrammo anche una signorina valdese, alta e superba, una vera bellezza, una donnina del Michetti ingigantita, che avrebbe fatto cader la [p. 169 modifica]

bolla della scomunica dalle mani di Torquemada. E fu questa la sola vista che turbò un momento, per noi, la quiete serena di Torre Pellice. C’era in ogni parte un’operosità tranquilla, e come un buon odore di vita ordinata e raccolta; l’apparenza d’un paese in cui non fosse mai stato commesso un delitto, nè seguito un tumulto o una sventura pubblica, e dove i carabinieri stessero in villeggiatura.... A proposito: la passeggiata pei dintorni, naturalmente, la riserbammo a più tardi: la nostra prima visita fu per il vice brigadiere Gamalero.



Domandammo di lui all’albergo; ci dissero che faceva il garzone da un liquorista! Andammo dal liquorista. C’eran tre uomini seduti a una piccola tavola, in una piccola stanza, in mezzo ad una nidiata di bimbi. Dissi subito: — Dev’esser quello là; — non si poteva sbagliare. Egli ci portò il vermut. È veramente una figura da carabiniere piemontese dell’antica stampa; alto, membruto, d’aspetto grave, quasi cupo, con due grandi occhi scrutatori e i baffi grigi. È vicino ai settanta, ne dimostra dieci di meno: si capisce alla prima occhiata che doveva avere una forza erculea, e che l’ha conservata quasi tutta. Gli domandammo se voleva venire all’albergo dell’Orso a bere un bicchiere con noi, e a raccontarci il famoso arresto. Rispose di sì, senz’altro, come se fosse una cosa già convenuta, e fece subito un’uscita da vecchio [p. 170 modifica]carabiniere, abituato alle formalità del servizio, — Mi rincresce soltanto che non mi ricordo più del nome di battesimo di Delpero. — Io lo sapevo: Francesco; e anche il soprannome, Nerone: li avevo visti in sogno più d’una volta, scritti sulla parete, a caratteri rossi. Fummo maravigliati della sua voce: una voce profonda, poderosa, un po’ tremula, la quale, a’ suoi bei tempi, doveva gridare degli alto là da far accapponare la pelle ai cavalli. Due ore dopo era seduto a tavola con noi, e ci raccontava la sua vita, modestamente: figliuolo d’un capellaio d’Alessandria, soldato nella brigata Aosta dal 1835 al 1841, poi carabiniere; promosso vicebrigadiere, non so in qual anno, dopo un arresto rischioso fatto a Torre Pellice, e servizi resi durante il colèra, a Villafranca. Al tempo del Delpero, era di stazione a Vigone. Il bandito era cercato da varii mesi, furiosamente, da tutte le parti. Da ultimo aveva ancora ucciso a tradimento due carabinieri, di notte, sulla via di Pollenzo, e cercava di assassinare il delegato di sicurezza pubblica di Pinerolo, certo Francia, al quale aveva già dato molti anni prima una stilettata mortale, per cui l’avevan mandato in galera; donde era fuggito freddando un guardiano. Il Gamalero faceva continue perlustrazioni, faticose e inutili, nei boschi di Vigone, dove si credeva che il Delpero s’aggirasse con la sua banda. Una sera che ritornava stanco morto da una di queste corse, gli dicono che il brigadiere, uscito poco prima dalla caserma, cerca di lui. Egli va difilato all’osteria dell'Orso marino, dove gli pareva più probabile di trovarlo. C’era infatti, con [p. 171 modifica]un altro carabiniere: li aveva mandati a chiamare l’ostessa perchè eran capitate all’osteria due “brutte facce.„ Il Gamalero entra nella stanza grande. A sinistra della porta d’entrata, all’estremità d’una lunga tavola, c’erano i due avventori sospetti, seduti l’uno in faccia all’altro, che avevano smesso di mangiare. Il brigadiere, ritto davanti a loro, col carabiniere accanto, — un mingherlino, un po’ tonto, — li interrogava. Un po’ più in là, a un’altra tavola, stava cenando un altro avventore, un negoziante di bovi, corpulento, che osservava con curiosità quella scena. — Appena entrato, disse il Gamalero, appena vidi la faccia di quello seduto di fronte alla porta, dissi subito tra me: — Quello è Delpero. — Era un giovine sui ventisei anni, d’alta statura, coi capelli neri e la barba nera, d’una pallidezza di morto. Il Gamalero s’andò a piantare alle spalle di lui, vicinissimo, senza fiatare; e il brigadiere gli fece un cenno col viso: — Occhio alle mani dell’amico. — Intanto continuava a interrogare. Richiesti delle carte, gli avevan presentato un passaporto e un certificato patentemente falsi: i connotati non corrispondevano, le firme eran tutte della stessa mano. L’uno si faceva passare per un mercante d’agrumi, l’altro per un negoziante di vino. Il brigadiere incalzava con le interrogazioni, e osservava intanto che una tasca della giacchetta del più grande presentava un rilievo singolare. — Datemi di nuovo il passaporto, — gli disse, — e alzatevi, che riconosca un’altra volta la statura. — To’! — gridò allora il Delpero cacciando fuori con rapidità [p. 172 modifica]fulminea una pistola, e puntandola al cuore del brigadiere. Ma nel punto stesso il Gamalero gli vibrava un formidabile pugno nel viso, che lo buttava a terra. Il brigadiere e il carabiniere s’avventano sul caduto; il Gamalero salta sull’altro, lo afferra pel collo, e lo porta via di peso, sbatacchiandolo attraverso alla stanza.... Qui bisognò ridere per forza a sentire come il Gamalero, interrompendosi, accennò di volo, senza ridere, la sveltezza prodigiosa, la velocità sovrumana con cui il grosso negoziante di bovi, al veder la mala parata, non fuggi, ma volò, svanì per la finestra. La lotta fu tremenda. Il Delpero, armato d’altre due pistole e d’un coltello, lottava per salvarsi dalla forca; la disperazione gli dava una forza formidabile, la rabbia l’aveva mutato in una belva, si scontorceva, ruggiva, picchiava, si rotolava sul pavimento, abbracciato ai due carabinieri, fra le panche rovesciate e le stoviglie spezzate, scalciando e addentando, facendo degli sforzi di dannato per afferrare l’altre armi. Il Gamalero voleva correre in aiuto ai due compagni, ma non attentandosi ad abbandonare il suo prigioniero, gli andava torcendo la cravatta, e allentandola a vicenda, quando lo vedeva annerire; gli dava un po’ di fiato, di tanto in tanto, per dirla con le sue parole, lo stretto necessario per vivere, come si fa con la chiavetta d’un becco di gas, che non si vuol nè spegnere nè tenere acceso. Il momento era terribile. C’era da temere che gli altri della banda fossero appostati là attorno; se accorrevano, tutto era perduto. Una persona s’affacciò alla porta: fu creduto un bandito; [p. 173 modifica]disparve subito; era un fratello dell’oste, mezzo scemo. Bisognava finirla. Il Gamalero, con una mano sola, stringendo il laccio più forte, strascinò il suo impiccato verso gli altri tre, afferrò un braccio all’assassino, gli fece cascar dal pugno la pistola, lo inchiodò a terra per la gola; e allora s’arrese, finalmente, e fu ammanettato. Subito accorsero guardie municipali e guardie nazionali. Il Delpero ansò per molto tempo. Le sue prime parole furono di rammarico perchè gli fosse mancato il colpo alla pistola. — Se non mi mancava, — disse con uno sguardo torvo al brigadiere, — a quest’ora lei sarebbe già in compagnia degli altri due. — Poi diede in smanie da forsennato, si dibattè, urlò che voleva morire, tentò di spaccarsi il capo contro il muro. In fine, si quetò, e fu portato alla caserma dei carabinieri, tra un urlìo orrendo della folla.... Ma io l’ho sciupato miseramente il racconto del Gamalero. È difficile farsi un’idea dell’eloquenza, disordinata, ma calda, gagliarda, scolpita, con la quale egli ci fece veder quella scena, e sentir quasi gli aneliti, i colpi, lo sgretolìo dei denti, le grida soffocate dei lottatori. A lui stesso pareva di ritrovarcisi, e gestiva, raccoltamente, ma con tale vigore, che quando torceva il pugno noccoluto per render l’atto con cui aveva serrato la strozza al suo fantoccio, mi pareva di sentirmi il colletto troppo stretto, e me lo sarei sbottonato con piacere. E tirò innanzi per un pezzo. Ci raccontò tutti gli altri avvenimenti della sua vita militare, dei quali non fu mica il più notevole l’arresto del Delpero: combattimenti sanguinosi con disertori, corpo a corpo, [p. 174 modifica]nelle tenebre, dentro a fossi della campagna; inseguimenti disperati d’assassini per stradoni solitarii, al lume della luna; lotte contro folle ammutinate, due contro cento, con la certezza della morte; il salvamento fatto da lui in una città dell’Emilia, d’un quadro del Guercino, sorprendendo con uno stratagemma astuto, di notte, i ladri che lo trafugavano; tante avventure e così strane e drammatiche, da far pensare perchè mai certi matti affamati di commozioni, che trovan la vita noiosa, non vadano ad arrolarsi nella “benemerita arma.„ Per la prima mezz’ora, parlò piemontese; poi, a poco a poco, si mise a parlare italiano, malgrado le nostre preghiere, quasi forzato da non so che capriccio fonico della memoria; un italiano stranissimo, tutto intessuto di frasi da rapporto e di parole vernacole italianate con una desinenza in i; ma che non ci facevan ridere, nè sorridere, perchè eran l’espressione ingenua e rozza di quello che aveva d’italiano nell’anima, un’eco della gran voce della patria unita, ch’egli era arrivato in tempo a sentire negli ultimi anni della sua vita di soldato. E s’accalorava parlando, senza mai perdere, peraltro, una certa ritenutezza severa d’aspetto e di modi: ci spiegava certi segreti del suo mestiere, certe prescrizioni che faceva ai carabinieri novizii, per esempio, per arrivar addosso a dei malfattori, di notte, per una via di campagna: andar per un pezzo a passi lunghissimi, tra il passo accelerato e la corsa, in punta di piedi, nel mezzo della via, dov’è più alta la polvere; poi, a breve distanza, spiccare una corsa precipitosa, la quale [p. 175 modifica]ottien quasi sempre l’effetto di “far perder la testa„ ai bricconi, che rimangon lì, intontiti e immobili, senza neanche l’idea della resistenza; e diceva questo a voce bassa e concitata, fissando nel muro i suoi assassini immaginarii, con l’occhio scintillante, come se li vedesse davvero. Poi riferiva gl’interrogatorii imperiosi, che faceva agli arrestati, per confonderli; con una tale efficacia di espressione li ripeteva, che a un certo punto del racconto, sentendomi una sua mano sul ginocchio, e vedendo i suoi grandi occhi fissi nei miei, mentre mi domandava viso a viso, con quel vocione: — E i mezzi di sussistenza? — rimasi un momento imbarazzato, e quasi lì lì per rispondergli, timidamente: — Ma.... non so.... m’ingegno.... — Parlava a cuore aperto, facendo comprendere, senza esprimerli, tutti i suoi sentimenti più intimi, vedere tutto il fondo della sua semplice natura: e non si può dire la rettitudine d’animo, l’abborrimento profondo del delitto, lo sdegno superbo della viltà, il nobile concetto del proprio ufficio, il forte e netto sentimento del dovere e dell’onore, che si rivelava dalle sue parole, dal suo accento, dal suo viso. Non pareva un semplice carabiniere che parlasse, in certi momenti, ma un giudice, che so io? uno di quegli austeri monaci antichi, incolti, ai quali la fede illuminava l’intelletto; tanto il suo parlare era grave, nonostante la scorrettezza, e sensato, fermo, dettato da una coscienza onesta, e da un cuore forte, sano e generoso. E non un’ombra di vanteria nel suo discorso: si sarebbe giurato sulla verità assoluta d’ogni parola; non un lampo [p. 176 modifica]di compiacenza vanitosa nel suo viso, benchè mi vedesse pigliar delle note mentre parlava. — Signori, comandano altro? — domandò quand’ebbe finito, come avrebbe detto ai suoi superiori dopo una relazione di servizio. E dataci una forte stretta di mano, se n’andò senza cerimonie, serio come sempre, quasi triste, verso la sua botteguccia.



Quando uscimmo, la valle era tutta piena di sole, il paese faceva la sua siesta, mezzo insonnito, dentro al suo grande letto verde, sotto la vigilanza guerriera del Vandalino, la sentinella gigantesca delle valli, la quale da qualunque parte ci trovassimo, pareva che ci s’alzasse sopra il capo. Quello, e tutti gli altri monti circostanti, così ridenti alle falde, si fanno terribili di forme e di memorie, innalzandosi. Nei loro fianchi s’aprono caverne spaventevoli, covi antichi di saraceni, e poi ricetto di valdesi cercati a morte, convertite in stanze di tortura e in sepolcri. Ma la vegetazione è così folta, florida, allegra, che le memorie sinistre dei luoghi vi rimangono sotto soffocate. Per un buon tratto, camminando, non vedemmo altro che verde e azzurro. Il terreno saliva dolcemente. Quasi senza avvedercene, ci trovammo sopra un bel poggio, al confluente del Pellice con l’Angrogna, dove sorgeva la torre famosa, che diede nome al paese, e un castello disputato per lungo tempo tra Francia e Savoia, e [p. 177 modifica]più volte rovinato e rifatto; con la storia del quale è legata in gran parte la storia del popolo valdese. Ora non ne rimangon che pochi ruderi, quasi nascosti dalle piante. Di là si vede, sotto, tutto Torre Pellice, e i due torrenti, e più lontano, Luserna, e a destra e a sinistra, monti dietro a monti, e poi la pianura infinita: tutto così bello e felice quando splende un sole d’oro nel mezzo d’un cielo di zaffiro, ripulito da una buona arietta di settembre. Eppure quello è uno dei più sciagurati e dei più sinistri luoghi del mondo; il luogo dove risedettero, trincierarono i loro reggimenti, ordirono le loro trame, e diedero i loro ordini terribili quei governatori di nefanda memoria, quel conte della Trinità, quel Castrocaro, quel marchese di Pianezza, quel conte di Bagnolo, al suono del cui nome par di sentire confusa un’eco lontana di grida di raccapriccio e d’angoscia. L’enorme macchina di tortura che per centinaia d’anni spremette sangue, oro e disperazione dal popolo valdese, era piantata là, su quel poggio così gentile. Di là partivano, a grosse colonne, quegli eserciti feroci, composti in parte di soldati regolari, in parte di volontari, di campagnuoli fanatici, d’irlandesi banditi dal Cromwell, di saccheggiatori e di scampaforche, che i governatori sguinzagliavan nelle valli come branchi di mastini a fare le vendette del Dio dell’Inquisizione. E là riparavano, ritornando dalle spedizioni contro Villar, Bobbio, Comba, Taillaret, Rorà, Pra del Torno, cacciandosi innanzi il loro bottino vivente, famiglie cariche di masserizie, seguite dal bestiame delle proprie terre, pastori incatenati [p. 178 modifica]come ladroni, giovani colle orecchie strappate a furia di morsi, vecchi coperti di lividure, donne insanguinate pazze di terrore, che vedevan già con l’immaginazione le tanaglie e le ruote del Sant’Uffizio, e si stringevan contro i fianchi le teste dei fanciulli sfiniti dalla fatica e soffocati dai singhiozzi. Là intorno, sopra le cime di quei bei monti, seguirono quelle fughe tragiche di popolazioni d’interi villaggi, avvertite in tempo dell’assalto imminente, erranti per le nevi, al lume delle stelle, gli uomini coi ragazzi assiderati sopra le spalle, le donne coi bimbi moribondi nelle culle, striscianti nell’ombra delle rupi, al fischio delle palle degl’insecutori, mentre giù nella valle si alzavano le fiamme delle loro case e gli urli dei loro fratelli sgozzati. Là, per quei sentieri, lungo i due torrenti, passarono, nelle giornate memorande della grande espulsione, diretti alla pianura, per esser dispersi pei conventi e per le galere, per andare a morire a mucchi, pigiati come bestie da macello, divorati dalla fame e dai pidocchi, nei fossati delle cittadelle e nelle prigioni immonde, passarono in file sterminate, a centinaia, a migliaia, i mariti separati dalle mogli, i parenti divisi dai figliuoli, poveri, signori, vecchi, donne, infermi, feriti, legati a due a due, e coppia a coppia, con lunghissime corde, fiancheggiati dai soci della propaganda fide che tentavan di strappare i bimbi alle madri, spinti innanzi a calci e a nerbate, coperti di scherni, di maledizioni e di sputi, come una turba di schiavi infami destinati alle fiere di un circo. E di là, infine, proprio dalla cima di quel poggio, fu dato il [p. 179 modifica]segnale di quelle stragi di Pasqua, di quella Saint-Barthélemy dei Valdesi, che strappò un grido d’orrore al mondo, e quei versi terribili al Milton; e dopo la quale degli uffiziali onorati buttaron la spada con disprezzo ai piedi del loro generale; là in quel tratto della valle e per tutto lo spazio che s’abbraccia di lassù con lo sguardo, famiglie intere, snidate dai nascondigli, raggiunte e accerchiate per le vie e per i campi, furon palleggiate sulle punte delle spade e delle alabarde; centinaia di sventurati fatti perire con quei supplizi inauditi, inventati dalle immaginazioni stravolte di carnefici pazzi e briachi, con quelle agonie eterne, la cui sola idea ci oscura la ragione; uomini e donne d’ogni età, sotto gli occhi dei loro più cari, scaraventati giù dai precipizii, scannati, scorticati, sbranati, ridotti lentamente un carname informe che urlava ancora, e i bambini sfracellati contro le roccie, in cospetto delle madri mutilate, a cui schizzavan le cervella negli occhi.... Oh! Maledizione! Dolore! Vergogna eterna! Esecrabili memorie che inferociscono il cuore, che destano, con l’immaginazione della vendetta, anche nell’anima dei miti, la sete di sangue che era nell’anima dei carnefici!... Ma un altro sentimento tien dietro subito all’indignazione: uno scoramento triste, un disprezzo infinito della bestia umana, che fu capace allora di commettere quegli orrori in nome della religione, che li commise più tardi in nome della libertà, che li commetterà forse domani in nome dell’eguaglianza; che è capace ancora, dopo sei secoli, di ricordarli senza ribrezzo e senza rossore, di scusarli, di giustificarli, di [p. 180 modifica]gloriarsene. Non ci è che un conforto a quel pensiero, ed è il considerare che quelle atrocità obbriobriose furono inutili a chi le commise, e duplicarono la forza di chi le patì. Non foss’anche stato il sentimento profondo della propria fede, sarebbe bastato l’orrore, l’odio che dovevan provare contro i macellatori, a mantener i valdesi eroicamente immobili nella loro ostinazione; la carne, le viscere loro, oltre che la coscienza, dovevano abborrire anche dalla sola idea d’una simulata conversione; dovevano nascere con l’istinto della resistenza disperata nel sangue i nipoti di quei martoriati. Che gigantesco orgoglio si saran sentiti nell’anima di fronte ai propri nemici! E come si capisce che dovessero amare disperatamente il loro paese, e amarsi tra loro, legati com’erano gli uni agli altri da quelle tremende memorie, dall’odio mostruoso che li circondava, e dall’immensa pietà delle sventure comuni!



Di lassù, guardando nel paese col canocchiale, vidi a una cantonata un cartellone di teatro che annunziava la rappresentazione del Ventaglio del Goldoni. Non potevo trovare migliore pretesto per rompere il filo delle riflessioni tristi. Ma la prima volta che si va tra i Valdesi, è difficile sprigionare il pensiero dal loro maraviglioso passato. Quelle tre date terribili: 1561, 1655, 1686, che sono come le tre piaghe sanguinanti della loro storia, mi pareva di [p. 181 modifica]vederle scritte nei muri, incise negli alberi, tracciate sulle vie, segnate per aria, e che avessero quasi il senso d’un rimprovero e d’un avvertimento: — Raccogliti, ricorda, medita! Non è questo un luogo dove tu debba far faccia da ridere, figlio dei persecutori! — Che volete? Qualche cosa sulla coscienza, un minimo che, leggerissimo, me lo sentivo anch’io; tanto che i saluti e gli sguardi benevoli che ci rivolgevano i campagnuoli, incontrandoci, mentre scendevamo, mi sembravano quasi una gentilezza immeritata. Insomma, tutta quella gente avrebbe bene avuto un po’ di diritto di darci quattro tanagliatine tra la spalla e il gomito, delicatissime, s’intende, per pura formalità di contraccambio. Tutti i putti che vedevo seduti davanti agli usci delle case, mi ricordavano quei cinquanta poveri bimbi dei Valdesi fuggiaschi da Pragelato, trovati morti gelati nella neve, gli uni nelle loro cune, gli altri fra le braccia delle madri irrigidite, lassù, sui monti della valle di San Martino, nella quaresima del 1440. Una ragazza bionda e graziosa, sui quattordici anni, che entrava in casa con un gran pane sotto il braccio, mi fece pensare a quella piccola eroina, che sorpresa dai soldati del conte della Trinità in una caverna, dove s’era rifugiata con l’avolo centenario, e visto trucidare il suo vecchio, spiccò un salto per scampare alle braccia degli uccisori, e rotolò morta sformata in fondo a un burrone. Una coppia matrimoniale, un po’ più in là, un ometto sulla cinquantina, un po’ curvo, che dava il braccio a una signora malata, di aspetto risoluto [p. 182 modifica]insieme e amorevole, mi richiamò alla mente quell’infelice Mathurin, e quella sua brava e buona Giovanna che volle morire con lui, nel 1560, legata alla stessa trave, sulla medesima catasta di legna, in faccia all’inquisitore generale e al prevosto generale di giustizia, nella piazza maggiore di Carignano. Quella stessa campagna così fiorente, la vedevo nuda in qualche momento, devastata, sparsa di rovine affumicate e di vestigia turpi d’accampamenti, come doveva offrirsi allo sguardo quando vi seguivano i casi maravigliosi che la resero celebre. Casi meravigliosi, infatti, anche per la mescolanza incredibile che presentavano di solenne, di bizzarro, di tragico, e a volte di ridicolo dall’una parte e dall’altra. Che strana cosa, quei brillanti aiutanti di campo che entravan di carriera nei villaggi, a intimare: — O alla messa fra ventiquattr’ore, o la morte! — e che riportavano al generale quelle risposte: — Meglio mille volte la morte che la messa! — E quei legati delle due parti che, nelle interruzioni dei combattimenti, si radunavano, ancora neri di polvere e stravolti, a disputare sul sacramento del battesimo, sulla supremazia del Papa e sulla transustanziazione! Strani, degni del pennello di un grande umorista, quegli sgomberi forzati dei conventi, quei monaci portati via sulle spalle dalle donne in mezzo alle grida festose del popolo: io li vedevo, per quelle strade, beccheggiare al di sopra delle teste della folla, come barconi sopra un’acqua agitata, e mi pareva che non fossero mica spaventati, alcuni di quei fratoni, di sentirsi di [p. 183 modifica]sotto le spalle rotonde di due robuste eretiche di venticinque anni, e che nell’appoggiar le mani sulle teste per non cadere, andassero palpando le grosse trecce con un’aria sorniona, sorridendo tra le palpebre semichiuse. E quelle sfide clamorose a disputare sul culto delle immagini e sulla presenza di Gesù Cristo nell’ostia, che si slanciavano da un paese all’altro, per lettera, monaci, gesuiti e pastori, chiamandosi a vicenda ignoranti, bestemmiatori, donnaioli e dannati; quelle scene tumultuose, quando i due avversari convenivan nelle chiese, l’uno seguito dai suoi Valdesi, l’altro da un codazzo di gentiluomini, di frati, di sagrestani e di bifolchi, in presenza d’un governator militare cattolico, che avrebbe dato fuoco a tutt’e due; e lì fiumi di chiacchiere, e grida, e gesticolamenti d’energumeni, e chi sa che birberie di cavilli, che scambietti d’arzigogoli da bastonate, e quante volte il santo randello sarà accorso in aiuto delle cattive ragioni! — Ma l’immagine che mi vidi più viva dinanzi per tutto quel giorno, che mi pesava quasi sull’animo come il ricordo d’un sogno spaventoso, come l’espressione di tutti i terrori e di tutti gli orrori della storia valdese, son quei convogli che passarono molte volte per quelle strade, nei secoli scorsi, quelle commissioni che venivan da Torino per estirpar l’eresia, in qualunque modo, con la persuasione, con le minacce e con la morte. Ah! no, studiate pure: voi non riuscirete a rappresentarvi alla mente un quadro più lugubre e più tremendo.... Il presidente del parlamento di Torino, dei [p. 184 modifica]consiglieri, dei membri del tribunale dell’inquisizione, una frotta di domenicani, di gesuiti, di arcieri di giustizia, e un seguito di contadini infanatichiti, armati di coltelli, e di predatori vagabondi raccattati per viaggio, e i frati cappuccini, e i birri, e il boia.... Raffigurateveli per una via di villaggio, di notte, che passano lentamente, fra le case mute, al chiarore delle torcie resinose che gettan per le finestre nelle stanze un riflesso delle fiamme del rogo; immaginate quel miscuglio di cappucci, di caschi, di pugnali, di crocifissi, di corde, quel rumore di catene e di tonache, quelle faccie barbute, quelle braccia in croce, quel mormorio di preghiere, quelle fiamme fumose e quell’ombre sui muri.... Ah! l’orribile cosa! In pieno giorno, in mezzo a quel bel verde e sotto quel bel cielo, la scellerata visione mi strappava un grido muto dall’anima: — Via, larve nefande, spauracchi abbominevoli del passato!.... — e svanivano; ma per riassalirmi ad un altro svolto di strada, come uno stormo di upupe, che uscissero improvvisamente da un cimitero.



I miei due compagni mi condussero a fare una visita a un loro amico valdese, un signore sulla sessantina, dotto e amabile, padre d’una famiglia numerosa e studiosa, sparpagliata per l’Europa. In quei giorni, ce n’era a casa una buona parte; signorine e giovanetti, d’aspetto serio e simpatico. La casa mi parve che [p. 185 modifica]ritraesse qualche cosa del carattere della religione: una grande semplicità, le pareti bianche, una pulizia olandese, un ordine rigoroso: l’apparenza d’una casa in cui tutti dovessero levarsi prestissimo, e studiare, pregare e ricrearsi a quelle date ore, a regola d’orologio, come in un collegio. Parlavano tutti francese. I Valdesi colti parlan quasi sempre quella lingua fra loro. La introdussero nel paese, dicono, i pastori che vennero chiamati dalla Francia e da Ginevra dopo che la peste del 1630 ebbe portati via quasi tutti i pastori nativi delle valli; e aiutarono anche a diffonderla i giovani mandati a studiare di là dalle Alpi, e i libri religiosi, scritti in francese. Ora, peraltro, in quella predilezione del francese c’entra anche un po’ di compiacenza, l’idea di parlare una lingua che tutti gli altri italiani vicini vorrebbero conoscere, e che essi conoscon meglio di tutti, e che è quindi, per loro, come un segno e un argomento di maggiore cultura. Ma si vanno italianando, lentamente, da parecchi anni. E intendo dire di lingua, perchè di cuore sono italianissimi, e non hanno punta simpatia, se così può dirsi, storica per la Francia; alla quale danno la parte maggiore di colpa nelle persecuzioni che ebbero a patire; non ostante che gli scrittori d’oltralpi s’ingegnino di persuaderli che i loro più funesti persecutori furono in ogni tempo gl’italiani. Certo, la quistione non è facile a risolvere. Ma questo è incontestabile, almeno: che la più terribile delle persecuzioni, quella per cui tutto il popolo valdese venne strappato dalle sue valli e disperso pel mondo, fu opera di Luigi XIV, [p. 186 modifica]e che gli orrori commessi in quell’anno dall’esercito del gran re nella valle di San Martino, stanno poco al di sotto delle famose stragi di Pasqua. Ma essi parlano di tutti quegli avvenimenti senz’ira, e quasi senza rancore, da vincitori che han perdonato; e perfino nei loro scritti storici, se qualche volta si lasciano sfuggire una parola violenta, non è quasi mai che una parola; alla quale segue subito l’espressione d’un sentimento di pietà e di benevolenza. Deriva anche questa moderazione dalla cultura, della conoscenza della storia, particolarmente, che è assai diffusa fra loro; per il che non cadono nell’errore di spinger troppo oltre le giuste recriminazioni, giudicando il passato con le idee del presente. Non c’è alcuno di essi che, nel giudicare le guerre atroci di cui furon vittime i loro padri nel sedicesimo secolo, non mostri d’aver chiaro in mente il concetto dello stato di quella Europa, divisa in due campi dalla religione, agitata furiosamente dal Papato, che andava riacquistando le antiche forze, insanguinata con egual furore da protestanti e da cattolici: il concetto, dico, della confusione di errori e di passioni di quel periodo di tempo, nel quale avevan color religioso tutte le guerre, e la teologia guidava la politica, ed era massima inconcussa in ogni Stato la necessità dell’unità religiosa, e che fosse fuor della legge chi era fuor della Chiesa, e che non si dovesse usare in materia di religione nè pietà nè misericordia. Perciò non si rifiutano di riconoscere, nemmeno nei più implacabili nemici di quegli anni, certe ragioni che valgono a [p. 187 modifica]scemare alquanto l’odiosità delle persecuzioni, o a spiegare almeno come le abbiano potute compiere, pure non essendo mostri di ferocia. Riguardo alla casa di Savoia, in particolar modo, mostrano una grande mitezza; la quale, per esser giusta, non è men generosa: pare che non ne ricordino che i benefizi. Rispetto ai primi duchi, lamentano l’ignoranza in cui eran tenuti, le favole calunniose con le quali venivano eccitati contro i Valdesi, dipinti a loro come gente depravata, selvaggia, impaziente d’ogni legge. Rispetto agli altri, sanno come fossero istigati, forzati alla violenza da Francia, da Spagna, da Roma; come anche i più severi di essi fossero rampognati, accusati di mollezza colpevole, specialmente dai Papi; come lo stesso Emanuele Filiberto, sotto il quale infuriò quel famigerato conte della Trinità, ripugnasse dalla guerra che il legato pontificio gli predicava necessaria con minacce e con rimproveri amari, e come manifestasse poi, con fiere parole, alla Corte di Roma la sua disapprovazione per il modo di procedere del Sant’Uffizio che “invece di punire, disperava„ e che era più atto “a distruggere, che a edificare.„ Ricordano con gratitudine l’ammirazione e la pietà di Filippo di Savoia. Non ignorano infine, che Vittorio Amedeo II resistette quanto potè alle istigazioni di Luigi XIV prima di rompere quella deplorabile guerra del 1686; che lo irritò con cento ripulse e con ogni sorta di scappatoie; che non cedette se non minacciato; che dovette cedere perchè il Re lo teneva sotto i piedi, per mezzo di Pinerolo e di Casale, e con [p. 188 modifica]un esercito accampato in val di Chisone. Con tutto questo, è vero, non si giustificano pienamente nè gli ultimi duchi nè i primi; poichè, se non altro, avrebbero potuto fare assai di più per render meno orribili le persecuzioni a cui furono in parte costretti. Ma è raro che un Valdese esprima risentitamente questo pensiero. Non era nella loro indole, — dicono, — non era nell’indole dei duchi quello spirito di persecuzione implacabile. La forza che trascinava alla crociata i grandi Stati cattolici, li travolgeva. La società onnipotente de propaganda fide li circuiva, li premeva, li aizzava, metteva loro la benda agli occhi e l’arma in pugno, li spingeva al sangue per disperazione. Dopo ogni persecuzione, infatti, sono come vinti dalla pietà, la generosità naturale del loro cuore ripiglia il di sopra, inclinano al perdono, accordano dei patti accettabili. Ma che vale? Il loro cattivo genio, il nemico dei Valdesi e di loro, che domina la nobiltà, la corte e la plebe, s’intromette, ristringe i patti, li nega, li viola, soffia nei rimasugli dell’incendio e fa divampare la fiamma. Senza dubbio, anche dalla parte dei Valdesi, sorsero qualche volta ostacoli alla pace e incentivi alla guerra. I loro predicatori non si restrinsero costantemente a difendere la causa propria, i ministri ugonotti venuti nelle valli fomentarono spesso la ribellione, predicando la costituzione d’una repubblica indipendente; e così gli uni che gli altri, con la propaganda del valdismo, seminarono la discordia religiosa nelle terre vicine, nè rispettarono sempre nei cattolici la libertà di culto [p. 189 modifica]che volevano in sè stessi rispettata. Ma sarebbe assurdo il fondarsi su questi argomenti per dire che la colpa delle immani barbarie commesse non deve cader tutta su quella inesorabile fazione papista, la quale non volle uscir mai dal dilemma della conversione o dello sterminio, e su quei generali senza dignità e senza cuore, che cercaron la gloria nelle carneficine per la rabbia di non poterla conseguire nelle vittorie. Questi hanno segnato d’infamia e rammentano con orrore i Valdesi.... Ma neppure contro questi si scagliano con quella eloquenza d’indignazione che pare dovrebbe essere irresistibile in loro: li giudicano invece e li condannano con un linguaggio severo e tranquillo di magistrati, con una specie di compostezza d’animo, che deriva pure in gran parte dalla loro indole forte, ma fredda, la quale si rivela massimamente in una mancanza d’impeto e di colore nelle loro scritture. È però facile riconoscere, anche sotto quel riserbo dignitoso, un sentimento profondo e vivo di alterezza, o come ora si dice, d’orgoglio nazionale; poichè nazione si possono chiamare veramente, sotto certi rispetti. Considerano sè medesimi come cristiani primitivi sopravvissuti nel nuovo mondo, e la propria religione come l’essenza stessa del cristianesimo; sono alteri di rappresentare il solo principio di protesta religiosa che abbia attraversato vittoriosamente i terrori del medio evo, di essere stati quasi i padri spirituali della riforma, oggetto per secoli d’ammirazione e di affetto in ogni angolo della terra dove battesse un cuore protestante; alteri delle loro sventure [p. 190 modifica]e delle loro battaglie eroiche, dì quella “gloriosa rientrata,„ principalmente, e di quella miracolosa difesa della Balsiglia, paragonabili davvero l’una e l’altra alle più grandi cose dei tempi antichi; alteri anche del presente; della floridezza, della istruzione, della operosità, della virtù del loro popolo, a cui il mondo protestante ha decretato il titolo glorioso di “Israele delle Alpi.„ Della virtù, dell’onestà sopra tutto, poichè, sebbene riconoscano essi pure di non essere più i Valdesi d’una volta, e ammettano che anche nelle valli, come dice uno dei loro scrittori viventi: “entrarono il lusso, il libertinaggio, la calunnia, la lite, il gioco, la crapula,„ hanno per fermo nondimeno, e non lo tacciono, che “il loro grado di moralità sia superiore a quello di tutte le altre popolazioni italiane.„ E veramente il giudizio della maggior parte di coloro che li conoscono da vicino, non discorda dal giudizio loro. Io interrogai anche pochi giorni fa un dottorino veneziano, un giovinotto allegro che visse molto tempo nelle valli. — Che cosa le pare? è davvero un popolo più morale degli altri il popolo valdese? — Con mia grande meraviglia, egli si rannuvolò. — Ah! — esclamò poi con tristezza, — pur troppo! — E domandato della ragione di quel pur troppo, mi raccontò una storia pietosa. Era innamorato d’una valdese, maritata, di umile condizione; ma bellina! ma cara! una delle più belle bocche che abbiano mai addentato un frutto proibito. E un giorno, trovandosi solo con lei, non all’aperto, la pregava, la scongiurava; e quella, che aveva simpatia per lui, [p. 191 modifica]resisteva, torcendo il viso, ma senza violenza, quasi con rammarico, cercando di acquietarlo con le buone parole, e pareva che non la dovesse durare più un pezzo; quando tutt’a un tratto s’alzò, corse in un canto, tornò con una Bibbia aperta, e gli disse: — Legga qui... e poi qui — con un accento commovente di preghiera, come se avesse voluto dire: — Mi rimetto alla sua coscienza, caro signore, abbia pietà dell’anima mia! — E il giovane lesse: Si un homme dort avec la femme d’un autre, l’un et l’autre mourra, l’homme adultere et la femme adultere.... Les enfants des adultères n’auront point une vie heureuse, et la race de la couche criminelle sera exterminée.... — E a quella lettura rimase lì, per servirmi della sua parola, come un asino; il quale suol dire d’allora in poi, come quel tal milanese dei Promessi Sposi: — Quelli che non credono che ci fossero untori... quelli che non credono alla moralità valdese, non lo vengano a contare a me, perchè le cose bisogna averle vedute....



Uscimmo da quella casa che tramontava il sole, e la valle e i monti eran già bruni; eccetto il Vandalino, che aveva ancora sulla testa un cappuccio d’oro. Per far l’ora della partenza, entrammo in un caffè, a carezzare il collo di una negrina di Bricherasio, ornata di un piccolo turbante rosso, che le dava una grazia maravigliosa. Là mi fu presentato un [p. 192 modifica]proprietario valdese, sulla quarantina, alto e poderoso come un dragone, e d’aspetto grave, ma d’umore lepido; uno di quegli uomini coi quali si piglia famigliarità fin dalle prime parole. — Badi, — mi dissero all’orecchio i due amici, scherzando; — questo è un Valdese chauvin. — E infatti, tra un sorso e l’altro, essendo caduto il discorso sulla storia valdese, io fui meravigliato della cognizione che n’aveva, non profonda, ma minutissima e precisa oltre ogni credere. È vero che non è difficile ai valdesi il conoscere la loro storia, a cagione della sua stretta unità, e del breve spazio che abbraccia. Ma quello faceva saltar sulle punte delle dita i pastori, i martiri, i sinodi, i combattimenti, le date soprattutto, come un cronologista di professione. Poichè era un chauvin, volli provare a stuzzicarlo un poco, ed egli s’accalorò, senza smettere lo scherzo, ma pure senza ridere mai, e dando alla discussione una forma curiosissima, come se si parlasse di fatti del giorno innanzi, ed io fossi ai suoi occhi il papismo incarnato. Io accennavo alla parte dei torti che avevan pure avuto i Valdesi, servendomi dello stesso suo modo di parlare. — Ma scusi, — gli dicevo, — lei mi saccheggia tutte le borgate della pianura, lei m’incendia i conventi, lei mi macella le pattuglie piemontesi colte alla sprovvista, lei mi passa ottocento irlandesi a fil di spada a San Secondo.... — Sta bene, — egli rispondeva, — ma quando, non avendo io fatto nulla ancora di tutto questo, lei mi svaligia la casa, m’ammazza i figliuoli, mi fa arrostire la moglie, apre la pancia ai [p. 193 modifica]miei fratelli per cacciarvi dentro dei gatti vivi.... — Un carabiniere ingenuo ci avrebbe messo le mani addosso a tutti e due. Io era ben d’accordo con lui, in fondo. E mentre tirava innanzi a ragionare, credendo che non fossi persuaso, non gli badavo, e andavo pensando che egli poteva essere nipote d’una di quelle sante sventurate che morirono di stento tra le nevi del Moncenisio, in quel tremendo inverno della cacciata, o discendente d’uno di quegli eroici vincitori di Salabertran, che, stremati dalle fatiche, furon ripresi prigionieri sui fianchi dello Sci, al momento di rientrare nella patria, riguadagnata a prezzo di tanti dolori e di tanti rischi.... Poveri e grandi Valdesi! E lui continuava a discutere, e non sapeva che gli avrei concesso dieci conventi e ottocento irlandesi di più, tanto il pensiero di quella sua possibile genealogia me lo rendeva simpatico e mi disponeva ad assentirgli ogni cosa. Ma come cioncava! Delle fiancate di Campiglione, Dio lo conservi, che se n’avessero ingollato la metà i campioni assiderati del bravo Arnaud, là sopra i monti bianchi di val San Martino, i francesi avrebbero lasciato trecento morti di più fra le rocce. — Bah! — concluse poi, guardandomi, dopo aver sbacchiato e fatto sonare la lingua, da buon bevitore soddisfatto, — son tutte cose passate; non si ricomincierà più, non è vero? — Per parte mia, — gli risposi, — glie lo do per sicuro; non sono mai stato inclinato alle carneficine; domandi pure informazioni. — Però, — soggiunse il più giovane dei miei compagni, — se tornando qui a violar [p. 194 modifica]la libertà di coscienza, si potesse sperare di esser portati via, come quei frati di Villar, da due paia di spalle.... a scelta! — Allora, finalmente, il valdese si mise a ridere. E sur cela, sopra quelle spalle, ci separammo amichevolmente; noi per ripartire per Pinerolo, e lui per andare a trincare in un altro luogo.



Era notte. Tutti quegli opifici, con le loro lunghe file di finestre illuminate, parevano tanti edifizi in foco, come quelle case di cartone che ci metton dentro un lume i bambini. Nel paese c’era quel brulichìo di ragazzi che annunzia l’ora d’andare a letto. Passando davanti al liquorista, rivedemmo a traverso ai vetri della finestra il profilo minaccioso del Gamalero. Nella piazza c’era un poco di passeggiata. Mi fece senso, a primo aspetto, dopo tutta quella fantasmagoria di guerre feroci di valdesi e di papisti, il veder passeggiare là un prete, giovane ed elegante, che si dondolava con una certa grazia di zerbinotto, guardando le signore; e mi parve che avesse una disinvoltura un po’ studiata, come un ufficiale parlamentario in un accampamento nemico. Alla stazione c’eran tre o quattro famiglie valdesi; qualche bel visetto: due o tre signorine, che avrebbero fatto bene a portar sempre la Bibbia in tasca, come strumento di difesa. Credevamo di fare il viaggio soli, quando al momento della partenza, salirono nel nostro vagone un signore e una [p. 195 modifica]signora, che attirarono la nostra attenzione. L’uomo era una figura straordinaria: poteva avere dai trentacinque ai quarant’anni: alto, robusto, una gran barba nera, la fronte ampia, due occhi neri dolcissimi, la carnagione rosea, un’espressione di grande bontà, una testa di Cristo, non so che cosa nel viso, o piuttosto nell’aria del viso, che faceva indovinare una vita sobria e serena, tutta pensieri e propositi benevoli, e un’anima semplice, ma piena di vigore e di coraggio. La signora pareva poco più che trentenne, piccolina, bruna di capelli e di viso, con due belli occhi di bimba, viva e allegra, come se partisse per una scampagnata. Eran vestiti di scuro tutti e due; il marito aveva una cravattina bianca. Si guardavano sorridendo, tratto tratto, e poi guardavano noi, con quell’espressione particolare della gente buona che riceve sempre una prima impressione favorevole dalle persone sconosciute. Non tardammo ad attaccare discorso. Dimandammo dove andavano. La loro risposta ci maravigliò molto. Andavano al Capo di Buona Speranza! In Inghilterra prima, dove si sarebbero imbarcati, e di là al Capo di Buona Speranza, e dal Capo nel paese dei Bassutos, della stirpe dei Cafri. Egli era missionario, nativo delle valli; la sua signora, figliuola d’un pastore di Torre Pellice. Il suo nome era Weitzecker. Andava a predicare il Vangelo nella parte della Basutoland non ancora convertita al cristianesimo, e aveva già imparato qualche cosa della lingua poetica e musicale di quel paese. Una casetta solitaria, abbandonata da un altro missionario [p. 196 modifica]che s’era spinto più avanti, lo aspettava laggiù, ai confini della barbarie. Partiva con un piccolo bagaglio, la Bibbia, e pochi altri libri; e sua moglie l’accompagnava, per rimaner là con lui. Andavano incontro a una vita di privazioni, piena di difficoltà, di fatiche ingrate, di pericoli, in una terra quasi selvaggia, a una sterminata lontananza dal paese dov’eran nati e cresciuti, ed eran così tranquilli, contenti anzi, come due sposi che facessero un viaggio di piacere.

— E ci va volentieri? — domandai al marito.

— Sì — mi rispose, — pensando allo scopo per cui ci vado.

— Non teme dei pericoli d’ogni genere, a cui va incontro con la sua signora?

— Il Signore ci aiuterà.

— E ritorneranno poi al loro paese?

— Prima di morire, speriamo.

Ma diceva questo con una naturalezza, con una dolcezza da non potersi esprimere. Gli si leggeva negli occhi che, all’occasione, sarebbe morto per la sua fede, con la placida intrepidezza di Gian Luigi Pascal o di Giaffredo Varaglia; e ci guardavano intanto, lui e sua moglie, sorridendo della nostra ammirazione, con la stessissima sfumatura di espressione benevola, come se avessero un’anima sola. Per un pezzo non trovai più parola; non potevo finir di pensare, con un sentimento di stupore, alla immensa distanza che separava il mondo morale in cui io vivevo, da quello in cui viveva quell’uomo. Insieme con l'ammirazione, io provavo quasi un senso di pietà per lui, e per il [p. 197 modifica]suo avvenire; ed egli forse provava un egual sentimento per me e per la mia vita. E non aveva mica, non poteva avere nessun secondo fine quell’uomo, nè di gloria, nè di guadagno, nè d’altri vantaggi. Abbandonava la patria, i parenti, dava un addio a mille cose care, rinunziava alla vita civile, si esiliava dal mondo forse per sempre, spontaneamente, col cuore lieto, non per altro che per andar a dire a gente sconosciuta, all’estremità d’un altro continente: — Siate onesti, amatevi, perdonate, pregate, sperate! — E poc’anzi, ricordando le stragi di Pasqua, io avevo parlato di disprezzo per la natura umana. Oh grande, immensa, maravigliosa natura umana! Quelle due anime gentili e intrepide valevano bene esse sole a purgarla di cento sanguinose vergogne. Io li avrei ringraziati tutti e due del bene che mi faceva la loro vista. E non osando parlare, augurai loro affettuosamente, dentro di me, che li accompagnasse un tempo felice sul grande Atlantico, che trovassero buona accoglienza in quei paesi lontani, che vi fossero amati, che vi vivessero contenti, che non vi perdessero dei figliuoli, che potessero tornare un giorno alle loro valli, e che vi fossero festeggiati da tutti, e vi chiudessero la loro nobile vita senza dolori, amandosi sempre, e benedicendo il passato. — E mentre pensavo questo, e tacevamo tutti, essi guardavano le Alpi, disegnate in nero sul firmamento, vedendo forse col pensiero un altro orizzonte, una pianura sterminata dell’Africa, colla casetta solitaria che li aspettava.